Per un golfo di pace, lavoro e sostenibilità “Riflettiamo sul progetto Basi Blu” – Sabato 13 aprile ore 17 alla Sala conferenze di Tele Liguria Sud
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Anche se tornerò in Africa, per la mia città ci sarò sempre – Intervista di Thomas De Luca a Giorgio Pagano

a cura di in data 1 Febbraio 2017 – 17:52

Città della Spezia, 25 gennaio 2017

Dopo i dieci anni alla guida della città la scelta, sorprendente, di rinunciare alla “carriera” politica per dedicarsi alla cooperazione internazionale. Quali sono le ragioni di questa svolta?
Maturai questa scelta nel 2005, dopo un viaggio in Terra Santa, dove andai per siglare il gemellaggio tra tre città, La Spezia, la palestinese Jenin e l’israeliana Haifa, e per presentare il progetto del centro giovanile Sharek a Jenin. Tutto cominciò da lì. Soprattutto, come racconto nel libro, dall’incontro con i bambini del campo profughi di Jenin. Quando un bambino ti chiede il diritto a essere felice, la prima azione politica diventa impegnarsi per renderlo felice. “Quando il dramma è assoluto, la politica diventa semplice”, come ha scritto il mio amico Massimo Toschi, cooperante e disabile. Nell’autunno del 2004 avevo annunciato che avrei portato a termine il mandato da Sindaco, rinunciando alla proposta di fare il parlamentare. Della scelta di fare il cooperante parlai per la prima volta a mio figlio, nell’agosto del 2005, a Londra: eravamo nei bellissimi giardini di Hampton Court. La resi pubblica pochi mesi prima della fine del mandato, nel 2007, nell’intervista a Maurizio Mannoni che apriva il mio libro “Orgoglio di città”, con queste parole: “La tragedia che c’è in questa parte del mondo, la lotta tragica tra due ragioni, e il coraggio di riconoscere le ragioni degli uni e degli altri e di costruire la riconciliazione: tutto questo mi appassiona e mi coinvolge, è un grande alimento per la mia passione politica. L’importante, per me, sarà continuare una ‘missione civica’. E non ridurre la vita a una carriera politica. L’importante sarà partire sempre dalle più profonde motivazioni che mi hanno spinto a fare della politica la mia scelta di vita: contribuire a una società più giusta e più libera. E rimanere coerente ai miei principi, compreso quello di non ridurre la vita a un’eterna corsa verso ambizioni personali. Thomas Mann scrisse: ‘Mai dovrebbe la politica spogliarsi della sua componente ideale e spirituale, della parte etica e umanamente rispettabile della sua natura’. Ecco, in me non si è spenta la fiducia nella politica, in questa concezione della politica. E vorrei continuare a sentirmi legato a essa, anche esplorando strade nuove”.

Quindi nella sua “scelta di vita” pesò anche la crisi etica e ideale della politica dei partiti?
Non c’è dubbio. La ribellione contro il degrado e la decadenza della politica dei partiti fu una componente molto forte della mia scelta, e fu un tutt’uno con l’insoddisfazione profonda per lo stato della sinistra e per come stava nascendo il Pd, partito leaderistico, lontano dalla società, subalterno al neoliberismo. Motivazioni che all’inizio preferii tenere per me, sia perché speravo ancora di essere smentito dai fatti, sia perché non volevo creare alcun problema alla campagna elettorale del centrosinistra. Subito dopo il voto cominciai a manifestare il mio dissenso in modo molto netto. La storia del mio impegno civico, sociale e culturale per “ricostruire la sinistra” l’ho poi raccontata nel mio libro “Non come tutti”. In un libro precedente, “La sinistra la capra e il violino”, avevo spiegato il terzo motivo della mia scelta: era ormai molto forte il mio distacco dal gruppo dirigente spezzino di Ds-Pd. Non parlerei nemmeno di “gruppo dirigente”, perché un gruppo di persone senza alcun “comune sentire” non è più tale. Anche questo fattore pesò. Non fu determinante, ma pesò.

