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Presentazione di “La rivoluzione non è che un sentimento”

a cura di in data 21 Gennaio 2022 – 09:26

Copertina

Sarzana 10 dicembre 2021
Intervento di Giorgio Pagano

Ho apprezzato la caratteristica di fondo del libro: dalle microstorie alla macrostoria, dalle testimonianze dei singoli al racconto storico corale, dal locale al globale.
Le testimonianze non sono solo delle persone “famose” ma anche delle persone semplici: la macrostoria l’hanno fatta anche loro, come sempre; anche se non sempre, anzi quasi mai, è emerso.
Già in questa scelta di dare la parola a tutti il libro si rivela come un libro “sessantottino”, un libro delle primavere della storia.
Non c’è un io ma un noi, l’unità narrativa è il coro.

Il titolo è pasoliniano, lo condivido.
La rivoluzione è innanzitutto un sentimento.
Tutte le primavere della storia, tutte le mobilitazioni collettive di progresso esigono un mutamento culturale, etico, spirituale. Sono rivolte esistenziali che approdano, a partire dalla dimensione soggettiva, alla dimensione collettiva e comunitaria.
Fratellanza è la parola chiave nella Resistenza così come negli anni Sessanta e nel Sessantotto
Già prima: nella Comune di Parigi – che fu anche uno stile di vita alternativo – e nel biennio rosso – quando gli operai si sentirono classe di produttori, e nacque la memoria fraterna della classe, il cui filo rosso arriva alla Resistenza e all’Autunno caldo, per poi spezzarsi.
Leggiamo la testimonianza di Norma Bertullacelli:
«Il primo giorno del G8, giovedì 19 luglio, c’è stata una manifestazione molto bella. che è stata chiamata la “manifestazione dei migranti”. Forse è stata una delle prime volte in cui i migranti sono stati protagonisti di un’iniziativa così grande e così partecipata. Era fondamentale il messaggio che arrivava: “Ci siamo anche noi, esistiamo anche noi”. Il corteo del 19 è stato bellissimo, con tanta musica, con tanti colori, con gente che ballava, con il mescolarsi tra persone. Una cosa che mi ricordo di quel corteo: io vengo da anni lontani, quando le manifestazioni si svolgevano in fila, a braccetto, tipo falange macedone. In questo caso niente di simile, cioè c’è stata una mescolanza, le appartenenze a quel punto non c’erano più, non c’erano più divisioni, quindi ti trovavi con l’immigrato, ti trovavi col prete, ti trovavi col militante dei centri sociali, ti trovavi con le suore, ti trovavi con le famiglie. Insomma, sono saltati parecchi steccati in quell’occasione».
La mescolanza tra le persone dà l’idea del sentimento di fratellanza.
Le normali risorse critiche della storiografia non bastano a spiegare le primavere della storia, che sono sempre grandi processi di trasmissione e condivisione di emozioni che si trasformano in azione politica.

Dalle testimonianze emerge la violenza di quei giorni. La violenza saturò e monopolizzò lo spazio mediatico. La tv fece vedere i black block, il mediattivismo fece vedere la violenza di Stato: nei cortei, alla Diaz, a Bolzaneto.
«La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale»: così si esprimeva Amnesty International in un rapporto del 21 luglio 2006 che faceva il punto a cinque anni di distanza.
Va detto che, nella sostanza, nonostante altri agghiaccianti episodi successivi, il modello Genova di gestione dell’ordine pubblico è fallito e non si è più ripetuto in quelle forme. Perché il sistema politico non è stato in grado di garantire l’impunità per gli abusi compiuti. Ciò non è dipeso da misure di risanamento sviluppate all’interno del circuito politico-amministrativo. Al contrario molti dei funzionari di polizia implicati negli abusi, lungi dall’essere censurati, hanno beneficiato di generosi avanzamenti di carriera, mentre il Parlamento ha bocciato la proposta di una Commissione d’inchiesta che, almeno, avrebbe portato alla luce le direttive date e le relative responsabilità politico-amministrative.
Ancora una volta, dopo la stagione del terrorismo e delle “stragi di Stato” come Piazza Fontana, la tenuta della democrazia nel nostro Paese si è retta su due pilastri: la mobilitazione popolare e il sistema di indipendenza della magistratura come delineato dai padri costituenti (nel mettere in evidenza il secondo pilastro non dimentico il difetto strutturale nell’ordinamento giuridico italiano che può impedire la punizione dei responsabili di tortura e di atti inumani e degradanti).
Sono due pilastri che dobbiamo mantenere intatti se vogliamo conservare i nostri diritti.

