Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
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Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Ricordo di Anelito Barontini

a cura di in data 17 Dicembre 2016 – 20:04

Relazione di Giorgio Pagano copresidente del Comitato Unitario della Resistenza
7 dicembre 2016, La Spezia, Sala della Provincia

Anelito Barontini fu eletto all’Assemblea Costituente nelle liste del PCI, dopo essere stato uno dei massimi esponenti della Resistenza in Liguria. Dopo la Liberazione fu Sindaco di Sarzana. Deputato all’Assemblea Costituente, fu ancora deputato, poi senatore (fino al 1968), dirigente nazionale del PCI e, nei suoi ultimi anni, ancora Sindaco di Sarzana.
Figlio di Giuseppe e di Denise Rossi, era il primogenito di quattro fratelli: Anelito, Arturina, Antenore e Aladino. Il padre, che lavorava nelle Ferrovie dello Stato come deviatore, verso il 1910 dalla vicina Toscana fu trasferito a Sarzana, dove venne ad abitare “sotto alla passerella” (l’attuale Crociata). Quando Denise, rimasta incinta del primo figlio, stava per partorire, volle ritornare al paese natio dai suoi genitori ed è per questo che Anelito nacque a Castagneto Carducci, il 21 aprile 1912. All’età di sedici anni gli morì il padre, appena quarantaduenne, così il ragazzo divenne di fatto il capofamiglia; per aiutare la madre lasciò gli studi (sesta elementare) e andò a lavorare nell’officina Menchelli di Sarzana. Poi venne assunto come operaio specializzato, con la funzione di tornitore al tritolo, nello stabilimento di Valdilocchi, alla Spezia, che lavorava per l’Arsenale. Ma dopo un po’ fu licenziato per non aver aderito al partito fascista. In casa Barontini si respirava aria antifascista: il padre era stato presidente del circolo ferrovieri a Sarzana; assieme, padre e figlio, avevano assistito, il 21 luglio 1921, all’assalto fascista a Sarzana e alla successiva vittoriosa controffensiva degli antifascisti armati.

Nel PCI clandestino

Nel 1932 Barontini entrò nel PCI clandestino, detto anche “fronte interno”, nel quale assunse crescenti responsabilità, sia a livello provinciale, sia a livello regionale. A reclutarlo fu un operaio delle fornaci Bedini, Gino Guastini. Le riunioni del PCI clandestino di Sarzana si tenevano nella casa di Nello Bernardini, nella zona “sotto alla passerella”: con lui e con Anelito c’erano Dario Montarese, Libero e Dino Mozzachiodi, Luigi Cibei e Paolino Ranieri. Anelito ricordava sempre che le cene erano a base di “testaroli”. Nel gennaio 1935 Barontini fu protagonista, in circostanze drammatiche, dell’espatrio via Fiume di due dirigenti comunisti ricercati, Ugo Muccini e Bruno Rolla. Scelto a dirigere l’attività del partito in Lunigiana intensificò l’attività antifascista con la diffusione della stampa a favore della Repubblica spagnola. Scoperto, nel 1937 venne arrestato insieme ad altri 70 giovani appartenenti alla stessa organizzazione. Alcuni di loro vennero solamente ammoniti, e poi liberati. Altri furono mandati al “confino” su un’isola (Ponza, Tremiti, Ventotene). Invece Anelito Barontini, Paolino Ranieri, Dario Montarese, Alfio Forcieri, Guglielmo Vesco ed altri di Arcola e della Spezia furono deferiti al Tribunale Speciale Fascista per la difesa dello Stato.Barontini rimase per quattro mesi in carcere a Villa Andreini, alla Spezia; quindi fu trasferito a Roma, a Regina Coeli, ove rimase per circa nove mesi in attesa del processo. Nel 1938 il Tribunale Speciale lo condannò a quattro anni di carcere, come pure Ranieri e Montarese, mentre Vesco ebbe due anni di condanna e Forcieri fu assolto. I condannati a quattro anni uscirono dal carcere nel marzo del 1940 anziché nel 1941, poiché usufruirono di un condono speciale, concesso dal Re Vittorio Emanuele III in occasione della nascita del nipote Vittorio Emanuele, figlio di Umberto.
Rientrati a Sarzana, Barontini e gli altri vissero per un po’ di tempo in libertà vigilata. Scaduto questo provvedimento, Anelito andò a lavorare presso l’officina elettromeccanica del sarzanese Mario Guastini, dove si costruivano cassettoni di regolamento di tiro, e che era situata alla Spezia, nel quartiere di Migliarina, in via del Canaletto. E lì portò a lavorare anche il fratello minore Aladino.

