Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
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“Impressioni da Jenin, Palestina” di Simonetta Musetti

a cura di in data 22 Ottobre 2009 – 12:51

altritaliani.net – giovedì 22 ottobre 2009 – Simonetta Musetti, attiva sul campo grazie ad un progetto di cooperazione internazionale, ci racconta la sua esperienza. In Palestina l’esistenza si gioca quotidianamente su un “dentro” ed un “fuori” del pubblico e del privato: di “qui” e di “là” dal muro,; il “noi” e “loro”; il muro che emotivamente e psicologicamente (per diversi passaggi storici e sociali) è dentro ogni cittadino palestinese. Il dentro ed il fuori poi, soprattutto negli ultimi decenni, ha inciso anche nel rafforzamento dei comportamenti e dei segni sociali, nella direzione di un forte tradizionalismo culturale, abbigliamenti compresi, soprattutto femminili.

Imad Hajaj su Al Quds dell’agosto 2009 propone una vignetta: una scatoletta di latta (tipo quella usata per conservare le sardine sott’olio), semi-aperta, con dentro casette dal tetto piatto e la bandiera palestinese, adagiata sulla sabbia. Dimenticata? Buttata? Smarrita? Questa scatoletta, nella realtà misura 5.800 km² (meno della provincia di Cuneo) e contiene 5,5 milioni di abitanti, oltre la metà dei quali sotto i 18 anni. La “cinge” il muro di segregazione lungo 770 km, ormai completato: lungo la sua linea ci sono 112 check point (agricoli e politici); dentro la Cisgiordania oltre 500 punti militarizzati (tra torri di controllo, barriere, blocchi stradali, check point veri e propri), 8 valichi di controllo a Gaza, dove dal 2005 non ci sono più insediamenti di coloni israeliani (fonte: Applied Research Institute-Jerusalem, ARIJ, marzo 2009). Un arcipelago (come appare nella cartina riportata sull’Atlante 2009 di Le Monde Diplomatique/Il manifesto) senza soluzione di continuità all’interno della Linea Verde che delimita la Cisgiordania, e tra questa e la Striscia di Gaza. Sono la Palestina, o meglio, i Territori Palestinesi Occupati; vale a dire quello che rimane ai palestinesi della cosiddetta “Palestina storica”, attualmente divisa tra territorio dello Stato di Israele (nato nel 1948 in attuazione del disegno sionista europeo, immediatamente riconosciuto dalle superpotenze) e Territori dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), occupati dai militari israeliani dal 1967, quando ancora appartenevano a Giordania (la Cisgiordania) ed Egitto (la Striscia di Gaza), oggi in attesa del riconoscimento giuridico di Stato. Che non c’è. Da decenni.

Ma ci sono donne, uomini, bambini, case, villaggi, città, olivi, ibiscus, limoni, gelsomini, grano, moschee, sinagoghe, chiese, settlements (insediamenti illegali), strade a grande scorrimento (dove i palestinesi non possono circolare), check point, soldati. “Chiunque interviene sullo spazio, spostando una porta, aprendo una finestra, scrivendo sui muri della città, dipingendo una facciata… questa operazione è l’inizio di fare ordine, che secondo De Martino è la maniera in cui il soggetto si radica nel mondo” (cito dall’articolo di Angela Varrastro).

Jesc dint!
Salam al aikum, Shalom…
Jesc dint!
Muro di segregazione, muro di difesa…
Jesc dint!
Entrare dentro? Uscire da dentro?

Chi era “fuori”, gli ebrei, torna dopo 2.000 anni su quella che considera Terra Promessa; chi è “dentro” da sempre viene cacciato. Profughi, case violentemente lasciate, case violate, case occupate, nomi di villaggi e città cambiati rapidamente (citarne alcuno…); chiavi pesanti, delle antiche abitazioni, tenute con sé da oltre sessant’anni e passate di padre in figlio. Lo Stato, la Nakba (la catastrofe). Parole che non/si comprendono. “Chiunque interviene sullo spazio, spostando una porta, aprendo una finestra, scrivendo sui muri della città, dipingendo una facciata… questa operazione è l’inizio di fare ordine, che secondo De Martino è la maniera in cui il soggetto si radica nel mondo”. Anche così?

Spesso privati della casa, dell’identità dei luoghi, mai della propria identità di persone e di popolo. Si sono rafforzati allora potentemente i segni dell’identità (e con essi la resistenza, l’Intifada, che significa “scrollarsi di dosso”, la lotta per il riconoscimento del proprio Stato), primo tra tutti la bandiera. A noi che guardiamo da qui, non appare con lo stesso senso con cui guardiamo quella italiana sui pennoni o nelle “missioni di pace”. Qui sta a ricordare ogni giorno il diritto al riconoscimento e all’esistenza. Esistenza che quotidianamente si gioca su un dentro ed un fuori (declinati al maschile ed al femminile) del pubblico e del privato; di “qui” e di “là” dal muro (o del reticolato elettrificato che lo sostituisce nelle aree agricole); il “noi” e “loro”; il muro che emotivamente e psicologicamente (per diversi passaggi storici e sociali) è dentro ogni cittadino palestinese. Il dentro ed il fuori poi, soprattutto negli ultimi decenni, ha inciso anche nel rafforzamento dei comportamenti e dei segni sociali, nella direzione di un forte tradizionalismo culturale (in Europa si direbbe “radicalismo religioso”), abbigliamenti compresi, soprattutto femminili.