Come nasce il suo impegno a Sao Tomé e Principe? Che cosa ha fatto, nello specifico, in queste isole “al centro del mondo”?
Nel libro racconto le mie esperienze di volontariato dal 2007 a oggi. Diventai delegato nazionale dell’Anci, l’associazione dei Comuni, per la cooperazione decentrata: mi impegnai subito nel progetto “Municipi senza frontiere”, dedicato al sostegno al decentramento amministrativo in Africa. Da lì nacque l’avventura successiva, l’associazione “Funzionari senza Frontiere”, radicata soprattutto in Toscana, che presiedo ancora oggi. Contemporaneamente mi dedicai a Januaforum, un’altra bella avventura, questa volta tutta ligure, con l’obbiettivo, in buona parte riuscito, della costruzione di una rete regionale non solo dei cooperanti ma anche di tutti coloro che si occupano di relazioni internazionali. Mi impegnai in queste esperienze soprattutto in Italia, perché le vicende familiari mi impedivano lunghe assenze. Riuscii però a tornare a Jenin, e a lavorare al Piano strategico di Betlemme. Nel 2011, con la Ong Alisei, mi impegnai in un progetto di assistenza umanitaria in Libia, subito dopo la rivolta popolare contro Gheddafi: ma fallimmo, a causa della totale inconsapevolezza del Governo italiano, nel tentativo di sostenere il decentramento amministrativo e l’autogoverno locale, che pure sarebbero stati un buon antidoto contro i conflitti interni che deflagrarono in seguito in quel Paese. Poi, nel 2015-2016, la prima missione africana, a Sao Tomé e Principe. Tra il 2015 e il 2016 ho lavorato al Piano Integrato di Sviluppo Sostenibile e Inclusivo del Distretto di Lembà, il più povero dell’arcipelago, ancora con Alisei. Potremmo definirlo un “Piano strategico partecipato”: una “visione” sullo sviluppo del Distretto, e tanti progetti concreti per attuarla, in campo economico, ambientale, sociale, formativo, culturale. Da questa esperienza è nato il libro, che contiene il diario della missione e un reportage fotografico, ed è anche una riflessione più generale sull’Africa e sul rapporto Europa-Africa.

Il nuovo corso della sua vita l’ha portata su un’isola che è inferno e paradiso. Sao Tomé è tanto splendida dal punto di vista paesaggistico e ricca dal punto di vista delle risorse naturali, quanto fragile sotto il profilo economico e sociale e da quello politico e democratico? Una terra di contraddizioni che sembra poter condensare il bene e i mali di tutto il continente africano…
Il diario comincia con un titolo, “Sao Tomé, bellissima e poverissima”, che sintetizza la mia impressione iniziale. In effetti Sao Tomé è magnifica per le coste, la foresta, la biodiversità. Ma è uno Stato estremamente dipendente dall’appoggio esterno, con l’85% del suo bilancio finanziato dai Paesi partner. Ultimamente, grazie a questo impegno, ha registrato significativi miglioramenti per quanto riguarda lo sviluppo umano: ora è al 142° posto su 187 Paesi nell’Indice di Sviluppo Umano dell’Onu, sopra la media dell’Africa subsahariana. I passi in avanti ci sono stati soprattutto nell’educazione e nella salute. Ma il Paese resta, nonostante i miglioramenti, uno Stato fragile e vulnerabile, tanto più di fronte agli effetti sia della crisi economica mondiale che di quella climatica. Economicamente è più indietro rispetto alla maggioranza degli altri Paesi africani. Dal punto di vista politico, invece, è più avanti: è una democrazia, e ha conosciuto anche l’alternanza, senza scossoni particolari. Quindi lei ha ragione: c’è il bene e ci sono i mali. L’Africa va conosciuta, fuori da ogni stereotipo e pregiudizio. E forse è il caso di parlare di “molte Afriche”. Perché non funziona il discorso “piagnone”, secondo cui l’Africa è solo arretratezza, ma nemmeno quello “falsamente ottimista”, che vede solo crescita dappertutto. Semmai si deve parlare di un quadro contraddittorio, con tanti progressi e con tante criticità. La crescita economica, dove c’è stata, è stata favorita dall’espansione della classe media e dal conseguente sviluppo del mercato interno, ma anche e soprattutto dal petrolio, ed è quindi fortemente vulnerabile. Sao Tomé è poverissima perché soffre il fatto di essere un’isola, perché classe media e mercato interno sono ancora molto limitati, ma anche perché non ha ancora sfruttato il petrolio. Attenzione, però: il petrolio è una “maledizione”, perché comporta non solo problemi ambientali, ma anche sovranità limitata, neocolonialismo, distribuzione diseguale della ricchezza e corruzione, tanta corruzione. Ancora: in Africa c’è stata anche una crescita della democrazia, come a Sao Tomé, ma le aree di crisi democratica non mancano. Infine: la diseguaglianza economica e sociale, anche a Sao Tomé, resta opprimente. Il che rappresenta un ostacolo al rafforzamento della democrazia ma anche al rafforzamento della stessa crescita economica africana.