L’inizio della Resistenza

Intanto la guerra, dichiarata il 10 maggio 1940, imperversava. Già fin dai primi giorni del luglio 1943 Barontini operò per costituire un comitato unitario sindacale nelle fabbriche spezzine, d’intesa con le altre forze politiche antifasciste. Subito dopo le dimissioni di Mussolini, il 25 luglio 1943, Barontini fu tra gli organizzatori delle manifestazioni operaie a Spezia e a Sarzana. Poi giunse l’8 settembre 1943 e, con esso, l’armistizio. Subito, la sera di quello stesso giorno, Barontini, Ranieri e gli altri si riunirono segretamente, discussero il da farsi e decisero di trasferirsi sulle colline, tra Falcinello e Canepari, per organizzare i primi gruppi di resistenza armata contro i nazifascisti. E così fecero. Il comando militare fu affidato ad Arturo Emilio Baccinelli, operaio dell’Arsenale spezzino, mentre il ruolo di commissario politico fu informalmente svolto da Paolino Ranieri. Ma il vero “capo” era Barontini, che manteneva i collegamenti con le cellule del partito della basse valle del Magra e della Spezia e anche con il centro regionale del Pci di Genova. Poi Barontini tornò alla Spezia: si impegnò per realizzare la tipografia clandestina del Pci e del CLN alla Rocchetta di Lerici e per coordinare le Sap (Squadre di azione patriottica) e, nel frattempo, fu nominato segretario provinciale del PCI (gennaio 1944).

Lo sciopero del marzo 1944

Nel febbraio 1944 iniziò la preparazione dello sciopero nelle fabbriche. Il 1° marzo Barontini, nel centro operativo clandestino di via Tommaseo a Spezia, ricevette dalle staffette le entusiasmanti notizie dello sciopero riuscito in tutti i luoghi di lavoro.
Fu, quello italiano, il più grande sciopero in Europa, a dimostrazione che “nell’intreccio di scioperi e di guerriglia, di azioni militari e rivendicazioni sociali risiede il tratto peculiare e distintivo della Resistenza italiana”, come scrisse lo storico Ernesto Ragionieri. Per il PCI fu sempre molto chiaro l’obbiettivo politico. Lo spiegò bene Barontini nel 1974, nel suo intervento alla Conferenza “La Spezia marzo 1944. Classe operaia e Resistenza”: Hitler era stato sconfitto dai sovietici a Stalingrado, gli anglo-americani erano sbarcati nel sud, “si poneva con urgenza la necessità politica di un intervento della classe operaia e dei lavoratori italiani anche per evitare al Paese il pericolo di un processo, da parte degli alleati, di semicolonizzazione. Pertanto era necessario e doveroso che il popolo italiano, nel suo stesso interesse, facesse sentire la sua volontà di lotta e il contributo della sua forza nella battaglia per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale: condizione indispensabile per l’avvenire del Paese e per la stessa unità nazionale”. Il ruolo della classe operaia era fondamentale, perché “la fabbrica diventa sempre più punto di orientamento politico, di fiducia, elemento di unificazione politica e ideale e quindi forza determinante per lo sviluppo futuro di tutta la lotta contro il nazifascismo”. Il  PCI si batté, subito dopo l’8 settembre, perché gli operai rientrassero in fabbrica: “Era questa -spiegò Barontini nel ’74- la condizione politica di fondo che avrebbe determinato lo sviluppo futuro della lotta. Era facile sentirsi rispondere ‘io non vado a lavorare per i tedeschi’. Poteva, questa, sembrare una posizione più rivoluzionaria, ma in realtà non lo era e per questo non poteva e non doveva essere accettata”.
La centralità della classe operaia e del mondo del lavoro è un tema che, come vedremo, resterà sempre come punto di riferimento del pensiero e dell’azione di Barontini, in particolare nel dopoguerra e nei momenti drammatici della ristrutturazione delle aziende spezzine. Non a caso il volume a lui dedicato dal Comune di Sarzana in occasione dei 25 anni della morte (2008), curato da Lorenzo Vincenzi, fu significativamente intitolato “Fondata sul lavoro”, con il richiamo all’art. 1 della Costituzione nata dalla Resistenza.

