Rete Pace e Disarmo consegna le oltre 1600 firme ai Sindaci del golfo – 14 Dicembre 2024
12 Dicembre 2024 – 21:18

Rete spezzina Pace e Disarmo consegnerà oltre 1600 firme ai Sindaci del golfo
Basi blu? Si apra il dibattito pubblico, aperto, trasparente, per rendere partecipi i cittadini di un processo di proposta e di cambiamento.
Così la …

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Crisi climatica e nuove politiche energetiche

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L’anno più caldo – prima parte

a cura di in data 20 Dicembre 2015 – 13:15
"Albero di Natale nella spiaggia di Punta Corvo"   (2015)   (foto Giorgio Pagano)

“Albero di Natale nella spiaggia di Punta Corvo”
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 20 Dicembre 2015
L’ANNO PIU’ CALDO – prima parte

2050 emissioni zero. Impressioni da Stoccolma

Tra qualche giorno chiuderemo l’anno più caldo da quando teniamo il conto, più o meno 150 anni. Ricordo che nel gennaio 2006 fui invitato qualche giorno a un convegno a Stoccolma, per raccontare la mia esperienza di Sindaco che combatteva contro i cambiamenti climatici, in particolare nel campo dei trasporti e del traffico. Il caos climatico c’era già allora: a Stoccolma eravamo sopra lo zero e la neve si stava sciogliendo, ma al ritorno in Italia non riuscii ad atterrare a Orio al Serio a causa della neve e arrivai a Spezia dopo un’odissea, perché anche l’Autocisa e molte altre autostrade non erano transitabili… Ma quello che più mi è rimasto impresso di quel breve viaggio è la scommessa-rivoluzione della Svezia contro i gas serra: il megagalattico aeroporto che usa solo energie rinnovabili, come pure le stazioni della metro; gli autobus che vanno tutti a etanolo; il bellissimo mercato coperto di Ostermalms Saluhall, luogo di eccellenza gastronomica illuminato di luce prodotta solo dalle rinnovabili… Da allora la Svezia si è data obbiettivi sempre più ambiziosi: “Entro il 2050 -hanno spiegato il premier socialista Stefen Loevfen e la sua vice, la Ministra dell’Ambiente e leader dei Verdi Asa Romson- saremo il primo Paese industriale a emissioni zero. Senza danneggiare l’occupazione e la qualità della vita, anzi dando loro nuove forze”. Già nel 1991 la Svezia introdusse la carbon tax, di cento euro a tonnellata, contro la media di cinque-dieci nel resto dell’Unione europea. Da allora a oggi le emissioni inquinanti sono state ridotte del 40%, mentre l’economia cresceva del 105%; e i carburanti fossili sono scesi dell’80% del totale a ben meno di un terzo, meno delle energie rinnovabili. Chi compra un’auto elettrica riceve l’equivalente di oltre diecimila euro in contanti, più parcheggi e pedaggi gratis. Si sta procedendo alla riforestazione, la ricerca sta studiando gli ecocarburanti anche per gli aerei…

Obbiettivi analoghi se li sta ponendo la regione francese Nord-Pas-de-Calais, che vuole diventare totalmente carbon free entro il 2050. Non un cambiamento da poco, se si pensa che oggi ci sono sette acciaierie e tre bacini minerari. Ogni anno si dovranno rispettare obbiettivi molto precisi, sotto il coordinamento dell’assessorato “alla terza rivoluzione industriale”: una quota in più di energia rinnovabile, di case efficienti, di materiali recuperati, di reti intelligenti. Jeremy Rifkin, il Presidente della Foundation on economic trends (fu ospite del Comune e parlò ai nostri ragazzi in un affollatissimo Teatro Civico nel marzo 2002), è il consulente della regione, e così sintetizza il suo pensiero: “La ricetta giusta è non partire da accordi di vertice ma dall’alleanza tra gli enti locali e le imprese per mobilitare le energie migliori dei vari territori”.

Clima, migrazioni, guerre

Nell’anno più caldo abbiamo ufficialmente doppiato il capo di un grado di temperatura in più, nella media del pianeta, rispetto alla fine del XIX secolo. Vuol dire che la soglia dei due gradi in più, rispetto all’avvio della rivoluzione industriale, oltre la quale gli scienziati prevedono un aumento catastrofico di siccità e inondazioni, è minacciosamente più vicina. Anzi, metà strada l’abbiamo già consumata. Un cambiamento climatico epocale è già in corso. Il numero di catastrofi naturali è triplicato negli ultimi trent’anni. Achim Steiner, direttore dell’Unep, il programma per l’ambiente dell’Onu, ha dichiarato a “Repubblica”: “Le catastrofi naturali hanno ucciso 600.000 persone in 20 anni, una media di 30.000 all’anno. E altri 4,1 miliardi di persone sono rimasti feriti, o hanno perso la casa e sono stati costretti a spostarsi: parliamo di un numero che equivale a più di metà della popolazione mondiale”.