Voglio ricordare Carlo Giuliani e un’altra vittima della violenza di quei giorni: lo spezzino Fabrizio Ferrazzi, un caro amico.
Ho raccontato la sua vicenda nell’articolo “In memoria di Fabrizio, torturato a Bolzaneto” (“Città della Spezia”, 31 luglio 2016).
Quando si è torturati le ferite psichiche sono più forti di quelle fisiche. La storia della tortura dimostra che chi subisce gli abusi perde fiducia nell’altro e nella società: la tortura è praticata proprio con il fine dell’esclusione sociale e dell’annientamento. Fabrizio, cattolico e pacifista, dopo aver visto in quei terribili due giorni il suo Dio della Vita sconfitto dal Dio della Morte, scelse di andarsene.

La violenza opacizzò i contenuti della mobilitazione, almeno in parte. Si sarebbe potuto evitare?
Leggiamo la testimonianza di Monica Lanfranco:
«La storia non si fa con i se e con i ma, però è storia vera che, attorno ad aprile, arrivò la proposta da parte dell’amministrazione della Spezia, che invitò il Genoa Social Forum: “Venite qui, a luglio venite qui. Noi vi offriamo gli spazi per poter fare il Social Forum”. Una di quelle sliding door che, con il senno di poi, avrebbe certamente fatto la differenza. Genova non è stato solo luglio, è stato anche giugno, e non solo manifestazioni di piazza, ma è stata un grande sforzo per dare voce, dal 14 fino al 19 luglio, alla migliore intelligenza del pianeta, che aveva visioni e soluzioni alternative alla globalizzazione neoliberista, per una globalizzazione delle ricchezze vere, dei diritti, insomma della bellezza del mondo. Questo noi volevamo, almeno lo desideravo io e una parte di chi con me era nel Genoa Social Forum. La Spezia dice al collettivo portavoce: “Venite qui”.
Quello che vedevo come punto di forza di quell’ipotesi era la desertificazione di Genova. Desertificare Genova significava togliere luce e attenzione su quegli otto stronzi non eletti, e alla loro retorica vuota: ci sarebbe stato il comunicatino senza senso del loro incontro inutilmente costoso e disturbante, ma i giornalisti, le giornaliste, la stampa estera, il mondo dell’informazione sarebbe venuto a La Spezia, e lì avremmo potuto davvero far vedere che cos’era l’altra faccia della globalizzazione, quella dello studio di soluzioni alternative ai problemi del pianeta e di chi lo abita. La proposta non passò, perché l’errata voglia dell’immediatezza reattiva e della contrapposizione testosteronica vinse. Il testosterone non è mai un buon consigliere, così come la fretta e la reazione immediata e fronteggiante: “Ah, tu sei qui? Allora ci sto anch’io!”. La lezione, spero, in parte si è imparata, guardando ai movimenti ecologisti delle generazioni giovanissime, ma il prezzo pagato è stato altissimo, a Genova».