Ma come si esce dai mali?
Ha ragione Gian Paolo Calchi Novati, il grande africanista da poco scomparso che ha scritto la Prefazione al mio libro. Era divorato dal male, ma ha voluto scrivere questo bellissimo testo, che è il suo ultimo testo. Per me è stato un onore, di cui gli sarò per sempre grato. Lui scrive: “L’Africa non ha bisogno di essere salvata da altri ma deve trovare dentro di sé i mezzi e gli itinerari per salvarsi”. Quindi il futuro dell’Africa dipende in primo luogo dagli africani, dai Governi e dalle persone: dal loro impegno per una democrazia “sostanziale” e per uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile. Ma Calchi Novati scrive anche che “la storia dell’Africa è stata dominata prima dal colonialismo e poi dalla faticosa elaborazione di una indipendenza che ha dovuto fare i conti con l’interferenza della grande politica”, la guerra fredda prima, la globalizzazione poi. Quindi molto dipende dal resto del mondo, da un approccio che deve essere di partenariato vero e non di egoismo neocoloniale, di sfruttamento delle risorse africane. Bisogna costruire un equilibrio mondiale che riconosca un ruolo più congruo al Sud globale di cui l’Africa fa parte.

Una decina di anni fa, dopo la crisi economica argentina, il mondo si concentrò per qualche anno sulla situazione sociale, politica ed economica dell’America latina. Poi venne lo sviluppo di Cina e India e tutta l’attenzione si spostò sull’Asia. Oggi si fa un gran parlare dell’Africa, ma spesso sembra rimanere un filtro, come se si trattasse di un mondo a parte, di una terra e non dei suoi abitanti. Verrà davvero il momento dell’Africa?
La mia introduzione al libro si intitola “La ‘nostra’ Africa”. L’Africa è davvero sempre più “nostra”. Le migrazioni, la globalizzazione e la crisi economica, il terrorismo jihadista: tutto spinge a superare i confini, a rendere permeabili le frontiere, a unire Europa e Africa. L’Europa non può più essere altra rispetto all’Africa, e viceversa: i destini sono interconnessi, il rapporto è e sarà sempre più stretto, tra grandi difficoltà e altrettanto grandi opportunità. Troppe sono le cause comuni che ci interpellano. L’Africa è il nostro grande Sud, l’Europa è il grande Nord dell’Africa. L’Africa non è un groviglio di problemi da cui stare lontani, è una grande occasione. E’ una terra giovane, con un’età media di vent’anni, ed è un grande laboratorio di idee. La verità è che l’Africa è un continente con risorse umane di cui abbiamo bisogno. Così come loro hanno bisogno di noi. Le migrazioni saranno sempre più “circolari”: loro continueranno a venire da noi, ma vorranno anche tornare nei loro Paesi; e noi andremo sempre più da loro, perché l’Africa è un continente bellissimo e ricco di cultura, perché è l’unico che ha terre agricole da coltivare (non da accaparrare con il “land grabbing”), perché ha bisogno della nostra intrapresa, nel campo delle energie rinnovabili come in quello delle infrastrutture… Sì, è venuto il momento dell’Africa.