“Rolando”

Ma ormai, dopo lo sciopero, Spezia non era più una città sicura per Barontini: nei giorni successivi fu ricercato per ogni dove dai fascisti.
Nell’organizzazione della Resistenza, ove prese il nome di battaglia di “Rolando”, egli assunse incarichi importanti, ma non operò più in territorio spezzino, bensì nella VI Zona operativa, alle spalle di Genova, come commissario politico. Anelito era stato “scoperto” a Spezia dai dirigenti nazionali del partito Giancarlo Pajetta e Raffaele Pieragostini nell’inverno tra il 1943 e il 1944. Pajetta fu entusiasta del suo lavoro organizzativo per  gli scioperi di marzo. Ma Barontini fu inizialmente notato da Pieragostini già prima, nel suo primo viaggio alla Spezia nel dicembre 1943: trovò una situazione molto difficile e nel gennaio, come ho ricordato, propose Barontini, che fino a quel momento si occupava dell’organizzazione militare, come segretario della federazione spezzina del PCI. Il successo degli scioperi di marzo alla Spezia (mentre a Genova erano falliti) fece crescere nei compagni dirigenti la stima in Barontini, il quale però era ormai a rischio di arresto e venne appunto trasferito a Genova. A metà agosto Barontini salì in montagna per assumere l’incarico di commissario politico della VI Zona operativa (Genova e aree limitrofe).

Basil Davidson e Peter McMullen, responsabili della missione del SOE “Clover” nella VI Zona genovese, scrissero su Barontini nel loro rapporto finale:

Rolando, il commissario di Zona, che per quanto possiamo capire è un dirigente del Partito Comunista, era via quando siamo arrivati. Aveva attraversato le linee a piedi per una visita a Roma. In febbraio è tornato paracadutandosi (il suo primo e unico lancio) con cinque milioni di lire dal Ministro Casati per il Comando di Zona, e lettere d’incoraggiamento di Casati e Scoccimarro. Ci siamo formati un’alta opinione di Rolando, e siamo stati dispiaciuti quando ha dovuto scendere alla Spezia”.

Un bilancio della presenza di “Rolando”  tra le file dei partigiani genovesi è stilato dallo storico Giorgio Gimelli, che lo colloca “tra gli artefici principali dell’assetto morale, organizzativo e militare delle forze partigiane genovesi, affrontando e superando con profonda onestà, sensibilità e grande equilibrio politico le più gravi crisi che la struttura clandestina ha dovuto affrontare”. Il riferimento è ai contrasti sorti tra il Comando e il partigiano Aldo Gastaldi “Bisagno”.

Va aggiunto che, anche da Genova, Barontini seguì le vicende della Resistenza spezzina. La I Divisione Liguria, che assunse in seguito il nome di IV Zona, che controllava l’area montana tra le valli del Taro, del Vara e del Magra, nacque verso il 25 luglio 1944 da una riunione svoltasi a Zeri, in alta Lunigiana, a cui presero parte i rappresentanti delle diverse bande. Comandante militare della Divisione fu nominato il colonnello del regio esercito Mario Fontana, già membro socialista del sottocomitato militare del CLN spezzino, mentre come commissario politico fu scelto il comunista Salvatore Cabrelli, in seguito sostituito da un altro comunista, Tommaso Lupi. Fu un compromesso tra comunisti e azionisti, le forze principali della Resistenza, raggiunto solo in seguito alla visita dei due rappresentanti del Comando Regionale della Liguria, il comunista Barontini e l’azionista Giulio Bertonelli.