Incontrai il Genoa Social Forum il 10 maggio, a Genova, fu un colloquio molto positivo.
Non insistetti, capivo che era una proposta che non poteva passare. La “voglia dell’immediatezza reattiva” era troppo forte.
Ne scaturì comunque un programma molto intenso di iniziative alla Spezia. Invitammo personalità dell’economia e della cultura, dedicammo una giornata al mondo sociale latino americano… Un momento importante fu il seminario del 14 luglio sul tema “Il potere della letteratura”, che si concluse dopocena al Teatro Civico. Gli atti furono pubblicati dal “Secolo XIX” in un apposito inserto, e poi in un libretto del Comune. Parteciparono intellettuali di molti Paesi del Mediterraneo: Rosi Braidotti, filosofa italiana docente in Olanda, Carlo Coccioli, grande scrittore italiano da molti anni in Messico, Vincenzo Consolo, il turco Nedim Gursel, il croato Predrag Matvejecic, autore del bellissimo “Breviario mediterraneo”, il tunisino Abdelwahab Meddeb, Elisabetta Rasy, il greco Vassilis Vassilikos, autore di “Z, l’orgia del potere”, l’algerino Khaled Fouad Allam. Un consesso d’eccezione, che diede vita a una giornata straordinaria. Impossibile ripercorrerla qui, se non ricorrendo ad alcune parole dell’intervento “Non per concludere” di Egi Volterrani: «L’intellettuale non è morto, ancora. […] deve operare nel senso di far crescere nella gente gli strumenti critici, la capacità di intervento dialettico. Anche attraverso un uso consapevole delle memorie. Si tratta di un discorso sempre più diverso da quello che viene loro sempre più richiesto (dal potere o dal mercato, o attraverso di essi). […] Mentre la memoria viene privata, nelle nuove ‘tecnologie’, di selezioni e di gerarchie, la ‘logotecnica’, ossia la letteratura, ricrea i valori di riferimento stabilendo le pari dignità di tutte le memorie storiche che l’umanità ha stabilito distribuendosi in ogni parte del pianeta, affermando la centralità della dignità individuale dell’essere umano, e riconoscendo all’ambiente e alla natura, in tutte le sue manifestazioni vitali, l’infinito rispetto che è loro dovuto». C’era già, profetica, una critica alla rete sulla questione della memoria del passato. Così come c’erano i segni di una concezione non antropocentrica del mondo, con al centro non solo l’uomo ma anche la natura, avente anch’essa la dignità di soggetto.
Il grande Carlo Coccioli, che mancava all’Italia da cinquant’anni, annunciò, alla fine del suo intervento: «Desidero trasferirmi nuovamente in Italia e proprio qui alla Spezia». Voleva comprar casa, ma morì poco tempo dopo. Coccioli era positivamente stupito che a Spezia non ci fosse un McDonald’s. Ma stava per arrivare anche da noi… Qualche mese dopo andai a Porto Alegre, al secondo Forum Sociale Mondiale: la città era piena di McDonald’s…
Un momento simbolo fu il concerto di Bob Dylan al Picco il 20 luglio. Seppi della morte di Carlo Giuliani poco prima dell’inizio del concerto. Concordammo con Dylan di non sospenderlo e di dedicarlo a quella giovane vita spezzata, dopo un minuto di silenzio. Fu un concerto speciale, Dylan suonò ventidue canzoni. Non sapremo mai se cambiò la scaletta che aveva previsto, perché ogni concerto di Dylan è sempre stato diverso dall’altro: ma è bello pensare che quella sera abbia scelto di cantare molte canzoni pacifiste del suo repertorio.

Una opacizzazione dei contenuti, quindi, in parte vi fu.
Ed è giusto, oggi, parlare soprattutto di questi contenuti, come fanno molto bene i venti testimoni del libro.
Quello che emerge è che nel luglio 2001 arrivò a maturazione un processo di organizzazione dal basso per una forma di globalizzazione alternativa a quella neoliberista. Un’istanza alter globalista che fu sconfitta ma che è sopravvissuta, come un fiume carsico, ed è tornata ad affiorare in tempi recenti.
Il libro racconta il caleidoscopio dei temi di rivendicazione: pacifismo, lotte contro la crisi ambientale, autodeterminazione delle comunità indigene oppresse, battaglie per i diritti delle donne, per un più equo utilizzo delle risorse globali e contro lo sfruttamento dei territori e della mano d’opera nei paesi impoveriti.
Così come emerge che c’è un pezzo di storia che precede il 2001, un processo più ampio di un laboratorio politico. Nel 1990 a Bruxelles si erano verificate delle manifestazioni di agricoltori contro la World Trade Organization. Nel 1994 in Chiapas gli zapatisti avevano iniziato a organizzare incontri antiliberisti, insieme ai portavoce di altre minoranze oppresse. L’intenzione era quella di creare occasioni di incontro in cui organizzare le rivendicazioni per una globalizzazione alternativa, così come sarebbe avvenuto a Seattle nel novembre 1999 e poi dal 22 al 25 gennaio 2000 a Porto Alegre, in Brasile, con il primo Forum Sociale Mondiale.

