Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

Leggi articolo intero »
Crisi climatica e nuove politiche energetiche

Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

Quale scuola per l’Italia

Religioni e politica

Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

Home » Il Secolo XIX nazionale, Rubrica Opinioni

La politica alimenti la convivenza, non la paura

a cura di in data 13 Gennaio 2010 – 08:36

Il Secolo XIX – 13 gennaio 2010 – A Rosarno abbiamo vissuto una pagina di vergogna, che ci riguarda tutti. Ha ragione il direttore di questo giornale: in Italia ci sono gli schiavi e gli ipocriti. Gli schiavi: gli immigrati che lavorano da trent’anni nell’agricoltura del Mezzogiorno senza alcuna tutela e che vivono in condizioni disumane in luoghi che sono veri e propri gironi danteschi. Gli ipocriti: tutti coloro che, da anni, conoscono e tollerano un sistema che si regge su una manodopera clandestina sfruttata fino all’osso, spesso dalla malavita. La vera tolleranza da sconfiggere è questa, non quella  verso i poveracci di cui parla il ministro Maroni.
Ha ragione anche l’Osservatore Romano: in Italia ci sono i razzisti. Per non essere ipocriti, dobbiamo trattare gli immigrati da lavoratori e non da schiavi e chiamare razzisti i razzisti, combattendo a viso aperto le loro idee. Le reazioni inconsulte degli africani a Rosarno sono dovute non solo all’inferno delle loro vite ma anche, ha detto il vescovo Agostino Marchetto, segretario del dicastero vaticano dei migranti, “agli atteggiamenti xenofobi e razzisti”.
L’Italia è un Paese razzista? Dobbiamo rispondere senza alibi: molti italiani lo sono. Perché c’è una politica che alimenta la paura e l’odio verso l’altro. I tanti episodi, che non possono più essere definiti “casi isolati”, in cui una persona viene insultata, aggredita, discriminata per via della sua appartenenza etnico-religiosa o anche solo per il colore della pelle sono ormai una normalità che difficilmente fa notizia. Quando un partito di governo come la Lega diffonde su Facebook un gioco di società intitolato “Rimbalza il clandestino”, festeggiando con il suono di un campanello la sparizione di ogni barca di migranti, vuol dire che la velenosa ideologia dei “sottouomini” è rientrata nel nostro senso comune. Che ci sia un nuovo razzismo italiano lo sostiene anche Gian Antonio Stella, che con il libro “Negri, froci, giudei & Co.” ha realizzato un potente e doloroso dizionario di tutti gli odi e i pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere, un repertorio dell’eterna paura degli umani per altri umani. Le ricerche concordano con questa tesi: per esempio uno studio 2008 di Demos-La Polis documenta che in Europa, a parte i paesi dell’Est, nessuno quanto gli italiani considera superflui gli immigrati per l’economia nonostante producano quasi un decimo della ricchezza; e che nessuno quanto gli italiani (51%) li vede come una “minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza”. Siamo 14 punti sopra il Regno Unito, 21 sopra la Germania, 29 sopra la Francia. Il sondaggio del Transatlantic Trends sull’immigrazione conferma che gli italiani giudicano gli immigrati troppi e in prevalenza irregolari: non conoscono i dati reali, e hanno paura. Anche i nostri giovani sono sempre più disinformati e chiusi verso gli altri. Almeno rispetto ai giovani del resto d’Europa, come emerge da una ricerca della Fondazione Intercultura.
Paura è la parola-chiave per capire questi fenomeni che, dice Stella, “sono lo spurgo di una società in crisi”. Per arginare la paura ci si trincera dietro un magro numero di certezze, rifiutando l’altro.
Che fare, allora?  Per evitare l’eterna guerra contro l’altro, una politica responsabile deve cercare di impedire che si creino situazioni di conflitto che esasperano i pregiudizi, i risentimenti, le violenze. Deve capire la paura, reazione spontanea di tutti verso ciò che non si conosce, combattere la strumentalizzazione politica della paura, costruire un clima di fiducia e di rispetto reciproco.
Nelle tante Rosarno d’Italia significa rendere dignitose le condizioni di vita dei braccianti immigrati e liberarli dalla schiavitù, permettere loro di lavorare nella legalità, perseguire chi li sfrutta,  ricostruire un rapporto tra loro e le popolazioni locali. Non serve a nulla mandarli via per poi ritrovarci punto a capo con altri schiavi che li sostituiranno a fare lavori che nessuno in Italia vuole più fare.
Una politica responsabile che combatta il razzismo deve poi occuparsi della “questione Islam”. Il referendum svizzero contro i minareti, così come l’opposizione della Lega, ma anche di tanta parte del Pdl, alla moschea a Genova, contribuiscono a innalzare altri muri di diffidenza e ostilità. Sono segnali pericolosi, di un’islamofobia che è il collante ideologico di movimenti e partiti di destra che fanno del razzismo il loro punto di forza, e che danno in questo modo spazio all’islamismo fondamentalista e illiberale. Certo, la questione dell’integrazione dei musulmani in Europa esiste davvero, non può essere rimossa. Ma si può affrontare solo con la convivenza, con il rispetto reciproco, che è rispetto delle leggi e dei diritti di tutti. Il problema non è lo scontro di civiltà, Islam o anti-Islam, ma la garanzia di una società libera per tutti. Convivenza e rispetto sono cose che si imparano con fatica. Dovrebbe essere questo il compito di una classe dirigente degna di questo nome: educare gli istinti più nobili di un popolo, non evocare gli “spiriti animali”, fare leva sulla passione civile che pure è presente in Italia. E modificare stati d’animo e orientamenti diffusi. In fondo la frase ricorrente “Non sono razzista, ma…” fa intuire un’incertezza, un’inquietudine. Una posizione che può essere smontata e cambiata. La diversità, ha scritto Predrag Matvejevic, non è di per sé un valore, né la mia né quella dell’altro, ma il suo valore dipende dal rispetto che essa ha -o non ha- nei confronti della dignità di tutti gli uomini. La diversità ha cioè valore se scopre l’altra sua faccia, quella della somiglianza. E la somiglianza porta alla convivenza e non fa giocare alla paura il ruolo di sentimento dominante.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).

Popularity: 12%