Ma, come hanno scritto Davidson e Mc Mullen, dopo il rastrellamento del 29 novembre 1944 in Val di Magra e la crisi della “prima” Brigata Muccini, Barontini “scese alla Spezia” e tornò a occuparsi della sua terra. Il 23 aprile 1945, giorno della Liberazione di Sarzana, fu lui che, a nome del CLN, si insediò nel palazzo comunale come Sindaco della Liberazione. I partiti del CLN locale avevano convenuto che tale carica andasse ad un rappresentante del PCI, e ciò era di fatto un riconoscimento per il grande lavoro politico clandestino di Barontini, di Ranieri e degli altri, oltre che per i meriti conseguiti nella lotta partigiana.

Paracadutato con 5 milioni di lire

Barontini mantenne l’incarico solo per venti giorni; il 14 maggio 1945 lo lasciò a Goliardo Luciani, altro eroico partigiano, per tornare a occuparsi a tempo pieno del suo partito, nel quale andò a ricoprire incarichi molto importanti. Fu parlamentare ininterrottamente dal 1946 al 1968: prima alla Costituente, poi alla Camera dei deputati per tre legislature, infine al Senato dal 1963 al 1968. Nel 1960, al IX Congresso nazionale del PCI, entrò nella segreteria del suo partito, con Palmiro Togliatti segretario. Per molti anni, fino al 1971, ricoprì un incarico politico molto delicato: quello di amministratore centrale del PCI. Per questo, anche per motivi di sicurezza personale legati all’incarico, si trasferì a Roma con la famiglia.
Di Barontini si ricordano il rigore, l’onestà, le grandi capacità di organizzatore, la sensibilità, l’amore per la sua terra e l’Italia. Ritorno ancora sull’episodio citato da Davidson e McMullen, che illumina un lato importante della sua vita. Un episodio verificatosi nella sua vita di partigiano, che gli consentì di conquistarsi la stima di Togliatti e di Luigi Longo. Nel dicembre del 1944 egli ricevette l’ordine di passare il fronte e di recarsi a Roma per contattare gli alleati, il Governo Bonomi e i massimi dirigenti del PCI, tra cui il Ministro Togliatti. Qui giunto, l’allora Ministro Alessandro Casati gli consegnò la somma di ben cinque milioni di lire dell’epoca, dati all’Italia dalle forze alleate allo scopo di riorganizzare la Resistenza in Liguria. Così Barontini, trasportato di nuovo nella sua zona operativa da un aereo militare, onde evitare posti di blocco nemici, anche se non aveva alcuna esperienza di paracadutismo, si fece paracadutare sui monti liguri con il denaro, che consegnò a chi di dovere fino all’ultima lira. Fu per tale sua ardimentosa azione, fondata sul coraggio e sull’onestà, così come per altre vicende partigiane che, su proposta del Ministro della Difesa Lelio Lagorio, gli venne conferita la Medaglia d’argento al valor militare, registrata alla Corte dei Conti il 27 luglio 1982 e fatta pervenire alla moglie nel novembre del 1983, quando egli, purtroppo, era già deceduto. Tale medaglia, in seguito, fu donata al Comune di Sarzana dal fratello Aladino e ora si trova in un quadro appeso ad una parete del centro sociale che porta il suo nome, nel quartiere della Trinità.

Eccone la motivazione:
Barontini Anelito nato il 21 aprile 1912 a Castagneto Carducci (LI). “Vecchio antifascista militante e fervente patriota, sin dall’inizio della Guerra di Liberazione metteva in luce nel corso di numerose azioni elevate doti di organizzatore instancabile e capace, infondendo nei suoi uomini ardore e fede nei supremi ideali di libertà. Nominato commissario della VI Zona operativa, si dedicava efficacemente all’inquadramento e al potenziamento delle valorose divisioni e soprattutto svolgeva sempre opera unitaria fra tutti i combattenti del settore. Animato da purissima fede nella causa dell’indipendenza nazionale continuava fino alla liberazione la sua attività con grande energia, dimostrando notevoli capacità militari e indomito coraggio”.