La grande domanda del libro è: che cosa è rimasto dei pensieri, dei progetti, delle lotte di quegli anni?
E’ anche un libro di progetto, rivolto al futuro e alle nuove generazioni.
Non c’è dubbio che la sinistra non capì. Anzi, la sinistra riformista accentuò il profilo neoliberista già assunto per portare al governo gli eredi del Pci, un profilo che ha contribuito a portarci fino alla situazione attuale.
Per una serie lunghissima di errori, commessi anche dopo il 2001, oggi in Italia non abbiamo né una sinistra socialdemocratica, né una sinistra radicale, né una forza ecologista.
Io posso raccontare la storia di questa drammatica incomprensione dalla mia postazione di allora, la sinistra riformista.
Ero convinto che dovevamo ripartire da Genova, che dovevamo chiudere con la convinzione della “fine della storia”, emersa nel 1989 dopo che già c’era stata la prima grande sconfitta, quella dell’agonia del Sessantotto negli anni Settanta, nel corso della quale il profilo neoliberista nella sinistra era già emerso.
Andai a Porto Alegre, al Forum Sociale Mondiale del gennaio 2002, poi a quelli europei di Firenze del novembre 2002 e di Saint Denis del novembre 2003. Ricordo che il vecchio Sindaco di Spezia, il comunista amendoliano Aldo Giacché, allora anima della sezione Nord dei DS – nel cuore popolare della città – mi invitò a raccontare, in una piazza gremita, la mia esperienza a Porto Alegre. Anche lui, come me, era convinto che il riformismo dovesse nutrirsi della cultura alterglobalista, contro l’idea dominante della globalizzazione liberista, secondo cui il benessere di pochi avrebbe comunque comportato vantaggi per tutti.
Ma quel tentativo “dal margine” fu del tutto isolato e fallì. La risposta della sinistra, italiana ed europea, fu desolante. Era forse la sua ultima occasione, e fu perduta. A me divenne definitivamente chiaro che non c’era più un’offerta politica al livello delle aspirazioni alla giustizia sociale e ambientale. E che quel percorso andava continuato non nei partiti o in Parlamento, ma nella società e nella cultura, perché operasse il “soggetto solidale e responsabile” di cui già allora parlava Edgar Morin. La precondizione per la rinascita della politica.
Ed è quel che feci nel 2007, esaurito il mio secondo mandato da Sindaco, dopo aver rifiutato di fare il parlamentare nel 2006.