Dal “centro del mondo”, come definisce l’isola africana, che visuale si ha del resto del pianeta? E dell’Italia?
Alla sera, dopo giornate molto impegnative, nell’agriturismo dove vivevo cercavo di capire che cosa stava accadendo nel mondo. Poca corrente, poca connessione… potevo usare il computer solo nella terrazza dove si cenava e non in camera… una sola luce nel buio totale -a parte la luna e le stelle- che attirava tutti gli insetti della foresta: uno spettacolo della natura! Ma dopo un po’ non c’era crema protettiva che servisse, ero sopraffatto dalle punture e dovevo smettere… E mi mettevo a riflettere, finalmente in pace, davanti alla foresta e al mare… In compagnia di Bolò, un cane affettuosissimo, che poi mi accompagnava fino all’ingresso della camera… Le uniche vicende che ho seguito sono state quella greca e quella dell’immigrazione: due tristi storie simbolo del fallimento dell’Unione europea. Ricordo la battaglia di Tsipras contro l’austerity neoliberista, voluta in primis da quella Germania che nella storia non ha mai onorato i suoi debiti. Una battaglia fatta in totale solitudine, nel silenzio assordante della (ex) socialdemocrazia europea. Ricordo i migranti sugli scogli di Ventimiglia e l’annuncio della barriera dell’Ungheria sul confine con la Serbia, i segni della mancanza di corresponsabilità europea e della perdita dei valori di umanità e di solidarietà. Tutto ciò, visto dall’Africa, il luogo da cui partono per l’Europa centinaia di migliaia di profughi politici, economici e ambientali -anche a causa delle politiche neocoloniali di tanti Paesi, compresi quelli europei- non può che portare a dire: l’Europa si sta decomponendo. Comanda la finanza, il mercato è diventato una potenza autonoma, la democrazia è esautorata, la politica è un cumulo di macerie, è pura rappresentazione invece che rappresentanza. Un’associazione, mentre ero a Sao Tomé, mi invitò a dire la mia sull’Europa in un blog. Io intitolai il mio intervento “Perché non mi sento orgoglioso di essere europeo”. Tutto sembra sfibrarsi, fino allo scacco finale. Il tema riguarda tutto l’Occidente, e anche l’Italia, ovviamente. Ora che è arrivato Trump in America il concetto stesso di Occidente è scosso fin dalle fondamenta. Dove sono finiti i valori dell’umanesimo?

Eppure nei suoi scritti c’è sempre, oltre al “pessimismo della ragione”, l’”ottimismo della volontà”…
Certamente, io non mi arrendo mai: perché un lumicino c’è sempre, è lo spirito della solidarietà e del riconoscersi nell’altro, che vive ancora in tanti giovani e in tante donne e uomini semplici, in tutto il mondo. E in Africa più che mai, perché l’umanesimo e il senso di comunità sono il frutto di una saggezza millenaria, che è sopravvissuta al colonialismo. E’ significativo, riflettendoci dopo, che io abbia sentito il bisogno di scrivere contemporaneamente questo libro sull’Africa e “Eppur bisogna ardir”, il libro sulla Resistenza spezzina. Hanno in comune tantissimo: sono entrambi una riflessione sul coraggio morale e sulla vita come cammino non solo individuale ma collettivo, come immedesimarsi nella sofferenza degli altri. C’è sempre un motivo di fondo per cui uno scrive: i miei libri sono un tentativo di trovare, a un certo punto della mia vita, degli ancoraggi ideali in un’epoca di smarrimento, di svuotamento della democrazia e della politica. Nei momenti di crisi bisogna tornare ai principi, ai fondamenti.

Trova più semplice trasmettere valori e conoscenze ai suoi interlocutori di Sao Tomé o avere a che fare con gli italiani, e gli spezzini in particolare?
Direi che non si tratta solo di trasmettere ma anche di imparare, di costruire relazioni basate sul rispetto dell’altro e sulla reciprocità. Questo sempre: da noi come in Africa. A Sao Tomé mi sono sempre posto questa domanda, formulata dal cooperante Bernard J. Lecomte: “Ma loro, queste persone, chi sono? Solo degli esecutori di un progetto pensato e organizzato dall’aiuto straniero? O invece un gruppo che già agisce, si organizza, che possiede una propria cultura e un proprio sistema decisionale?”. Anche per questo il Piano a cui ho lavorato è davvero una “costruzione sociale”, elaborato con il contributo decisivo della partecipazione popolare. Non è il progetto “per” Lembà, ma il progetto “di” Lembà. Certo, ci sono le idee mie e di chi ha collaborato con me. Ma queste idee sono soprattutto il frutto di incontri con i saotomensi, che hanno digerito, accettato, modificato, rifiutato le nostre idee originarie. Ho fatto così tante assemblee che ormai mi salutavano per strada… Complice il mio essere “branco”, naturalmente… Come dice il mio amico Pino Lena, cooperante spezzino: “Il progetto passerà, il cooperante partirà, la storia di quella popolazione continuerà”. Il prendere coscienza che si partecipa temporaneamente all’avventura umana di un gruppo autonomo è il primo passo del rispetto per l’altro che un cooperante deve compiere se vuole individuare il significato reale della cooperazione. Queste relazioni basate sul rispetto dell’altro e sulla reciprocità ho cercato di costruirle in questi anni anche a Spezia e in Liguria, nel mio impegno civico, sociale e culturale, a partire dall’Associazione Culturale Mediterraneo. Ma in Africa c’è più entusiasmo, più dinamismo… Noi siamo una civiltà in crisi demografica, in Africa vedere tutti quei giovani è sconvolgente… E una società più giovane è più creativa, non c’è dubbio. Non a caso gli incontri più stimolanti di Mediterraneo sono quelli che facciamo nelle scuole.

