Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Una piccola cifra contro la fame

a cura di in data 29 Settembre 2010 – 09:07

Il  Secolo  XIX – 29 settembre 2010 – La conferenza convocata dall’Onu per fare il punto sugli Obiettivi del Millennio, il piano antipovertà varato dai leader mondiali nel 2000, si è conclusa con gli interventi -che volevano essere rassicuranti- di Barack Obama e Ban Ki-moon. Il Presidente americano, in un discorso ispirato, ha sferzato i Paesi ricchi perché facciano di più. Il segretario generale dell’Onu ha annunciato una nuova iniziativa da 40 miliardi di dollari. Parole che suscitano speranza ma anche scetticismo, perché troppe volte la politica degli annunci è stata smentita dai fatti. Nessuno ha detto con esattezza da dove perverranno le risorse promesse: impegni aggiuntivi dei Paesi ricchi, che non hanno mai dato tanto poco come ora, non ce ne sono stati. Solo promesse generiche, che quindi  rischiano, come in passato, di rimanere sulla carta.
Quasi tutti gli Obiettivi, ormai è certo, non saranno raggiunti: è una drammatica sconfitta, che significa sofferenze e ridotte speranze di vita per milioni di poveri. Innanzitutto i sottonutriti: 925 milioni, secondo il dato della Fao sulla fame nel mondo nel 2010. Nonostante una prevista diminuzione -la prima in 15 anni- il numero rimane inaccettabile. Il dato è comunque superiore a quello precedente la crisi, economica e alimentare, del 2008-2009 ed anche a quello del 2000, quando, con il Primo Obbiettivo del Millennio, ci si propose di ridurre della metà il  numero degli affamati nei Paesi in via di sviluppo. Ogni sei secondi continua  a morire un bambino per problemi legati alla sottoalimentazione, oltre 5 milioni l’anno: le vittime della fame sono 18 milioni l’anno, un terzo delle morti totali sul pianeta.
La spiegazione della diminuzione dei sottonutriti sta, per la FAO, nell’aumento della produzione cerealicola e nella conseguente diminuzione dei prezzi degli alimenti. Ma la stessa FAO ci ricorda che nell’immediato futuro si prevedono produzioni minori, e che i prezzi hanno già ripreso a risalire. La verità è che, per affrontare le cause della fame alla base e per evitare la volatilità dei dati positivi, i Governi dovrebbero promuovere investimenti nell’agricoltura, puntare sulla biodiversità degli ecosistemi e sulle produzioni locali, contrastare i cambiamenti climatici, espandere i programmi di assistenza sociale e promuovere attività che producano reddito per i più poveri. Di tutto questo a New York si è parlato, ma poi? Niente assicura una svolta reale.
E’ vero quello che è stato ribadito alla conferenza: c’è un problema di efficacia degli aiuti, ed è importante che i soldi devoluti non vengano sprecati e che stimolino la crescita e l’autogoverno locali. Ma ciò deve spingerci a migliorare l’efficacia degli interventi, non a ridurre gli stanziamenti.
Basterebbe che la  percentuale di aiuti allo sviluppo raggiungesse lo 0,7% del Pil di ogni Paese. Un aumento degli aiuti di 44 miliardi di dollari l’anno, ben spesi, dimezzerebbe la fame nel mondo. I Paesi del G20, per far fronte alla crisi finanziaria, hanno speso 12 trilioni di dollari: 272 volte di più! Quel che non si trova, alla fine, è “una piccola somma”. E se non si trova vuol dire che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nella logica neoliberista che domina il mondo. Il sistema finanziario dovrebbe “ripagare”, sia pure solo in piccola parte, quello che è stato speso per salvarlo dalla crisi: con una tassa internazionale sulle transazioni finanziarie, che sarebbe un segnale forte contro la speculazione finanziaria e per reperire risorse da destinare ai Paesi più poveri. Forse la notizia più positiva emersa dalla conferenza è che questo strumento, fino a poco tempo fa proposto solo dal movimento altermondialista, è stato fatto proprio da leader come Nicolas Sarkozy e  Josè Luis Zapatero. Non è stato accolto, ma è ormai centrale nel dibattito internazionale e prima o poi non vi si potrà sfuggire: nell’interesse dei Paesi poveri e anche di quelli ricchi, perché se quelli poveri miglioreranno le loro condizioni sarebbe tutta l’economia mondiale a beneficiarne. E l’immigrazione sarebbe meglio governata.
Ma una notizia ancora più importante viene, nonostante tutto, proprio da una parte dei Paesi poveri. Lo spiega uno studio di Action Aid, che contiene un’analisi differenziata, Paese per Paese, dell’impegno profuso nel raggiungimento del Primo Obbiettivo del Millennio sia dai Paesi in via di sviluppo sia da quelli più sviluppati. Le peggiori performances tra i Paesi poveri sono quelle di molti Stati africani (Burundi, Lesotho, Congo, Sierra Leone…), mentre quelle migliori si registrano nella stessa Africa (Ghana e Malawi), nel Vietnam e nel Brasile. Questi Paesi hanno dato un drastico taglio agli indici di povertà. Il Malawi, per esempio, ha diminuito il numero delle persone che necessitano di aiuti alimentari da 4,5 milioni nel 2004 a meno di 150.000 nel 2009; il Brasile da 21 milioni nel 2003 a 9 nel 2008. Bisognerebbe studiare i programmi di lotta alla povertà di questi Paesi e proporli nei Paesi che sono più indietro.
E tra i Paesi ricchi? Se consideriamo i fondi per la cooperazione, il sostegno al’agricoltura, alle politiche sociali e alle politiche energetiche per combattere i cambiamenti climatici, in testa ci sono Lussemburgo e Finlandia. Gli Stati Uniti sono in coda, così come l’Italia: siamo passati dallo 0,22% del Pil dedicato alla cooperazione nel 2008 allo 0,16% del 2009. Il peggior dato di sempre, lontanissimo dallo 0,7% necessario. Un quarto in meno della Francia. Dal G8 del 2005 ad oggi l’Italia ha mantenuto solo il 3% degli impegni presi: non a caso Bono Vox chiama Silvio Berlusconi “Mister 3%”. Bisognerebbe indignarsi di più. Perché per chi ci governa l’Africa è solo la Libia di Gheddafi. E la nostra politica estera fa gli interessi personali del Presidente del Consiglio ma dimentica i drammi del mondo.

Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa; è segretario generale della Rete delle città strategiche e presidente dell’Associazione Culturale Mediterraneo

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