Altri potranno raccontare la sconfitta della sinistra radicale, o dei tentativi di dar vita a una forza ecologista.
Ma i temi del 2001 sono tutti davanti a noi. Il che significa che quel movimento fu sconfitto, ma anche che non fu sconfitto. Se guardiamo ai nuovi movimenti di portata internazionale – dalle “primavere arabe” ai Fridays for Future e a Black lives matter – ritroviamo l’urgenza di alcuni dei temi di Genova e dei Forum Sociali Mondiali.
L’esigenza di un altro modello economico e culturale, di un’altra idea di civilizzazione rispetto a quella dominante è più viva che mai. Soprattutto nei movimenti del Sud del mondo, che mettono al centro l’unità indissolubile della giustizia sociale e della giustizia ambientale. Sta davanti a noi, non più rimandabile, la questione della giustizia globale. Per capirlo dobbiamo mettere da parte ogni sguardo eurocentrico o occidentocentrico.
Non ci basta la tensione umanistica del Sessantotto e nemmeno quella del 2001, perché ancora antropocentriche, nonostante la nuova sensibilità ambientalista del 2001. L’antropocentrismo non ci fa comprendere quanto fondamentale anche per la nostra sopravvivenza sia riconoscere dignità e diritti al resto della vita intorno a noi.
Come ha detto Giuseppe De Marzo di “Libera”:
«Pensare di essere sani in un mondo malato è irrealistico, perché la vita è un insieme di “relazioni inseparabili”. Siamo parte del ciclo della vita. Non siamo il dominus. Non siamo il centro. Non siamo l’avanguardia politica. Non siamo i migliori. Siamo vita in mezzo alla vita che vuole vivere. Se non riusciamo a riconoscere e allearci con chi difende la vita in ogni sua forma, dai diritti sociali a quelli umani, da quelli della natura a quelli degli animali, saremo spazzati via. La pandemia, il collasso climatico e la riduzione della biodiversità ce lo stanno mostrando. Usciremo dal pantano in cui siamo immersi non solo ridistribuendo ricchezze ma ripensando una visione culturale che garantisca un equilibrio salvifico a tutti».
Coniugare in un’unità indissolubile giustizia sociale e giustizia ambientale è il grande tema del nostro tempo.
Questa tensione umanistica non antropocentrica verso la giustizia globale vive in una sinistra plurale, in una forte passione civica, in una energia politica che surroga il vuoto lasciato dai partiti. Senza dubbio la principale sorgente della vita democratica. Certo, sappiamo che nella società a queste iniziative se ne affiancano altre assai meno apprezzabili, all’insegna dell’inimicizia verso l’umanità più debole e verso la natura. E sappiamo anche che non possiamo fare a meno della rappresentanza politica e istituzionale, perché l’alternativa è l’autocrazia, che oggi è ben visibile.
Dobbiamo quindi, come ha scritto Gaetano Azzariti su “il manifesto”, «attrezzarci per una doppia battaglia: dentro la società per dare coscienza alle persone, dentro le istituzioni per riuscire a tradurre i “fatti” (sociali) in “norme” (politiche)». La prima battaglia è, a mio parere, quella fondamentale.
Maurizio Maggiani dice nella sua testimonianza: «Io sono ottimista proprio perché ho la convinzione che la storia non finisca».
Certo, la storia non è finita. Um outro mundo è possivel, come dicevamo a Porto Alegre. E drammaticamente necessario.
In un’altra testimonianza, lo spezzino Mauro Degl’Innocenti dice:
«E’ già da un po’ che le uniche cose sagge e forti le dice il Papa, quando dice di combattere la povertà, le armi, le guerre. E’ da lì che dovremmo ripartire, da quei temi lì. […] Non so… io vado col Papa! La prossima volta mi troverete con lui».
Non ci basta nemmeno il Papa, però la Laudato sì è anche un progetto politico di giustizia globale.
A Graz, la seconda città dell’Austria, Paese dove il Partito Comunista ha lo 0,69%, è stata eletta una Sindaca comunista, con il 30% dei voti.
Un politologo austriaco ha scritto: «A premiare i comunisti di Graz è stato l’impegno su temi quotidiani come la casa, e soprattutto la fatica di esserci sempre».
La Sindaca, Elke Kahr, ha detto: «Per me conta solo la felicità della povera gente».
In Francia il Partito comunista è esangue, l’ombra di sé stesso. Ma la Ong con sede a Londra City Mayors Foundation, che ogni due anni seleziona il miglior Sindaco del mondo contro le diseguaglianze sociali, ha premiato Phlippe Rio, Sindaco comunista di Grigny, il Comune più povero di tutto l’agglomerato parigino (il 50% vive sotto la soglia della povertà). Ai suoi collaboratori Rio ripete sempre: «Dobbiamo essere capaci di avere i piedi nella merda e la testa tra le nuvole».
Dedicarsi alla felicità di chi sta nella merda: che sia questo il segreto?

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