Nel settore della cooperazione internazionale, come in altri ambiti a carattere sociale e solidale, ci sono tantissime persone che operano mosse dalla passione e dal reale interesse per il miglioramento delle condizioni di vita del prossimo. Ma non mancano le mele marce, coloro che trattano il tema come un business. Le è toccato anche aver a che fare con qualche dinamica spiacevole o nel suo caso si è trattato solamente di una esperienza positiva?
No, non ho conosciuto mele marce. Semmai esperienze di cooperazione calate dall’alto, e che per questo hanno lasciato poco o nulla e sono state inefficaci, questo sì. La cooperazione deve soprattutto stimolare la capacità delle persone di autodeterminare la propria vita, di autogovernarsi. La concezione della cooperazione per cui mi sono sempre battuto è quella che mette al centro le persone. E che mette al centro i territori e i sistemi locali, dove le persone vivono e interagiscono. E’ una nuova visione della cooperazione che non si riduce agli aiuti ma punta a rendere le persone autonome, non “assistite”, e a costruire e potenziare le strutture istituzionali, economiche e civili decentrate. Persone e territori al centro, dunque. E poi il “partenariato tra comunità”: cioè la produzione di una rete di relazioni e di scambi che faccia crescere il territorio “nostro” e “loro”. In questo partenariato hanno un ruolo chiave le imprese. Io mi sono sempre battuto per fare interagire cooperazione internazionale e internazionalizzazione delle nostre imprese. E’ qui che vedo il rischio che prevalga solo il business. Lo vedo nei chiaroscuri di una presenza degli investimenti esteri che è motivo sia di crescita dell’Africa sia del suo opposto: perché i cinesi, per esempio, spesso si portano da casa i loro operai, oppure non pagano le tasse, o devastano l’ambiente. C’è un altro modo di fare impresa in Africa? Sì, ed è quello che potrebbe caratterizzare le imprese italiane: il partenariato, cioè la partnership tra imprese nostre e loro, la possibilità per le nostre imprese di fare business ma anche di trasferire know how, tecnologie, esperienze di gestione e formazione del tessuto imprenditoriale alle imprese africane, e di imparare a loro volta. In un’ottica di responsabilità sociale e ambientale. Nell’interesse “nostro” e “loro. Il Piano di Lembà propone progetti che necessitano proprio di imprese di questo tipo. Nei prossimi giorni lo presenterò a Genova in un seminario rivolto agli imprenditori liguri. Spero molto in una risposta positiva.

Ritornerà a Sao Tomé per proseguire nella realizzazione di progetti o si tratta di un capitolo chiuso? Nel caso quale sarà la prossima meta, il prossimo impegno?
In questi anni sono stato un lavoratore “a progetto”, quindi precario. Ho lavorato ai Piani strategici partecipati di molte città e aree vaste italiane. Ma oggi non è più possibile: gli amministratori locali vivono nell’eterno presente, vittime di un pragmatismo senza meta. Non sono più interessati al futuro. Nel Sud del mondo è diverso. Dopo l’esperienza a Sao Tomè mi piacerebbe proseguire nell’impegno africano, e magari tornare un giorno nella mia amata Palestina… Ma dipenderà dai progetti che saranno approvati e finanziati… Ora sto lavorando a progetti di attuazione del Piano di Lembà ma anche a progetti in Etiopia. La “cifra” del Piano di Lembà è lo sviluppo turistico sostenibile, rispettoso dell’ambiente e dell’identità dei luoghi. Proprio per questo una Ong mi ha cercato per un progetto di segno analogo in Etiopia, la terra dei siti archeologici in cui è nato l’uomo… E’ un Paese che mi attrae molto, anche perché, dopo tutte le atrocità commesse dal colonialismo italiano, impegnarsi nel Corno d’Africa mi sembra una sorta di dovere…

