Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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La via possibile per la pace

a cura di in data 10 Giugno 2022 – 18:27

Mosca, l’Università
(2006) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 8 maggio 2022

Lunedì 9 maggio alle 18 in piazza Mentana si terrà il presidio settimanale “Cessate il fuoco! Se vogliamo la Pace, prepariamo la Pace”, promosso da un ampio cartello di associazioni spezzine. L’esperienza è cominciata lunedì 28 marzo: da allora piazza Mentana è luogo settimanale di “Assemblea aperta e confronto pubblico” per la pace. Un luogo non per attizzare odi, per arroccarsi intorno all’unica “verità”, ma per sviluppare il confronto all’insegna dello spirito critico. Un luogo per le persone, per le donne e gli uomini semplici: la guerra è politica, la ricerca della pace è la più politica delle attività politiche, ognuno ha perciò il diritto di esprimersi. Non sono argomenti da delegare ai governanti e agli esperti. Gli umili, le masse, i senza potere, la società civile, le comunità locali devono poter dire la loro. Noi, gli inermi, dobbiamo mobilitarci per la pace. La dimensione dei governanti è la guerra. Da loro, dai potenti, non aspettiamoci niente di buono che arrivi in maniera spontanea. Ma noi, che stiamo in basso, possiamo incidere su chi sta in alto, come è successo in altri momenti della storia. Ognuno di noi e tutti insieme – la comunità spezzina – possiamo esercitare un ruolo.
Le associazioni mi hanno affidato il compito di introdurre, nel presidio di domani, il tema delle vie giuridiche e politiche per la soluzione diplomatica delle controversie internazionali. Tema urgente e centrale, per il quale ho pensato fin da subito di affidarmi alle riflessioni e alle indicazioni di rotta che più mi hanno colpito in queste settimane: gli interventi di alcuni costituzionalisti, in primis Gaetano Azzariti e Luigi Ferrajoli, che il 5 maggio hanno organizzato, insieme ad altri, l’iniziativa “Per una soluzione di pace”; e l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, tenutasi il 27 aprile.

Non è certamente in discussione il diritto di resistenza. La Carta dell’Onu ci dice chi è il responsabile della guerra in base al diritto internazionale, a chi spetta di esercitare il legittimo diritto di resistenza all’aggressore, quali sono i compiti degli Stati non belligeranti. La responsabilità della guerra è da attribuire alla Russia per violazione dell’articolo 2, che impone agli Stati di astenersi dall’uso della forza e operare contro l’integrità territoriale o l’indipendenza di qualsiasi altro Stato; mentre la resistenza ucraina è legittima in base al principio di autotutela individuale o collettiva così come indicato all’articolo 51. Che è, in fondo, lo stesso principio inscritto nella nostra Costituzione, che definisce “sacro” il dovere di difendere il territorio italiano da parte dei cittadini.
Ma la domanda alla quale dovremmo provare a rispondere è un’altra. Qual è il compito che spetta alle Nazioni non belligeranti per riuscire a far cessare le ostilità, fermare l’invasore e così “porre fine al conflitto”? Se è ovvio che siamo di fronte a una drammatica emergenza umanitaria, occorre una straordinaria iniziativa per ripristinare, come richiede sempre la Carta dell’Onu agli articoli 51-54, “la pace e la sicurezza internazionale”, individuando una “soluzione pacifica”.
Tutti gli altri Stati sono anch’essi certamente coinvolti nella “controversia”, poiché nessun Paese può ritenersi estraneo di fronte al flagello della guerra, ma essi devono – ai sensi degli articoli della Carta – anzitutto perseguire una soluzione mediante negoziati.
Basterebbe leggere – e poi voler rispettare – gli impegni assunti in sede Onu da “Noi, popoli delle Nazioni Unite” per evitare tante inutili e spiacevoli polemiche tra voci critiche, accusate di un improbabile neo-putinismo, e intrepidi difensori della pace attraverso la guerra.
Questa è dunque la principale fonte giuridica a cui ispirarsi, la Carta delle Nazioni Unite.
Insieme alla nostra Costituzione. La Costituzione “ripudia la guerra” come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, in ogni caso. E le limitazioni di sovranità che essa prevede sono espressamente finalizzate per assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni e a promuovere le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Limitazioni per promuovere la pace, dunque, non per partecipare alle guerre, né proprie né altrui.
Ho prima evocato il “sacro” dovere di difesa della Patria. Ma non va evocato a sproposito. L’articolo 52 della Costituzione si rivolge espressamente al “cittadino italiano” per legittimare la guerra a difesa del confine interno. Peraltro, esso deve essere letto in combinato disposto con il sistema di difesa che la Costituzione ha delineato: una guerra che deve essere deliberata dal Parlamento nazionale, cui segue il conferimento dei “poteri necessari” al Governo e una dichiarazione formale dello stato di guerra da parte del capo dello Stato, con l’eventuale proroga per legge della durata della Camere. Nessuna di queste condizioni è data, non si può dunque richiamare la Costituzione per legittimare il coinvolgimento nel conflitto armato.
L’invito della Costituzione è chiaro: è quello di ricercare altre strade per assicurare la pace tra le Nazioni.
La Costituzione ci rimanda dunque alla Carta dell’Onu e ai compiti degli Stati non belligeranti.

