Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Economia italiana: “la nave va”?

a cura di in data 16 Dicembre 2017 – 22:37
La Spezia, Tramonti, fotografia inserita nel calendario 2018 dell'Associazione per Tramonti  (foto Giorgio Pagano)  (2017)

La Spezia, Tramonti, fotografia inserita nel calendario 2018 dell’Associazione per Tramonti
(foto Giorgio Pagano) (2017)

Città della Spezia 10 dicembre 2017

Davvero, nell’economia italiana, “la nave va”, come recita la “narrazione” dominante?
Vediamo di capire bene i dati.

L’ITALIA FANALINO DI CODA
In tutto il mondo c’è una ripresa economica, molto fragile secondo tanti economisti. Negli USA il PIL (Prodotto Interno Lordo) è cresciuto del 3% , in Gran Bretagna di oltre il 2%, così in Germania e Francia. La crescita dell’1,4% del PIL dell’Italia è una delle più basse e comunque segue un’onda generale. Il Jobs Act non c’entra nulla, altrimenti saremmo cresciuti più degli altri e non meno. Rispetto agli Usa e all’Europa la nostra minore crescita si rileva anche guardando il tasso di disoccupazione, che è stabilmente più alto della media europea di 2 punti percentuali. In ogni caso dopo una lunga recessione e stagnazione questa ripresa né in Italia né nel resto del mondo è solida, anche perché non una delle cause economiche e finanziarie che hanno provocato la crisi è stata rimossa.

IL LAVORO E’ SEMPRE PIU’ PRECARIO E PIU’ POVERO
Se è vero che si è raggiunto il numero di occupati del 2008, come qualità questa occupazione è molto diversa. Il lavoro standard a tempo indeterminato decresce al diminuire degli sgravi contributivi, mentre i contratti di lavoro a termine dettano il trend complessivo dell’occupazione (oltre il 75%). Va aggiunto che tutte le nuove assunzioni sono precarie, non solo i contratti a termine ma anche quelli formalmente a tempo indeterminato. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che con il Jobs Act è stato abolito l’articolo 18 per tutte le nuove assunzioni: quindi chi entra al lavoro con contratto a tempo indeterminato può essere licenziato in qualsiasi momento, senza possibilità di reintegra. I 23 milioni di occupati di oggi sono composti da una percentuale molto più alta di precari di quelli del 2008. Inoltre una parte di essi è formata da chi è costretto a restare al lavoro dalla legge Fornero. L’occupazione “va” grazie non al Jobs Act ma alla legge Fornero che ha prolungato l’età pensionabile. Le conseguenze sono che oggi i giovani sono più disoccupati degli over 50 -anche a causa del Jobs Act-, che dovranno lavorare più a lungo precariamente e che non ce la faranno a garantirsi una pensione privata integrativa. Ancora: se dovessimo misurare le ore lavorate, scopriremmo che molti dei nuovi assunti fanno orari ridotti sottopagati. Non a caso gli occupati supersfruttati, precari, anziani oggi convivono con il doppio di disoccupati ufficiali rispetto a ieri. Nel 2008 il tasso di disoccupazione ruotava attorno al 6%, oggi sta sempre attorno all’11%. Mentre cresce formalmente l’occupazione, crescono nei fatti la disoccupazione, la povertà, l’emigrazione. Perché a crescere è l’occupazione debole, fragile, povera. È il modello americano, che nasconde la disoccupazione di massa con milioni di poveri che lavorano, senza minimamente migliorare la loro condizione. Lo stesso accade da noi, dove contemporaneamente aumentano gli occupati e coloro che vengono dichiarati ufficialmente poveri. Se l’Istat riproporzionasse gli occupati alle ore effettivamente lavorate e al salario percepito, i 23 milioni diventerebbero molti meno. Ma, come si sa, oggi basta un’ora di lavoro a settimana per essere considerati ufficialmente occupati, nella voce “part time”.

EXPORT SU, SALARI GIU’, FUGA DEI CERVELLI
La nostra crescita è trainata dalle esportazioni, a loro volta trainate dai bassi salari. Bassi salari, ovvero costo del lavoro più contenuto, equivale a più competitività delle nostre merci sui mercati esteri. Merci che i lavoratori italiani, sempre più impoveriti, possono comprare sempre meno. Il 2016 è stato un anno da record per la bilancia commerciale italiana con l’estero; ma anche l’anno in cui l’aumento dei consumi interni è stato appena dell’0,1%. Dal 2009 a oggi i salari sono diminuiti dello 0,3%. Ed è diminuita molto la spesa sociale. Sta cambiando la struttura socio-economica del Paese: da una crescita trainata dai salari a una crescita dipendente dalla domanda estera. Una trasformazione che scarica le proprie contraddizioni sulle condizioni materiali dei lavoratori, ampliando a dismisura la sfera di lavoro povero ed espellendo quote sempre più alte di lavoro ad alto tasso di conoscenza. Le ricerche dell’Ocse dimostrano che negli ultimi due decenni nelle economie occidentali è cresciuta soprattutto la fascia alta, più professionalizzata, del mercato del lavoro. In Italia no. Vuol dire che continuiamo a creare lavoro debole, mentre si accresce il divario con gli altri Paesi sui livelli più alti. Il che contribuisce a spiegare la fuga dei cervelli e pure la scadente produttività che ci caratterizza da anni.