Nel suo libro, come nelle sue rubriche, ai testi di carattere socio-politico affianca stupende fotografie paesaggistiche e documentali. La passione per la fotografia è sbocciata negli ultimi anni o la macchina fotografica è sempre stata compagna di vita?
Quarant’anni fa, da ragazzo, cominciai a frequentare un corso di fotografia del grande Sergio Fregoso. Se ho un rimpianto nella vita, è di averlo abbandonato, tutto preso dagli impegni della politica. Lui ci parlava non di tecniche ma di linguaggi. Come ha fatto poi il suo allievo Enrico Amici, i cui corsi ho frequentato quando ho smesso di fare il Sindaco. Di tecniche non so nulla, ho forse un mio linguaggio. Nel libro il diario scritto e il diario fotografico sono intrecciati tra loro. Più in generale, in ogni conferenza per cui mi chiamano ora cerco sempre di unire le parole alla proiezione di immagini. Un altro grande fotografo, Tano D’Amico, ha scritto: “Le parole servono a definire, a racchiudere, a concludere quella parte del nostro animo che si è messa in moto… Le immagini sono punto di partenza per pensieri, ricordi, aspirazioni”. E’ così: le fotografie mi aiutano a pensare e a cambiare, perché, come dice D’Amico, “le immagini spingono a un ruolo attivo”.

Nel totonomi per i candidati sindaci delle varie alleanze o forze politiche negli ultimi giorni circola anche il suo, come candidato della nascente piattaforma di sinistra. E’ un’ipotesi che prende in considerazione?
Proposte dai partiti non me ne sono venute. E’ vero, però, che molti cittadini me lo chiedono, elettori di sinistra, del Pd, grillini, ma anche di destra, o che non votano più. L’esperienza da Sindaco, e prima da assessore con Rosaia, è stata bellissima. Ho dedicato tutto me stesso a Spezia per 15 anni, il cuore della mia vita. Ma le stagioni appassionanti della vita sono anche irripetibili. Da 10 anni sono tornato a fare le cose che avrei voluto fare in gioventù. Avrei voluto insegnare o fare il giornalista, e certamente impegnarmi in politica, ma da attivista: non pensavo a quel ruolo da protagonista che poi ho avuto. Ora vado nelle scuole, scrivo, fotografo, faccio l’attivista in tante associazioni e movimenti… Con il massimo di generosità possibile, perché non mi fermo mai, come quando facevo l’assessore e il Sindaco. E’ il mio modo, oggi, di fare politica. E credo abbia una sia pur piccola utilità. Ormai la mia vita è radicalmente cambiata, è questa. Qualcosa in più vorrei fare, questo sì: mettere la mia esperienza al servizio di una nuova generazione politica e dare una mano a un gruppo di giovani in gamba e puliti. Anche se tornerò in Africa, per la mia città ci sarò sempre…

Lei ha proposto di dar vita a una lista civica. Ma ci sono le condizioni?
E’ vero, da tempo sostengo che c’è bisogno di una grande lista civica, sociale, popolare, aperta a tutti, sulla base di un programma di grande cambiamento, che affronti la crisi di Spezia, che non è solo economica, è anche democratica. Una lista con dentro le migliori passioni e competenze della città, comprese quelle che sono dentro i partiti: ma senza alleanze tra partiti, e senza simboli dei partiti. E’ difficile? Certamente sì. Ma quali sono le alternative? Candidati scelti dai vertici dei partiti, cioè da soggetti separati dalla società, con una credibilità crollata… Non credo che ne venga del bene alla città. Meglio partire dal basso, dalla base, mettendo in relazione tutto ciò che è vivo e vitale nella società spezzina, in primis i luoghi del disagio sociale. Solo così potranno nascere nuove idee e un candidato credibile. Spero che il M5S si ponga il problema dei “buoni accordi”: sarebbe un segno di forza, non di debolezza. Senza una grande lista civica resterà sulla scena, sempre più debole, il mediocre establishment trasversale che conosciamo. Che è interessato solo a durare e non esprime più un’idea di futuro.

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