Anche qui a Jenin questi segni sono ben visibili, a partire appunto dal corpo: innanzitutto luogo, casa di sé, rappresentazione di pensieri ed emozioni che sovente si “chiudono” nei cappottoni neri (jelbab) e nei foulard (mandil). Spesso cappotti bellissimi, soprattutto quelli delle giovani donne, mentre le giovanissime mettono i mandil colorati, molto spesso coordinati con le borse e le scarpe. Li portano fuori, negli spazi pubblici (la scuola, gli uffici, il mercato). Poi si “aprono” tornando dentro casa; qui si fa spazio al corpo che con agio riprende cittadinanza della casa e di sé (sic!, purtroppo ancora di un ruolo ed un posto antico assegnato!? Ma della complessità della vita delle donne palestinesi, come di milioni di altre donne, in altre latitudini, che tenacemente lavorano ogni giorno per i loro diritti, per i diritti di cittadinanza, per le economie delle proprie società, femminili e maschili, dovremmo qui aprire ancora un lunghissimo capitolo). Ancora un dentro ed un fuori.

Ed il luogo “privato”, la casa, solitamente mostra la sua compattezza all’esterno: forme cubiche massicce, rivestite di pietra, l’incisione dell’anno di costruzione (era cristiana e maomettana), il tetto-terrazza, le finestre senza scuri, le recinzioni inesistenti (o basse e spesso arboree nelle case dei ricchi), edifici che derivano dall’eredità architettonica antica, motivata da stili, clima, materiali locali, consuetudini e regole sociali. A queste si sono aggiunte, ed ormai consolidate, le regole date dall’occupazione, come le cisterne nere per l’acqua sui tetti (inequivocabile segno dell’essere in territorio palestinese), le finestre o le verande, protette da inferriate, ma che non privano totalmente la vista al panorama spesso “incredibilmente” rilassante.

Queste sono il luogo, o preludono ad un altro spazio interno, dedicato all’accoglienza: i numerosi ed ampi divani (o tappeti e cuscini) dicono dei molti abitanti della casa, della folta rete parentale; del piacere di ricevere, della relazione sociale che qui si gioca ancora e soprattutto in una dimensione privata ed è ancora principalmente il luogo delle relazioni femminili. È bere tchai nana, il tè alla menta, o il caffè aromatizzato con cardamomo. Stare insieme dentro casa. Jesc dint!

A Jenin, per le donne, sono pochissimi i luoghi pubblici dove prendere un caffè con le amiche, pratica ancora poco contemplata dagli usi sociali; gli uomini si incontrano nei “club”, eredità del protettorato britannico, oppure fanno capannello lungo i marciapiedi, davanti alle botteghe, fumando il tradizionale narghilè e bevendo gli immancabili tè e caffè. Alcuni mall, costruiti con i capitali di chi è emigrato in America o in Europa, e che occupano la new area della città in espansione, ridefinendone un nuovo profilo, accolgono i primi locali pubblici, per le famiglie. “Ramallah è un’altra cosa!”, ti dicono qui, con l’esaltazione o il fastidio per il mix tra vivacità mediorientale e look occidentale della capitale amministrativa palestinese (provvisoria, tengono a precisare).

Qui noi siamo “stranieri” (5 attualmente in tutta la città) ma Salam al aikum, fadale, “La pace sia con te, accomodati”, “Veniteci a trovare” (e ti aspettano davvero!), il cibo, il caffè, ci sono costantemente offerti. E le case che si aprono all’accoglienza si aprono pian piano al racconto di sé. Qui, come in tutta la Palestina, non c’è racconto che non parli di come altri siano entrati senza chiedere permesso; di case occupate militarmente; di soldati e carri armati per strada; di mesi, anni, passati in carcere; di morti uccisi; di “martiri” (nel campo di Jenin sono nate le Brigate dei martiri di Al-Aqsa) che hanno compiuto attentati suicidi; spesso di un’acuta e critica lettura della situazione politica interna palestinese o degli accadimenti quotidiani in Cisgiordania; del “confine” qui vicino.

Solo qualche giorno fa (dopo le proteste tra arabi e polizia israeliana a Gerusalemme, i “caccia” hanno sorvolato le nostre teste per molte ore, di giorno e di notte), intorno alle 4 del mattino, i soldati israeliani sono entrati nel campo profughi; difficile non sentire, noi abitiamo in un quieto quartiere cittadino posto all’ingresso orientale del campo. Nella notte, le voci dagli altoparlanti si diffondono inequivocabilmente: “Non uscite dalle case!” è la traduzione di parole intimate in ebraico e forse in arabo. Nel 2005, i soldati israeliani erano presenti in città; Ahmad Katib, un ragazzino di 12 anni venne ucciso; per errore, dissero. La sua famiglia decise di donarne gli organi che oggi vivono in 5 ragazzini israeliani. Al check point di Al Jalama (5 km da Jenin, postazione importante perché al confine tra i due territori) non volevano far passare l’ambulanza verso l’ospedale di Haifa. È una storia raccontata nel film/documentario The heart of Jenin del regista tedesco Marcus Vettell.