Zagorsk, la cattedrale dell’Assunzione
(2006) (foto Giorgio Pagano)

Certo oggi – è il ragionamento politico immediatamente successivo – scontiamo la debolezza, se non il fallimento, dell’ordinamento dell’Onu, che qualcuno aveva immaginato diverso dall’ordinamento internazionale, non più fondato sulla parità degli Stati e per questo in grado di assicurare la pace. Stiamo pagando a caro prezzo la sua mancata riforma e quella del Consiglio di Sicurezza in specie, con la conservazione dei poteri di veto attribuito alle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Però è anche vero che l’Onu non è del tutto assente, parla con una flebile voce che dovrebbe essere raccolta ed amplificata: l’Assemblea delle Nazioni Unite ha adottato con maggioranze mai raggiunte in precedenza – 141 e 140 Stati a favore – due importanti risoluzioni di condanna dell’aggressione Russa, con la richiesta esplicita che cessi immediatamente l’uso illegale della forza in Ucraina. Questo non basta, è evidente: senza l’impossibile consenso del Consiglio di sicurezza, la volontà di quasi tutti gli Stati del mondo non riuscirà ad imporsi.
Ma proprio la debolezza – se non impotenza – dell’Onu accentua la responsabilità della comunità internazionale: degli Stati, ma anche della società civile globale. Ad essi spetta dare seguito alla determinazione espressa in sede Onu.

Scriveva Gaetano Azzariti sul “manifesto” del 5 aprile:
“Un modo c’è ed è quello di indire subito una conferenza a tal fine. Per far cessare la guerra, ma anche per garantire la pace. Il nostro Paese si faccia promotore, assieme all’Europa, di una proposta concreta. Si invitino tutti gli Stati e le potenze mondiali a Roma, senza preclusioni di parte, e si inizino i colloqui per definire un nuovo trattato sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e nel mondo, sul modello conferenza di Helsinki (non invece sul modello di quella di Yalta per dividersi le sfere di influenza del mondo). Può essere una via per ritrovare la pace e per ridare voce al diritto. Non lasciando solo ai paesi belligeranti – Ucraini e Russi – il compito di trattare la cessazione delle ostilità, in base ad accordi bilaterali che non potranno che essere figli dei rapporti di forza. Non solo la guerra, ma neppure la pace è unicamente ‘affar loro’. Spetta alla comunità internazionale – prima ancora che ai Paesi in guerra – garantire la sicurezza tra i popoli e le Nazioni. Rimettendo in discussione i complessivi rapporti geopolitici e gli ormai evidenti squilibri che coinvolgono i rapporti internazionali tra potenze ed aree geografiche. Un’assunzione di responsabilità appare necessaria per non lasciare le cose come stanno, in attesa della prossima avventura bellica, o del prossimo leader che vuol farsi imperatore del mondo. Il diritto sopravvivrà alla guerra se riuscirà a ripudiarla, non solo a sconfiggerla militarmente”.