Il clima ha molto a che fare con le migrazioni forzate in corso, come ci ricorda l’enciclica papale “Laudato sì”. Eppure noi possiamo dare “asilo” solo a chi è perseguitato nel proprio Paese (cosa giustissima) riconoscendolo come “rifugiato”, ma non ad altri migranti forzati, come i “migranti climatici”. Da una decina di anni vari organismi scientifici e dell’Onu ripetono che saranno circa 250 milioni i “migranti climatici” entro il 2050, pure nello scenario migliore (qualcuno sostiene entro il 2030). Sono persone che in parte stanno già fuggendo: le vediamo nei barconi e poi nelle nostre strutture di accoglienza, ma poi non diamo loro diritto di asilo e le respingiamo.

La sfida del cambiamento climatico non è meno temibile del terrorismo, per parlare di ciò che oggi temiamo di più. In pericolo siamo noi e i nostri discendenti. La stessa guerra civile in Siria ha avuto tra le sue cause scatenanti una drammatica siccità: uno dei tanti sconvolgimenti naturali a cui saremo sottoposti sempre più spesso, con il costo umano espresso in migrazioni di massa, impoverimento, violenze, guerre. C’è dunque un legame tra la questione climatica ed energetica e la promozione della pace. Non solo per la pressione a cui è sottoposta una risorsa come l’acqua, ma anche perché un modello che progressivamente elimini le fonti fossili, la causa principale del riscaldamento climatico, ridurrebbe i rischi dei conflitti per il petrolio, anch’essi all’origine di tante violenze e guerre. I cambiamenti climatici provocano non solo tanti danni alla natura, ma anche un’epoca più crudele.

"Albero di Natale nella spiaggia di Punta Corvo"   (2015)   (foto Giorgio Pagano)

“Albero di Natale nella spiaggia di Punta Corvo” (2015) (foto Giorgio Pagano)

Il mondo spaccato e il dramma dell’Africa

Un rapporto della Banca Mondiale sottolinea che il lento processo di uscita dalla povertà, in atto dalla fine del secolo scorso, sta rallentando: da qui al 2030 cento milioni di persone potrebbero scivolare sotto il muro di un dollaro al giorno. Il rapporto sottolinea che i poveri sono già oggi di fronte alle minacce climatiche: il danno ai raccolti, le impennate dei prezzi dei prodotti alimentari, il diffondersi delle malattie in seguito alle inondazioni e alle ondate di calore, la carenza d’acqua… Un mondo più caldo penalizza in proporzione maggiore i Paesi in via di sviluppo, quasi tutti collocati nelle zone più calde del pianeta. Il mondo disegnato dal cambiamento climatico è un mondo ancora più diseguale di quello di oggi. A pagare è e sarà soprattutto l’Africa, “il continente che soffre di più al disordine climatico”, così lo ha definito il presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim. Sto seguendo un progetto di cooperazione a Sao Tomè e Principe: questo piccolo Paese rischia di perdere, a causa dei mutamenti climatici, più della metà delle sue infrastrutture socio-economiche e dei suoi habitat (si veda su questo giornale, nella rubrica “Diario do centro do mundo”, l’articolo “Papa Francesco e il clima come bene comune”, 23 agosto 2015). Nei giorni precedenti la Conferenza di Parigi sul clima si sono riuniti ad Addis Abeba i Paesi membri dell’Unfcc (la Convenzione Onu sul clima) sotto l’egida della Commissione dell’Unione Africana, con l’obbiettivo di formulare una posizione comune. “L’Africa ha bisogno di un accordo globale giusto, equo e giuridicamente vincolante. Pur contribuendo in misura minima alle emissioni, il continente è il più vulnerabile al riscaldamento globale”, quindi tocca ai Paesi industrializzati “fornire i mezzi per affrontarne le conseguenze”, si legge nel documento finale. Una posizione molto forte è stata presa anche dall’Aosis (Alleanza dei piccoli Stati insulari), che riunisce i Paesi ubicati negli oceani -come Sao Tomè e Principe- che rischiano di essere sommersi. Il peso dell’Africa nella produzione di gas serra è inferiore al 4% -si pensi che i due terzi della popolazione non hanno accesso all’elettricità- ma gli africani sono sulla linea del fronte del cambiamento climatico. Il direttore di Greenpeace International, Kumi Naidoo, di origine sudafricana, è orgoglioso del suo continente: “Gli africani non hanno responsabilità storiche ma si fanno avanti e dimostrano di avere una visione significativa. Il piano per sviluppare 300 gigawatt di energie rinnovabili da qui al 2030 è certamente ambizioso. La maggior parte deve venire dal solare e dall’eolico, non dalle grandi dighe… L’Africa deve diventare il continente dell’energia pulita”. Certo, per fare tutto questo servono i finanziamenti dei Paesi più ricchi, tramite un Fondo per agevolare il trasferimento delle tecnologie pulite. Il ragionamento dell’economista Thomas Piketty non fa una grinza: “L’Occidente inquina di più. Ora paghi i suoi consumi” (“La Repubblica” – “Le Monde”, 1° dicembre 2015).

