Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Israele e Palestina, fermare la deriva

a cura di in data 1 Febbraio 2010 – 16:05

Centro  in  Europa  2/2010 – É possibile far ripartire davvero il “processo di pace” tra israeliani e palestinesi, che si trascina da diciannove anni? Al momento lo stallo sembra superato: gli americani sono riusciti a fare accettare alle due parti l’idea di procedere con la formula dei “negoziati indiretti”. L’inviato George Mitchell farà la spola tra gli uni e gli altri tentando di costruire intese a dispetto dei dissensi.
Non lo attende un lavoro facile, ma può farcela perché i tasselli del mosaico finale sono noti a tutti. Sono al centro anche della lettera che 3560 ebrei dei diversi Paesi d’Europa, spesso considerati strenui difensori d’Israele, hanno presentato al Parlamento europeo. Un’iniziativa di grande valenza politica, che critica la colonizzazione dei Territori palestinesi ed evidenzia che la pace e la costituzione di  uno Stato di Palestina non sono delle concessioni al “nemico”, ma i fondamenti per salvaguardare e rafforzare i due pilastri dell’identità nazionale d’Israele: l’identità ebraica e la sua struttura democratica. L’appello lo afferma con chiarezza: se non imbocca questa strada, Israele “sarà posto di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno Stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio Paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in un perenne teatro di guerra civile”. E’ la verità. Ed è importante che a ribadirla siano veri “amici d’Israele”. In Israele Avraham B.Yehoshua si è rivolto con le stesse parole ai suoi governanti: “Continuando a insediarvi in territorio palestinese e a erigere nuovi insediamenti compromettete la possibilità di un confine concordato tra Israele e Palestina. Perciò in un prossimo futuro dovrete concedere la cittadinanza israeliana a tutti i palestinesi che avete conglobato e questo inciderà sensibilmente sul carattere ebraico della vostra nazione. Oppure, in alternativa, sarete costretti a mantenere un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi distruggendo così il sistema democratico israeliano”.
La ripresa del negoziato è il tentativo estremo di salvare la prospettiva dei due Stati e di evitare la soluzione diventata, in questi anni, la più plausibile: lo Stato unico, Israele senza Palestina. Ad essa hanno concorso due processi negativi: la forte crescita della colonizzazione ebraica e la disgregazione del campo palestinese. Il primo processo è stato studiato da Rubi Nathanson: è di 17,5 miliardi di dollari il valore attuale dell’insieme di case private, edifici pubblici, stabilimenti che si trovano nelle colonie in Cisgiordania, senza tenere conto di Gerusalemme Est. In Cisgiordania i coloni sono 300.000, più 200.000 a Gerusalemme Est. Questi ultimi vivono non solo nei rioni ebraici costruiti dopo la guerra del 1967; ora si tende a favorire il loro insediamento all’interno dei quartieri palestinesi. Per il Primo Ministro Netanyahu Gerusalemme Est non è una colonia, ma appartiene a Israele: proprio ciò che i palestinesi e la comunità internazionale non accettano, perché Gerusalemme non può non essere, nella prospettiva dei due Stati, la capitale di entrambi.
L’altro processo negativo è la divisione palestinese in due entità, la Cisgiordania controllata dai laici di Fatah e Gaza dai fondamentalisti di Hamas. Il declino di Fatah è un enorme problema, perché un forte partito laico e democratico è indispensabile per non lasciare la Palestina ad Hamas. Non va dimenticata la “guerra nella guerra”, quella tra palestinesi: il 15 aprile due palestinesi sono stati fucilati a Gaza perché ritenuti responsabili da Hamas di collaborazionismo con Israele; centinaia di palestinesi critici di Hamas in questi anni sono stati rapiti, torturati e uccisi.
Il negoziato darà risultati se gli israeliani capiranno che colonizzazione e pace sono tra loro inconciliabili e se i palestinesi troveranno l’unità. Hamas va sconfitto politicamente, dimostrando che il negoziato porta risultati positivi per i palestinesi, anche per quelli che vivono in quella prigione a cielo aperto che è Gaza. Ma essenziale è l’apporto della comunità internazionale. L’amministrazione americana, qualche mese fa, dava l’impressione di aver tolto la questione israelo-palestinese dalle sue priorità. Ma poi c’è stata la svolta: Obama si è ritrovato con due guerre con gli arabi, in Afghanistan e in Iraq, più una potenziale con l’Iran. La pace tra israeliani e palestinesi sarebbe la prova che il meccanismo può essere bloccato. A spingere in questa direzione è stato il militare americano più influente, David Petraeus, che parlando al Senato è stato netto: “l’insufficiente progresso verso una pace in Medio Oriente è la causa profonda di ogni instabilità”, fomenta il sentimento anti-americano, aumenta l’influenza di Iran e Al Qaeda, indebolisce gli arabi moderati. L’America ha chiarito che i suoi interessi politici e strategici non coincidono più, come finora, con quelli di Israele. E che non sarà più mediatore parziale. L’alleanza storica rimarrebbe, ma rimodulata: gli Usa potrebbero avanzare una loro proposta di pace,  concordata con Russia, Cina e Europa, che tutte le parti dovrebbero accettare, o respingere con conseguenze clamorose.
Insomma, nonostante le tante difficoltà qualcosa si muove. Ci sono segnali che consentono di tornare a credere nella pace.

Giorgio Pagano
L’autore si occupa di progetti di cooperazione in Palestina e in Africa; è segretario generale della Rete delle città strategiche e presidente, alla Spezia, dell’Associazione Culturale Mediterraneo.

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