Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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L’eredità di Madiba, un grande dell’umanità

a cura di in data 12 Dicembre 2013 – 10:40

Egitto, Kom Ombo (2012) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 8 dicembre 2014 – Quando ero ragazzo Nelson Mandela, alias Madiba, era il più famoso prigioniero politico del mondo. Lo fu, nel Sudafrica dell’apartheid, per 27 anni, dal 1964 al 1990. Non avevamo internet, ma il mondo aveva comunque una dimensione che dava spazio a sentimenti, ideali e progetti che attraversavano le frontiere. Anche quando quei sentimenti, ideali e progetti furono sconfitti, l’icona di Mandela ci accompagnò: nella traversata nel deserto politico degli anni Ottanta le canzoni e i concerti antiapartheid ci ricordavano il detenuto 46664, chiuso dentro una cella di pochi metri quadrati, sottoposto a un controllo feroce, simbolo della lotta per la libertà. Era un faro per i neri di Soweto, delle città minerarie dei terribili ghetti urbani, ma anche per chi, in Europa come in America, non rinunciava a battersi contro il razzismo e l’apartheid, per una società più giusta. Attorno al suo nome si raccoglievano tanti giovani nelle manifestazioni, e tanti intellettuali e artisti si impegnavano per lui. Ricordo il megaconcerto di Wembley nel giugno1988, il 70° compleanno di Madiba, trasmesso in diretta per un pubblico di 600 milioni di persone. Tra gli altri c’era Steve Van Zandt, chitarrista di Bruce Springsteen, che cantò “Sun city”. “Non suonerò a Sun city” (il famigerato super resort bianco sudafricano che ospitava concerti e casinò), ripeteva il coro della sua canzone. Era il boicottaggio come forma di lotta politica. C’è un videoclip impressionante: con Steve Van Zandt ci sono Bruce Springsteen, Lou Reed, Bono e persino Miles Davis. Solo Madiba riuscì ad unirli. Un altro eroe afro, Mohamed Alì (Cassius Clay), ha detto: “Ha ispirato gli altri a raggiungere quello che sembrava impossibile e li ha incoraggiati a rompere le barriere che creavano ostacoli mentali, fisici, sociali ed economici”. Per questo Mandela ha così influito nella vita di tanti di noi.

Egitto, Il Cairo (2012) (foto Giorgio Pagano)

Nella mia vita Mandela ha influito anche dopo, più recentemente. Quando ho deciso di dedicarmi alla cooperazione internazionale ho capito, ispirato da Massimo Toschi e da altri amici, che è possibile cooperare, lavorare insieme, solo a partire dal riconoscimento delle proprie responsabilità verso il dolore dell’altro, anche verso quello del nemico. E’ questo che in termini culturali significa la parola “perdono”: parola che era diventata centrale nell’esperienza della commissione sudafricana “Verità e Riconciliazione”, presieduta dall’arcivescovo Desmond Tutu e voluta da Nelson Mandela. Madiba, dopo il carcere, era stato il grande traghettatore della democrazia sudafricana. Aveva evitato una guerra civile terribile e sanguinosa, avviato la riconciliazione tra bianchi e neri e fondato l’unità del Paese sulla commissione “Verità e Riconciliazione”. Questa aveva permesso alle vittime dell’apartheid di affermare la loro dignità di persone, perdonando i carnefici e consentendo loro di restaurare la condizione di cittadini, tramite la confessione di tutte le loro colpe e la richiesta di perdono alle vittime. Mandela aveva cioè capito che solo con la riconciliazione l’intero Paese avrebbe vinto la partita della democrazia. Era una nuova cultura politica, che arrivava dal Sudafrica ed era a disposizione del mondo intero: “non la tolleranza, ma il mutuo riconoscimento”, come dice Nadine Gordimer, bianca, la più grande scrittrice sudafricana vivente. Per molti di noi ha significato concepire e praticare la cooperazione internazionale come perdono, riconciliazione, rimettersi insieme, riconoscersi, riprendere il cammino comune. Perché nei tanti Paesi divisi dalle guerre la pace è possibile solo attraverso questo processo. Sapere unire, cercare le ragioni dell’altro da sé: questa è la grande eredità che Madiba lascia all’intera umanità.
Non è da tutti riuscire ad essere, nell’arco di una vita, il leader osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, ad essere visto e accettato come il Presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle. Nelson Mandela ci è riuscito. Ma quando entrò in carcere, ricorda Desmond Tutu, non era un pacificatore. Era un uomo arrabbiato, che cercava di rovesciare l’apartheid con la violenza. Non aveva altra scelta, contro uno dei più disumani e spietati regimi politici del XX secolo. Ma, dice Tutu, “quei 27 anni passati in carcere furono cruciali per il suo sviluppo spirituale… la sofferenza contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo… aveva l’autorità e la forza di attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama”. L’episodio forse più rappresentativo l’ha ricordato Clint Eastwood nel film “Invictus”: Madiba si spese per far diventare il rugby, sport prediletto dalla minoranza bianca e per questo, per i neri, simbolo dell’oppressione, in un motore di integrazione nazionale. Gli Sprinbock, la nazionale di rugby, arrivarono in finale ai campionati mondiali in Sudafrica, il 24 giugno 1995. Prima del fischio d’inizio i giganti boeri in maglia verde intonarono l’inno del nuovo Sudafrica, che era stato in passato il canto della resistenza nera. A fine partita il tripudio per il trionfo della squadra di casa cessò di colpo, quando gli spettatori, quasi tutti bianchi, videro l’antico nemico, campione del riscatto dei neri, avanzare verso il centro del campo. Fu questione di un minuto. Poi, mentre Mandela stringeva le mani ai neo-campioni del mondo, si alzò un urlo: “Nelson, Nelson”. In un attimo divenne un coro incessante. In quello stadio, e in tutto il Sudafrica, non ci fu persona che non pianse di commozione e di gioia. Madiba aveva vinto: le persone sono esseri umani, bianchi o neri che siano.
Certo, pensando a che cos’è oggi il Sudafrica, ai tassi di diseguaglianza estremi e agli altissimi livelli di corruzione, in particolare nel partito di Mandela, l’African National Congress, qualcuno potrebbe dire che Madiba muore da sconfitto. Zuma sembra più un’antitesi che un successore di Mandela. In realtà Madiba ha aperto un cammino. Purtroppo c’è chi non ha saputo continuare la sua opera, ma resta intatta la grandezza del suo messaggio. Che fa sperare che prima o poi qualcuno continuerà sul suo cammino. No, Nelson Mandela non è morto sconfitto. La sua vittoria e la sua lezione restano.

lucidellacitta2011@gmail.com

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