L’innalzamento dei livelli dei mari e il rischio per Spezia

Ma il riscaldamento globale non è solo un problema della parte più povera del mondo. Riguarda anche noi, donne e uomini dei Paesi ricchi. La rivista “Nature” ha appena pubblicato uno studio che calcola l’impatto che gli aumenti delle temperature sono destinati ad avere sulle economie dei singoli Paesi. Noi italiani vedremo svanire un quarto della nostra ricchezza, nel 2100. C’è chi -i Paesi in via di sviluppo- rischia molto di più, ma l’impatto sarebbe severo anche per noi. Si pensi a una delle conseguenze del riscaldamento globale, l’innalzamento del livello dei mari. Stime prudenti al riguardo prevedono che il livello dei mari salirà nel corso di questo secolo di circa un metro: la principale incertezza in questo momento riguarda il possibile collasso e scioglimento delle calotte di ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia. Ma anche un aumento medio di un solo metro, amplificato da tempeste e maree, sarebbe sufficiente a compromettere la vivibilità della Florida, dei Paesi Bassi, di tante isole e luoghi densamente popolati degli Oceani. E L’Italia? Uno studio dei ricercatori del Laboratorio di modellistica climatica dell’Enea spiega che, se le emissioni di gas serra non verranno fermate, l’Italia perderà a fine secolo 5.500 chilometri quadrati di territorio sul litorale e 60 all’interno, solo nell’area che va da Trieste a Ravenna. Ma in tutto sono 33 le zone costiere in cui le acque penetreranno. Andranno sott’acqua, assieme a Venezia, anche Ravenna, Ferrara, Cagliari, Oristano. Tra le zone a rischio c’è anche la Versilia, quindi anche Marinella di Sarzana, Fiumaretta e in genere le coste confinanti. Il cambiamento climatico, inoltre, accelererebbe la spinta verso la desertificazione che colpirebbe in particolare le regioni meridionali. Il clima del Sud Italia diventerebbe quello del Nord Africa.

Inquinamento dell’aria: 84.000 morti all’anno in Italia

I combustibili fossili sono i principali responsabili anche dell’inquinamento atmosferico. Lo smog in Europa uccide 430.000 persone all’anno, secondo dati dell’Aea (Agenzia europea dell’ambiente). L’Italia detiene il record delle vittime, 84.000 all’anno, nonostante che la situazione nel nostro Paese sia migliorata, complice la crisi economica. Secondo dati dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) dal 1990 al 2013 le emissioni serra sono diminuite del 16%, ma questo risultato non è bastato a ridurre il contributo pagato in termini di smog. Le micro polveri sottili (prodotte dalle automobili e dagli impianti di riscaldamento), il biossido di azoto e l’ozono che si forma nell’atmosfera sono i principali responsabili. L’epicentro dell’ecatombe è come sempre il territorio della pianura padana per la sua conformazione orografica. Dalle vette dell’Appennino, nelle belle giornate, si intravvede nitidamente il nostro mare, da un lato, e la cappa di smog che sovrasta la sacca sotto l’arco alpino, dall’altro lato. Ieri Legambiente ha presentato il suo Rapporto che conclude la campagna di monitoraggio “Pm 10 ti tengo d’occhio”: la situazione italiana è veramente preoccupante. Quella spezzina è, nel Paese, tra le migliori. Ma anche la nostra aria è malata.

La Conferenza di Parigi: ce n’est qu’ un debut

La Conferenza di Parigi sul clima, conclusasi pochi giorni fa, è stata un fatto storico. Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, ha scritto sul “Manifesto”: “Anche se il testo approvato dai 195 capi di Stato non è quell’accordo vincolante e ambizioso che servirebbe a fermare i cambiamenti climatici al di sotto della soglia dei 2°C -e tantomeno al di sotto di 1,5°C-, comunque mette in moto un processo necessario, anche se non ancora sufficiente, a centrare l’obiettivo”. E’ citato l’obbiettivo di 1,5°C, mai rientrato finora in nessun documento. Così come è citato l’altro obbiettivo di raggiungere emissioni nette nulle nella seconda parte del secolo. Sul versante dei contributi finanziari, i 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 al 2025, che successivamente dovrebbero essere aumentati, non sono adeguati alle necessità dei Paesi poveri. Le stime Onu variano da un minimo di 140 a un massimo di 300 miliardi l’anno, al 2050. Manca inoltre un impegno preciso contro la deforestazione. Ma ormai, commenta Kumi Naidoo, “l’accordo ha messo dalla parte sbagliata della storia i combustibili fossili”. Le tecnologie e le misure alternative esistono già, e i loro costi diminuiscono costantemente. Le cita, in un rapporto, Goldman Sachs: il solare fotovoltaico, l’eolico a terra, i sistemi di illuminazione Led e i veicoli elettrici.

