Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Il partito della sinistra riparta da Gramsci

a cura di in data 7 Febbraio 2021 – 11:09

Il Secolo XIX nazionale, 27 gennaio 2021 – Il centenario di un partito scomparso trent’anni fa è stato oggetto quasi corale di riflessione, nei media e nel mondo culturale e associativo. Eppure la distanza tra il nostro tempo e il 1921 è enorme. Come ha scritto Antonio Gibelli sul “Secolo XIX” la nascita del PCI fu “in tutti i sensi figlia della guerra”. Quella tragedia sociale fu il cataclisma scatenante: della Rivoluzione d’ottobre e del comunismo, così come del fascismo che ad essi si oppose.
L’interesse per il PCI deriva dal suo sviluppo successivo. Il partito si rifondò due volte: nel 1926 a Lione, quando Gramsci sconfisse il dottrinarismo del primo Segretario, Amadeo Bordiga; e nel 1944 a Salerno, quando Togliatti indicò la strada della “democrazia progressiva”, della pratica riformista che conviveva con l’ideologia rivoluzionaria. Una sorta di “doppiezza a fin di bene”, che consentì al PCI di radicarsi nel mondo del lavoro e di arrivare a due milioni di iscritti e al 35% dei voti. Ma non di approdare al governo: non solo per il mai interrotto legame con l’URSS, frutto dell’illusione della sua riformabilità, ma anche per limiti di cultura politica. La sconfitta arrivò negli anni Settanta: il Sessantotto impose la domanda del cambiamento, ma il PCI cominciò a smarrire i contatti con la società, e la sua risposta fu sostanzialmente conservativa. Fino al precipitare della crisi nel 1989, quando l’errore non fu quello di cambiare nome, ma di perdere di vista l’obiettivo della trasformazione sociale, mutuando l’obiettivo liberale e liberista.

La storia del radicamento sociale del “partito di sinistra” interessa ancora: perché mancano i partiti e perché manca la sinistra. Senza i partiti stenta la democrazia, che vive solo se ci sono canali di rappresentanza sociale. Senza la sinistra stenta la politica, che vive solo se c’è conflitto, e non omologazione.
La questione è se il “partito di sinistra” abbia o no un futuro. Lo avrà se saprà reinventare il compito svolto nella storia: rappresentare una parte del tutto, quella che “sta sotto”. Emanuele Macaluso, “comunista riformista”, nel suo ultimo libro ha scritto:
“Ritengo che un partito della sinistra debba stare sempre attento ai processi che investono la società. Se smonti la tua presenza nella società, allora la tua presenza al governo assume un altro aspetto. Facendo quasi una battuta, ho detto che la cultura che aveva un contadino siciliano, un bracciante pugliese o emiliano era molto più alta di quella di molti politici che girano oggi. Quest’abbassamento culturale ha portato alla situazione attuale. Mi inquieta il fatto che ci sia un distacco della sinistra dagli interessi immediati e reali del popolo, motivo per cui viene vissuta quasi come un vecchio club”.

Ma forse il secolo scorso non è così lontano. Perché se la sinistra deve ricreare una dimensione sociale e una nuova trama di relazioni umane tra le persone, se deve ricostruire una identità collettiva delle classi subalterne e prefigurare una nuova moralità e senso della vita, allora ha bisogno di Antonio Gramsci, l’unico suo pensatore che si è cimentato nello studio delle relazioni sociali e delle forme di costruzione della società.

Non solo: se la sinistra deve ricostruire un partito non può che ripartire dall’idea gramsciana di una democrazia partecipata in grado di accrescere le capacità di autogoverno dei ceti subalterni, di renderli signori di se stessi e di mutare il rapporto tra governanti e governati.

A 130 anni dalla nascita di Gramsci -che nacque il 22 gennaio 1891- l’anniversario che più ci parla, allora, è questo. Cito ancora Antonio Gibelli: “L’unico che guardò oltre il modello della guerra fu Gramsci”, in quei “Quaderni del carcere” che, ha scritto Luciano Canfora sul “Secolo XIX”, contengono “una bussola per capire la contemporaneità”. I “Quaderni” sono una sorta di “Zibaldone”, perché Gramsci, come Leopardi, parte sempre dalla vita vissuta: è “storia ufficiale” del PCI ma è anche “un’altra storia”, alternativa allo stalinismo ed eterodossa rispetto a quella del suo partito, mai fino in fondo gramsciano. Qualunque sarà il nome del “partito di sinistra” del futuro, troverà in Gramsci un serbatoio inesauribile di scoperte.

Giorgio Pagano
cooperante e scrittore, ultimo segretario provinciale del PCI della Spezia

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