Il dopoguerra: deputato, senatore, dirigente del PCI

Vorrei ora soffermarmi sul ruolo politico esercitato da Barontini nel dopoguerra, soprattutto nella nostra provincia. Il 1947 fu l’anno della Costituzione, ma anche della rottura dell’unità antifascista nel Governo, frutto della “guerra fredda” internazionale. Il 1948 fu l’anno della grande vittoria della DC e della sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni politiche del 18 aprile (anche se a Spezia il Fronte vinse con il 50,34% dei voti, contro il 35,70% della DC). Era cominciata una nuova fase. Nella tarda mattinata del 14 luglio 1948 giunse improvvisa la notizia dell’attentato a Togliatti. Anche le fabbriche spezzine si svuotarono, senza alcuna direttiva. Una grande folla occupò piazza Verdi, “terribilmente silenziosa e decisa”, scrisse “L’Unità”. Anelito Barontini riuscì con il suo grande prestigio a convincere i presenti a mantenere la calma, anche se qualche incidente vi fu. L’attentato a Togliatti dimostrò che la dirigenza del partito era aliena da ogni ambizione rivoluzionaria. Ma già la precedente amnistia togliattiana parlava chiaro: è un atto che va esattamente contro quella tesi storiografica successiva secondo cui i comunisti italiani sarebbero stati degli “assassini programmatici”.

Dopo l’attentato aumentarono sia le restrizioni ai diritti di libertà in fabbrica che gli arresti di partigiani accusati di reati compiuti durante e dopo la guerra. Il ’48 fu anche l’anno della scissione sia sindacale che del movimento partigiano. Il conflitto fu fortissimo nelle fabbriche. Già nel 1948 cominciarono le sospensioni dal lavoro, con lo scopo di diminuire il personale. L’attacco più pesante all’occupazione e alla base industriale della città ci fu dal 1950 al 1952. Il 15 settembre 1950 furono notificati oltre 800 licenziamenti all’Oto Melara, all’Ansaldo Muggiano e alla Termomeccanica. La reazione dei lavoratori portò all’occupazione e all’autogestione delle fabbriche, mentre i sindacati si dividevano. La “lotta”, come venne chiamata, si sviluppò in particolare all’Oto Melara, dal 5 ottobre 1950 all’11 aprile 1951. Più della metà dei lavoratori partecipò all’autogestione, senza salario, forte di una grande solidarietà popolare: erano gli operai più politicizzati, in gran parte ex partigiani e protagonisti dello sciopero del ’44. La direzione aziendale promise e poi elargì il 100% dello stipendio agli impiegati e il 75% del salario agli operai che fossero rimasti a casa. Furono scelte non facili, con divisioni tra i lavoratori e dentro le stesse famiglie. Un lavoratore disperato si suicidò. La “lotta” si chiuse con compromessi all’Ansaldo e alla Termomeccanica, che comportarono prezzi pesanti: licenziamenti e dimissioni volontarie. I lavoratori dell’Oto non accettarono questa prospettiva, ma la situazione era ormai senza sbocco. L’11 aprile ingenti forze di polizia giunte da tutto il Nord occuparono la fabbrica, ci furono scontri violenti in tutta la città. Tutti i 2.300 dipendenti furono licenziati, ne vennero poi gradualmente assunti 800, attraverso il filtro della discriminazione politica e sindacale: nel 1954 erano rimasti 16 iscritti alla Cgil, tecnici specializzati che, per il loro valore, non si era ritenuto opportuno licenziare. Barontini era tornato a esercitare il ruolo di segretario provinciale del PCI. Ebbe riserve sulla conduzione della “lotta” da parte della Cgil e della Fiom: ma il contrasto restò riservato, per non indebolire il fronte. Anche l’11 aprile il suo ruolo fu decisivo per evitare ogni resistenza ulteriore dei lavoratori e degli ex partigiani alla polizia, che avrebbe fatto precipitare la situazione, già difficilissima, in una tragedia. Nel 1981, in un’intervista a Ottavio Moscatelli, Barontini si espresse così: “Era venuta fuori all’ultimo momento, da parte delle organizzazioni sindacali, una posizione un poco rigida, o tutto o niente. Con questa posizione rigida io ero polemico. Ma non l’ho mai messo in evidenza perché c’era la lotta in piedi… Era un sindacalismo, secondo me, che sfuggiva un po’ da quelle che sono, a un certo momento, le esigenze di una tattica che ti deve permettere di arrivare a smascherare fino in fondo quali sono le posizioni dell’avversario, del nemico di classe, per avere maggiore forza nel condurre la tua battaglia e nel motivarla di fronte all’opinione pubblica… A un certo punto a una lotta così lunga bisognava trovare una qualche soluzione. Ma oramai eravamo agli sgoccioli”. C’è, in queste parole, un’attenzione agli autentici rapporti di forza, alla necessità di fare un sacrificio in vista del domani, di “prendere fiato per riaffrontare poi la battaglia”, un’attenzione a una prospettiva politica più generale rispetto alla visione sindacale, che ci dicono molto del Barontini dirigente politico.