Il discorso tenuto dal Presidente Mattarella a Strasburgo il 27 aprile è guidato dalla medesima impostazione. Dopo aver ricordato la radice del Consiglio d’Europa – una spinta al multilateralismo nell’idea che all’indomani del secondo conflitto mondiale solo una collaborazione tra Nazioni avrebbe potuto evitare nuove tragedie – Mattarella ha esortato alla pace e ha aggiunto: “La pace non si impone automaticamente, da sola, ma è frutto della volontà degli uomini”. Ecco i passaggi essenziali della riflessione del Presidente della Repubblica:
“Alla comunità internazionale tocca un compito: ottenere il cessate il fuoco e ripartire con la costruzione di un quadro internazionale rispettoso e condiviso che conduca alla pace.
Un grande intellettuale, Paul Valery – passato attraverso le due guerre mondiali – richiamava i concittadini europei a prendere coscienza di vivere in un mondo ‘finito’. ‘Non c’è più terra libera’ – scriveva – nessun lembo del globo è più da scoprire.
Se nessuno è più estraneo a nessuno, si interrogava il Presidente Pertini, non è giunto il tempo che gli uomini apprendano ad essere in pace con se stessi?
Potremmo oggi aggiungere: in un mondo sempre più interconnesso, nel quale sono sostanzialmente venute meno le distanze, in cui ciascuna persona può comunicare, e sovente comunica, in tempo reale, con interlocutori in ogni parte del mondo, non c’è posto, è anacronistico parlare di sfere di influenza territoriali.
Mentre il conflitto ha ulteriormente indebolito il sistema internazionale di regole condivise – e il mondo, come conseguenza, è divenuto assai più insicuro – la via di uscita appare, senza tema di smentita, soltanto quella della cooperazione e del ricorso alle istituzioni multilaterali.
Se la voce delle Nazioni Unite è apparsa chiara nella denuncia e nella condanna ma, purtroppo, inefficace sul terreno, questo significa che la loro azione va rafforzata, non indebolita.
Significa che iniziative, come quella promossa dal Liechtenstein e da altri 15 Paesi, per evitare la paralisi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu vanno prese in seria considerazione.
La guerra è un mostro vorace, mai sazio. La tentazione di moltiplicare i conflitti è sullo sfondo dell’avventura bellicista intrapresa da Mosca.
La devastazione apportata alle regole della comunità internazionale potrebbe propagare i suoi effetti se non si riuscisse a fermare subito questa deriva. Dobbiamo saper scongiurare il pericolo dell’accrescersi di avventure belliche di cui, l’esperienza insegna, sarebbe poi difficile contenere i confini.
Dobbiamo saper opporre a tutto questo la decisa volontà della pace.
Diversamente ne saremo travolti.
Per un attimo, esercitiamoci – prendendole a prestito dal linguaggio della cosiddetta ‘guerra fredda’ – a compitare insieme parole che credevamo cadute ormai in disuso, per vedere se possono aiutarci a riprendere un cammino, per faticoso che sia.
Distensione: per interrompere le ostilità.
Ripudio della guerra: per tornare allo statu quo ante.
Coesistenza pacifica, tra i popoli e tra gli Stati.
Democrazia – come ci insegna il prezioso lavoro della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa – come condizione per il rispetto della dignità di ciascuno.
Infine, Helsinki e non Jalta: dialogo, non prove di forza tra grandi potenze che devono comprendere di essere sempre meno tali.
Prospettare una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità a un quadro di sicurezza e di cooperazione, sull’esempio di quella Conferenza di Helsinki che portò, nel 1975, a un Atto finale foriero di sviluppi positivi. E di cui fu figlia l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
Si tratta di affermare con forza il rifiuto di una politica basata su sfere di influenza, su diritti affievoliti per alcuni popoli e Paesi e, invece, proclamare, nello spirito di Helsinki, la parità di diritti, l’uguaglianza per i popoli e per le persone.
Secondo una nuova architettura delle relazioni internazionali, in Europa e nel mondo, condivisa, coinvolgente, senza posizioni pregiudizialmente privilegiate.
La sicurezza, la pace – è la grande lezione emersa dal secondo dopoguerra – non può essere affidata a rapporti bilaterali – Mosca versus Kiiv –. Tanto più se questo avviene tra diseguali, tra Stati grandi e Stati più piccoli.
Garantire la sicurezza e la pace è responsabilità dell’intera comunità internazionale. Questa, tutta intera, può e deve essere la garante di una nuova pace”.

