Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Se dalla Fiat nasce un PD nuovo modello

a cura di in data 21 Gennaio 2011 – 18:45

Il  Secolo  XIX – 21 gennaio 2011 – Sergio Marchionne ha vinto sul filo il referendum di Mirafiori e rilancia in un’intervista a Repubblica il suo disegno, annunciando di voler estendere l’accordo agli stabilimenti di Melfi e di Cassino. E’ in buona compagnia: per Federmeccanica “bisogna prevedere la possibilità che il contratto aziendale sia sostitutivo di quello nazionale”. Mentre il ministro Maurizio Sacconi parla degli accordi di Pomigliano e Mirafiori come di “termini di riferimento per il Paese”.
E tuttavia Marchionne lascia trasparire una minor sicurezza di sé e una minor forza: è troppo intelligente per non capire di non avere l’egemonia in fabbrica. I lavoratori torinesi, che dovevano votare, per conto di tutti i lavoratori italiani, la rinuncia a molti diritti, hanno difeso la loro e altrui dignità. L’hanno fatto con il risultato inaspettato del no. Ma anche chi ha votato sì, in una condizione non libera, ha espresso sofferenza. E’ scattata una ribellione profonda: gli operai non vogliono essere persone sole e isolate rispetto alle ragioni del mercato, considerate da tanti come le uniche valide. Saggezza vorrebbe che la Fiat riaprisse un confronto vero: le fabbriche, per funzionare, hanno bisogno di un consenso che ora essa non ha. Lo ha spiegato il sociologo Ulrich Beck: “Più si tagliano i diritti, più si riduce l’identificazione del dipendente con il datore di lavoro. E si deprimono produttività e creatività, le uniche armi sensate che ci restano per competere con i Paesi emergenti”. Marchionne, che vuole sostituire la dialettica tra le parti con il plebiscito, farà di tutto per non cedere, ma la partita si è riaperta. “Devo recuperare il 50% di no”, ha ammesso. Ha ragione lo storico Marco Revelli: “Il risultato toglie a Marchionne ogni alibi, gli impone di scoprire le carte e di cambiare registro se vuole veramente governare la fabbrica”. Come farà a “recuperare” quel 50% privandolo della rappresentanza? La Fiom oggi è più forte, e lo sciopero nazionale dei metalmeccanici lo dimostrerà. Perché gran parte dei lavoratori italiani non vuole che nella sua azienda succeda quello che sta avvenendo in Fiat. E perché cresce la consapevolezza che questa vertenza sindacale ha ormai la rilevanza generale di un evento, per dirla con Revelli, “di natura costituente”, che riguarda tutti i cittadini: quella “ridefinizione del rapporto tra capitale e lavoro” di cui ha scritto Ezio Mauro, che fa sì che il lavoro, separato dai diritti, torni ad essere semplice merce e non sia più quell’elemento di dignità e di emancipazione che non a caso è a fondamento della nostra Costituzione. Cresce la convinzione che può e deve esserci un modo per aumentare la produttività salvaguardando i diritti, per uscire dalla crisi con un altro modello sociale, che metta al centro e non penalizzi le persone.
Il voto crea dunque le condizioni di una controffensiva per combattere l’idea che la modernità secondo Marchionne è l’unica modernità possibile e per riportare il lavoro e non il profitto a fondamento della Repubblica democratica. Ma non si può immaginare un cambiamento generale dei  rapporti di forza solo con le lotte sindacali. Nella crisi degli anni ’30 il cambiamento vi fu grazie alla politica. Quella della sinistra che seppe pensare un modello di sviluppo diverso: il New Deal di Franklin Delano Roosevelt in America e il Welfare State socialdemocratico nei Paesi scandinavi. Oggi, in un contesto molto diverso, il problema centrale è lo stesso, quello del modello sociale. Per dirla con Beck, servirebbe “una sinistra non nostalgica, socialdemocratica, con un’aggiunta ambientalista e, ovviamente, transnazionale”. Il guaio per il mondo del lavoro è che manca in Europa, e ancor più in Italia, una forza di sinistra all’altezza di questa sfida. Ancor più da noi perché dalle ceneri del Pci e del Psi non è sorta una forza di sinistra capace di capire che non ci sono solo gli individui ma anche le classi sociali. Tutta presa dal tentativo di capire Silvio Berlusconi, la sinistra non ha capito il pericolo che veniva da Marchionne, e che il problema centrale stava diventando quello del rapporto tra politica democratica ed economia: il disegno teso a far avere un ruolo ancillare alla prima rispetto alla seconda, costringendola a rinunciare a dare un equilibrio alla complessità sociale per appiattirsi sugli interessi del più forte. Ecco allora il “realismo scivoloso” e l’”incultura gregaria” di una parte della sinistra, per usare termini di Carlo Galli e di Ezio Mauro: la subalternità allo spirito del tempo, l’assenza del pensiero critico, la resa alla lettura neoliberista della globalizzazione. Quella che dà del “conservatore” a chi difende il contratto nazionale. Quella che sostiene -giustamente- che bisogna andare oltre il Novecento, ma poi ci chiede anche di uscire dal Novecento dell’eguaglianza e dei diritti per farci precipitare nel baratro di un nuovo Ottocento.
Alberto, giovane operaio di Mirafiori, ha detto alla Stampa: “l’antiberlusconismo è molto diffuso, però l’odio più forte che respiro dentro è verso il Pd, loro ci hanno svenduto”. Lo storico Piero Bevilacqua ha scritto che “la scelta di equidistanza tra le classi e il moderatismo sociale fanno del Pd un partito inservibile”. La stessa Susanna Camusso ha parlato di “sinistra senza bussola”. In questa legislatura il Pd non ha mai invertito la tendenza al ribasso, nonostante il fallimento di Berlusconi. Gli è sempre mancato il tema da imporre all’attenzione del Paese, che rendesse chiaro “a cosa serve”, qual è la sua funzione. L’occasione, forse l’ultima, è quella della Fiat e del lavoro. La proposta di Nicola Latorre e Goffredo Bettini, ex principali collaboratori di Massimo D’Alema e Walter Veltroni, di rifondare il Pd e di chiamare alla sua rinascita Nichi Vendola e altre forze politiche e civiche ha più di una ragione, soprattutto se ha il fine di costruire una nuova grande “narrazione” sul lavoro che contrasti il capitalismo autoritario. Il problema del Pd è questo, non l’ossessione del terzo polo.

Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa ed è segretario generale della Rete delle Città Strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo

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