La Spezia, Tramonti  (foto Giorgio Pagano)  (2017)

La Spezia, Tramonti
(foto Giorgio Pagano) (2017)

GLI INCENTIVI E GLI SGRAVI FISCALI NON SERVONO
Il Governo Renzi ha speso dai 15 ai 20 miliardi di incentivi alle imprese e il Governo Gentiloni vuole aggiungere la sua nuova quota. Ma la verità è che nessuna impresa assume lavoratori di cui non abbia bisogno, neppure se il governo dà un bel premio per ognuno di essi. Così i miliardi del Jobs Act sono andati a imprese che in gran parte quelle assunzioni le avrebbero fatte comunque. Sono stati un regalo ai profitti aziendali e non alla occupazione. Nessuno dei soldi pubblici spesi ha creato nuovo lavoro. Tutto questo ha drogato un mercato del lavoro che si è abituato agli incentivi, per cui se ci fosse una nuova fermata produttiva la catastrofe sarebbe enorme, anche perché tutti i nuovi assunti sono precari o licenziabili in qualsiasi momento. Non servono gli incentivi, e non servono nemmeno gli sgravi fiscali: ce l’ha insegnato l’esperienza dell’amministrazione del Presidente americano G.W. Bush, che tagliò in due trance di ben 1205 miliardi di dollari le tasse ai ricchi, senza che tanta generosità si traducesse in alcun modo in slancio dell’economia americana. E soprattutto dell’occupazione. I ricchi -ha ricordato l’economista James Galbraith- “hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili”. Hanno cioè investito nella rendita e nel lusso.

IL PROBLEMA ITALIANO E’ LA BASSA QUALITA’ DELLA STRUTTURA PRODUTTIVA
Il problema del lavoro italiano non è un’ulteriore flessibilità del mercato del lavoro (dopo il Jobs Act questa tesi non regge più) ma è tutto nella struttura produttiva. Il contenuto della domanda di lavoro delle imprese è molto diverso dal contenuto di conoscenza dell’offerta di lavoro. Se il numero dei laureati in Italia è più basso della media europea, perché non trovano un lavoro coerente con il loro livello di formazione? Perché le imprese italiane sono così despecializzate che il lavoro qualificato è un lusso che non possono permettersi. Da noi ci si riempie la bocca del termine “Industria 4.0”: ma l’Europa non lo menziona mai! E’ uno dei tanti esempi del “potere ignorante”, come lo definiva l’economista Paolo Leon.

UN NUOVO, GRANDE PROGETTO
Servirebbe un nuovo, grande progetto per tentare di uscire dalla crisi. Certamente è giusto riproporre il New Deal di Roosevelt e le politiche keynesiane. Sono, ha scritto Roberto Romano sul “Manifesto”, “un rifugio prezioso”. L’anima della progettualità rooseveltiana e keynesiana fu questa: grandi piani di investimenti pubblici capaci di creare occupazione, finanziati con le tasse ai più ricchi. Oggi questa ispirazione andrebbe ripresa puntando a investimenti capaci di superare la bassa qualità della nostra struttura produttiva, di ammodernarla, di orientarla verso bisogni e fini sociali: per esempio investimenti sulla manutenzione del territorio e delle case, cioè sulle grandi emergenze del Paese. Investimenti che dovrebbero essere finanziati attraverso una redistribuzione del reddito. Il riferimento al New Deal e a Keynes è “prezioso” ma non basta. Si pensi solo a temi non facenti parte di questa ispirazione, come il reddito di cittadinanza (un reddito di base per tutti) e la riduzione dell’orario di lavoro (“lavorare meno, lavorare tutti”). Senza un progetto economico-politico alternativo, credibile e convincente, le politiche neoliberiste -più export, meno salari, più precarietà, meno tasse, meno investimenti- rimarranno l’unica soluzione a cui si aggrapperà anche la povera gente. Elaborare questo progetto dovrebbe essere il tema chiave dell’imminente campagna elettorale. Almeno per coloro che non stanno né con Renzi né con Berlusconi, cioè con coloro la cui ricetta è ed è sempre stata, in sostanza, quella neoliberista.

lucidellacitta2011@gmail.com

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