Il 1952 fu l’anno dei licenziamenti politici in Arsenale (272 licenziamenti selezionati) e in altre fabbriche. Ci furono grandi lotte e scioperi, ma il disegno governativo passò. Dopo la “lotta”  e i licenziamenti politici molti operai spezzini, come i loro compagni degli anni ’20 all’avvento del fascismo, emigrarono verso i Nord Europa. Barontini fu in prima fila anche come responsabile nazionale del Sindacato Dipendenti della Difesa. Uno dei momenti più significativi di questo impegno fu il discorso che egli fece in Parlamento il 10 luglio 1952: una requisitoria durissima, con un lungo e commovente elenco di casi particolari di lavoratori, condotta nel nome della Costituzione.

Anelito non dimenticò mai la “lotta”. Anche alla sua tenacia di parlamentare si deve, va ricordato, la legge sul riconoscimento pensionistico riparatore ai perseguitati e licenziati politici. Era il 1971, senatore spezzino del PCI era Flavio Bertone, che lo aveva sostituito. Venivano finalmente riconosciute le ingiustizie perpetrate nei lontani anni ’50.

Il ritorno a Sarzana

Concludo ricordando che le vite di Barontini e di sua moglie Dina furono colpite duramente dalla morte dell’unico figlio Sergio, avvenuta in un incidente stradale. Quella tragedia portò Anelito ad abbandonare l’incarico di amministratore centrale del partito e, poiché era terminato anche il suo mandato parlamentare, nel 1970 poté tornare a Sarzana, dove erano state sepolte le spoglie dell’amato Sergio, a cui Dina e Anelito volevano essere vicini. Nel 1970 venne eletto consigliere comunale e nel 1971 Sindaco di Sarzana, dopo il ritiro di Ranieri, che lo era stato per ben 25 anni. Barontini si dedicò tra l’altro al perfezionamento o alla realizzazione di infrastrutture fondamentali per la vita cittadina e per lo sviluppo delle attività produttive (per esempio quelle legate all’agricoltura).

Lasciato il Comune nel 1977, Barontini fu nominato presidente dell’Ospedale San Bartolomeo, proprio in quegli anni in cui prendevano l’avvio i lavori del nuovo ospedale di Santa Caterina, con tutti i problemi connessi, e nello stesso tempo l’Italia dava avvio per la prima volta a una moderna riforma sanitaria. Morì a Sarzana l’11 maggio 1983, all’età di 71 anni. Ebbi l’onore, quale membro della segreteria provinciale del Pci, di portare sulle spalle la sua bara lungo le vie della sua Sarzana, assiepate da una folla enorme e commossa. Se ne andava, mi ha detto in questi giorni Aldo Giacché, che mi ha aiutato nella stesura di questa relazione, “un grande dirigente politico, dotato di forti capacità di analisi e di organizzazione, di spirito unitario e di un legame straordinario con le gente e con i lavoratori, una persona onesta, austera e animata dal disinteresse personale”. Caratteristiche di esemplarità dell’impegno politico, aggiungo, che non dovrebbero essere ridotte a residui di un’epoca passata. Sono valide ancora oggi, come antidoto potente alla crisi della politica e della democrazia.

Vorrei, infine, ringraziare Aldo con una citazione dal libro di Vega “Ivana” Gori e di Maria Cristina Mirabello “Ivana racconta la sua Resistenza”. “Ivana”, partigiana dattilografa, ricorda nelle pagine finali piccoli e grandi avvenimenti dell’immediato dopoguerra. La federazione comunista era un luogo frequentatissimo: “tra i giovanissimi c’era Aldo Giacché, per il quale Anelito Barontini mostrava particolare attenzione, lasciandosi andare a commenti lusinghieri su di lui, sovente dicendo con l’accento tipico di Sarzana: ‘E’ proprio un ragazzo in gamba’”.

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