E’ un documento di vertice, un compromesso anche ambiguo. E ha certamente ragione la giornalista e attivista canadese Naomi Klein, sempre sul “Manifesto”, a sottolineare che “c’è ancora un’enorme distanza tra quanto si dovrebbe fare e quanto sono disposti a fare Stati e aziende”, e che “non vi è nulla di decisivo sui combustibili fossili”. E’ mancato un po’ di coraggio, ma Parigi è stata pur sempre uno spartiacque, che non dà più adito a “negazionismi” sulle responsabilità dell’uomo nel provocare il riscaldamento del pianeta. Per la prima volta sono tutti i Paesi a sottoscrivere il patto, consentendo di coprire il 100% delle emissioni di gas serra. La differenza con il Protocollo di Kyoto salta agli occhi: lo avevano firmato 55 Paesi, raggiungendo solo il 13% delle emissioni globali. L’accordo di Parigi invia un segnale chiaro a Stati, mercati, cittadini: il cambiamento climatico è un fatto chiaro e attuale; i combustibili fossili ne sono la causa; esistono altre soluzioni, sulla base delle quali possiamo e dobbiamo cambiare il modo in cui le nostre economie e le città si sviluppano. Ora tutti noi dobbiamo lavorare per la “decarbonizzazione”, per dare radicalità al percorso di cambiamento aperto a Parigi. Anche un trattato non vincolante può produrre risultati. Mi viene in mente il mio primo slogan, gridato e ritmato battendo le mani, quando avevo quattordici anni, il 5 ottobre 1968: “Ce n’est qu’ un debut, continuons le combat”. Veniva dal maggio francese. Il 3 ottobre i militari avevano ucciso centinaia di studenti a Città del Messico. “Non è che un inizio, la battaglia continua”: l’accordo è un punto di partenza, la partita vera per una grande riconversione ecologica dell’economia inizia adesso. Adesso più che mai tocca ai popoli e ai movimenti farsi carico della sfida, e spingere Stati e imprese a costruire “il mondo che vogliamo”. Non sarà una battaglia facile: bisogna lasciare inutilizzate sottoterra tra il 70 e l’80 per cento delle riserve di gas, petrolio e carbone esistenti, ed eliminare i sussidi che le fonti fossili ricevono, per dare spazio alle rinnovabili e sostenere i Paesi poveri. Gli interessi in gioco sono enormi, in ballo c’è il patrimonio di molti giganti dell’economia. Per dirla con un altro slogan, gridato in questi giorni a Parigi e in tutto il mondo: “System change not climate change”. E’ il sistema, il paradigma, che va cambiato. I Governi arrivano dove i cittadini li spingono. La spinta questa volta è stata forte, ora deve continuare e diventare ancora più forte. Su come cambiare il sistema, il paradigma -anche nel nostro Paese, nella nostra regione e nella nostra città- scriverò domenica prossima.

Post scriptum: solo per questa settimana interrompo la pubblicazione delle fotografie di quella terra straordinaria che è Sao Tomè e Principe. Le fotografie di oggi sono di un’altra terra straordinaria: la nostra. L’albero di Natale è quello che, come ogni anno, viene allestito nella spiaggia di Punta Corvo, una delle più belle d’Italia. Frequentata tutto l’anno, è una sorta di piazza, e ha quindi il suo albero. Una parte della spiaggia è transennata causa rischio frane. Degli altri “Spiaggioni”, la spiaggia della Marossa a Tellaro è raggiungibile solo da escursionisti esperti. Le spiagge dietro i Castelli di Lerici e di San Terenzo sono chiuse. Tante spiagge di Tramonti sono inaccessibili. Alle Cinque Terre la Via dell’Amore è chiusa da anni. Così la spiaggia del Guvano… Ma chi ci pensa? Nessuno. Si pensa solo alle “grandi opere”. Anzi, no: la Regione Liguria ha appena varato il Piano Casa. Sarà sempre peggio: oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento. E poi parlano di turismo: ma il turismo senza il paesaggio non esiste!

Ma prima di “continuare la battaglia” e la critica del presente, pensiamo al Natale. E allora Buon Natale: il Natale, il mistero del Dio incarnato, che rovesciò il mondo degli uomini dal sotto al sopra, appartiene a tutti, come scrive il filosofo Mario Tronti. Non è necessario credere, per appartenere all’Avvento.

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