Parole nette, che indicano quale compito della politica la capacità di coltivare, anche nei contesti più drammatici, il linguaggio e le categorie della pace. La proposta di una “nuova Conferenza di Helsinki per la pace” vuole anzitutto richiamare la comunità internazionale, l’Europa, l’Italia alle loro rispettive reali responsabilità, ai loro non delegabili doveri. Una proposta ispirata dalla volontà di interrompere l’escalation bellica, la follia della guerra, che sembra ormai dominare i comportamenti dei potenti del mondo, ma anche il dibattito pubblico, occupando per intero le nostre menti.

Così l’ha commentata Gaetano Azzariti sul “manifesto” del 5 maggio:
“Non vogliamo oggi riaprire la polemica sull’invio delle armi, prendiamo atto della decisione assunta quasi all’unanimità dal Parlamento e fatta propria dal Governo, ci limitiamo a constatare che questa non può essere la soluzione. Affidarsi esclusivamente ad essa vuol dire rinunciare a perseguire pacifici e stabili rapporti internazionali. La guerra per procura non è un orizzonte possibile. Non vogliamo scaricare sulle vittime la responsabilità della guerra, né ad essi affidare il nostro comune futuro di pace. Non vogliamo guardare da un’altra parte, bensì andare alle radici del male che ha prodotto la degenerazione e l’inumanità dello scontro armato.
Per chi vuole affermare il valore del ripudio della guerra l’unica via possibile è quella di ridare la voce al diritto. Perché è il diritto che, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, ci ha indicato la via che oggi stentiamo a riconoscere, offuscati come siamo dal bagliore delle armi, paralizzati di fronte all’orrore delle stragi, sopraffatti dai morti, incapaci di spiegare lo scempio e l’offesa alla dignità delle persone.
Tornare alle ragioni del diritto anche perché siamo convinti che non esista una giusta guerra. Semmai esiste il giusto diritto. Quello espresso nella nostra Costituzione, ma anche quello dell’ordinamento internazionale scritto a seguito della tragedia dell’olocausto e l’utilizzazione di due bombe atomiche ‘a fini di pace’.
Per far cessare la guerra è necessario garantire la pace. Un compito e una responsabilità che spettano alla comunità internazionale. Lo ha affermato con decisione il Presidente Mattarella quando ha sollecitato ad individuare ‘una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità a un quadro di sicurezza e di cooperazione, sull’esempio di quella Conferenza di Helsinki che portò, nel 1975, a un Atto finale foriero di sviluppi positivi’.
Per porre fine al conflitto e garantire un futuro di pace e sicurezza tra le Nazioni, per non lasciare soli le vittime della guerra, non ci si può affidare alla forza delle armi. Bisogna invece rimettere in moto la politica, rimettere in gioco le logiche di potenza, ridare voce al diritto, assicurare la giustizia tra le Nazioni. Perché, non c’è pace senza giustizia”.

Vediamo bene le difficoltà. Ma i fallimenti passati – i precedenti poco edificanti, dall’Iraq alla Siria all’Afghanistan – o la scarsa credibilità degli attori (tutti indistintamente) non devono indurci a rinunciare. Rinunciare a far valere il diritto internazionale equivale ad accettare una volta per tutte che rimangano solo i rapporti di forza; che a parlare siano soltanto le armi. Ma, tanto più nell’epoca atomica, non possiamo assolutamente permettercelo. Siamo in piena guerra europea dai contorni nucleari. E’ grottesco pensare ancora, in pieno XXI secolo, con le categorie interventiste del Novecento.
Dobbiamo pensare la pace e delineare un progetto che consenta di superare le cause che hanno provocato la guerra e di ristabilire la convivenza pacifica tra le Nazioni. Dobbiamo capire cosa abbiamo sbagliato dopo il crollo del muro di Berlino: nessuno ascoltò Gorbačëv, nessuno costruì la “casa comune europea”, con un nuovo sistema di sicurezza e di diritti in Europa che andasse oltre i “blocchi” e rendesse l’Europa un tutt’uno politico e geografico, senza le vecchie frammentazioni. Non basta il negoziato tra russi ed ucraini. La responsabilità è dell’intera comunità internazionale, delle Nazioni Unite, dell’Unione europea, dei singoli Stati, delle città, di ognuno di noi.

lucidellacitta2011@gmail.com

La foto in alto è dell’Università di Mosca, quella in basso della cattedrale dell’Assunzione a Zagorsk, una città vicina a Mosca. Ho scattato entrambe le foto nel 2006.

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