Nell’Aprile 2002 il campo profughi venne colpito dall’esercito israeliano, ci furono oltre 100 morti e parte delle case distrutte; fu molto difficile, per un lungo periodo, per tutti gli abitanti di Jenin poter stare fuori casa, andare a lavorare, a scuola. Jesc dint! Ed il campo è un altro luogo della città da cui si esce o si entra come se ci fosse non solo uno spostamento urbano tra quartieri contigui ma l’attraversamento di una linea interna. Solitamente i campi (che hanno una gestione autonoma rispetto alla città accanto a cui sorgono, facendo capo all’UNRWA, agenzia ONU) dopo la sostituzione delle tende con fabbricati, rispettano tutti una struttura che da provvisoria si è trasformata in stabile, accogliendo lentamente i figli, i nipoti … dei profughi del 1948. Le case sono strette una all’altra e qui salgono verso l’alto (per la configurazione di Jenin che si snoda su 5 colline); ma tetti-terrazza ci sono, come pure le signore anziane sedute sui gradini delle case, con gli abiti tradizionali, gli uomini sono seduti davanti ai negozi; dalla strada che ne segna l’ingresso principale (con una vera e propria porta, come si usa nelle città e nei villaggi arabi) si infittisce la ragnatela di stradine. I segni degli spari, gli edifici ricostruiti dopo il passaggio dei carri armati, si riconoscono; sono visibili le associazioni ed i luoghi che lavorano con i bambini e i ragazzi del campo. Ci dicono spesso di non andare da soli, non ci riconoscono; il campo è un luogo difficile anche per la città ma un Salam al aikum non ce lo nega nessuno, lungo la strada grande.

Oggi si cammina molto a piedi per le strade di Jenin (come abitualmente in tutta la Palestina); prima del 2005 era molto più difficile, la città era militarmente occupata dagli israeliani, che l’hanno “lasciata” dopo l’evacuazione di due settlements ad est del centro abitato (insediamenti dismessi nel quadro del ritiro parziale dei coloni comprendente anche Gaza). Fino al 2000 era possibile andare a Nazareth, 55 km da qui, Afula, 30 km, Haifa, 40 km. Ora no. Jesc dint!

Arabis, qualche settimana fa scriveva: “Gerico poco più di diecimila anni fa, è stata protagonista di una delle più formidabili svolte nella storia dell’umanità … gli uomini, prima, vivevano in bande e, una volta raggiunta la soglia critica, si scindevano … per la prima volta, a Gerico, tale “scissione” non si verifica … Vivere insieme, vivere in tanti, insomma, sarebbe un’esigenza sociale … e si sarebbe liberata ed imposta per la prima volta a Gerico, diecimila anni fa”. Gerico è a 100 km da Jenin, nello stesso territorio della Cisgiordania; si possono incontrare anche 7 tra check point e altri blocchi; quanto al tempo per arrivarci, dipende dalle condizioni e da quale delle due strade per arrivarvi è percorribile. Ora pare un periodo tranquillo, ne bastano 2. I palestinesi non possono usare le strade a grande scorrimento costruite con facilità e velocità dagli israeliani per collegare tra di essi i loro insediamenti (illegali). Salam al aikum, Jesc dint!

Simonetta Musetti è insegnante di scuola dell’infanzia del Comune di La Spezia. E’ “facilitatore” nell’ambito del progetto di cooperazione decentrata tra i Comuni di La Spezia e Jenin. Tiziano Ferri è operatore sociale internazionale; “facilitatore” nell’ambito del progetto di cooperazione decentrata tra i Comuni di La Spezia e Jenin.

Il progetto.

Sinteticamente il “Progetto di cooperazione decentrata in ambiti socio-economicio e socio-educativio presso il centro giovanile Sharek a Jenin, Palestina” (cooperazione tra le municipalità di La Spezia e Jenin), della durata di un anno, ha come obiettivo la realizzazione di 10 progetti pilota (destinati a 30 giovani, in situazione di rischio sociale, ragazze\ragazzi provenienti sia dell’area di Jenin sia dal campo profughi) da svolgersi presso altrettanti artigiani\e locali (definiti persone-risorsa) selezionati in base alle loro capacità professionali, di innovazione nel loro ambito lavorativo e di buone capacità relazionali. Presso ogni artigiano\a svolgono attività un gruppo di circa 5 ragazzi\e (seguiti da un operatore locale per gruppo, una sorta di tutor, selezionati all’avvio del progetto) che, una volta terminato il tirocinio lavorativo, saranno in grado di svolgere autonomamente l’attività sia in senso tradizionale sia in direzioni innovative. Sono in corso di realizzazione, inoltre, due progetti interni al centro Sharek, in collaborazione con associazioni e professionisti locali, ciascuno destinato ad un gruppo di circa 20 volontari.

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