Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Ricordo di Antoni nemico dei miti

a cura di in data 15 Marzo 2009 – 17:50

Il  Secolo XIX – 15 marzo 2009 – Nel luglio 1989, con una delegazione del Pci, mi recai in Unione Sovietica. Ero convinto da tempo che il “socialismo reale” non fosse riformabile, e quel viaggio me lo confermò: il più potente ostacolo alle riforme di Gorbaciov era  proprio il Pcus. Il sistema non poteva che implodere.
Ho un vivo ricordo della visita a Katyn, in Bielorussia: i sovietici ci mostrarono un monumento in memoria di 22.000 polacchi vittime dei nazisti, e i campi con sterminate file di croci.
La verità emerse nell’aprile 1990, quando Gorbaciov ammise la responsabilità sovietica per quei morti. L’Urss si alleò nel giugno 1941 alle nazioni antinaziste, ma prima era alleata con la Germania, con cui si spartì la Polonia. Nel marzo del 1940 Stalin firmò l’ordine alla polizia politica di uccidere tutti i prigionieri di guerra polacchi. Nell’aprile del 1943 i tedeschi, che occupavano il territorio sovietico, scoprirono a Katyn le fosse comuni con i morti, uccisi ognuno con un colpo alla nuca. Ma i sovietici diedero la responsabilità ai nazisti, e Churchill e Roosevelt, loro alleati, credettero, o vollero credere, a questa versione.
Ho ripensato a quei giorni vedendo il film di Andrzey Wayda “Katyn”, dedicato al padre che lì morì. Il regista polacco ci dà una lucida e toccante lezione di storia. L’ultimo quarto d’ora sconvolge come raramente accade: vediamo quello che è veramente successo a Katyn.
La domanda che mi assilla ancora  è come sia stato possibile, nel Pci e in larga parte della società e della cultura, negare così a lungo la natura totalitaria dello Stato sovietico, e non vederne la spaventosa dimensione repressiva. La ragione di questa rimozione sta nel riconoscimento del ruolo decisivo dell’Urss nella liberazione dal nazismo, e poi nella convinzione che il “socialismo reale” costituisse  un contrappeso agli Usa e un riferimento per i Paesi che volevano superare il colonialismo e il capitalismo. Quanto vi fosse in ciò di unilaterale e mistificatorio meriterebbe di essere approfondito col necessario rigore storico, senza semplificazioni. Questo “mito” fece crescere il Pci. Ma costituì anche il suo limite più grave, perché gli impedì di comprendere il rovesciamento del comunismo da utopia dell’uguaglianza in totalitarismo. E di fare la sua Bad Godesberg, diventando così forza di governo.
L’autocritica radicale non può però negare ogni valore all’intera esperienza storica del Pci, che fu anche altro: “una cosa diversa dal nome che portava”, con un nucleo positivo rappresentato dal contributo alla democrazia e dalla pratica del riformismo.
Lo testimonia anche la storia della nostra città. Tre mesi fa ci ha lasciato Varese Antoni: un comunista che fu capo della Resistenza e grande sindaco nel dopoguerra. Indro Montanelli ha scritto: “Il comunismo è fallito, ma una cosa gli è riuscita: la produzione del miglior personale politico che l’Italia abbia mai avuto”. Le ragioni stanno in quel nucleo democratico e  riformista, che consentì a Varese, come a molti altri, di essere sì un comunista, ma nella sostanza un socialdemocratico. E’ l’unico filone ancora vitale della tradizione del Pci. Il fallimento del comunismo continua  a lasciare in eredità la ricerca di vie radicalmente diverse dalle sue per rendere il mondo più giusto. A tal fine c’è solo da andare avanti, come Varese ci ha insegnato, lungo la via di un riformismo laicamente umanistico. Che abbia un’identità e non si riduca  a pragmatismo, ma si lasci alle spalle ogni “mito”.

lontanoevicino@gmail.com

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