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Il Battaglione Vanni, una storia ancora da raccontare

a cura di in data 21 Marzo 2015 – 09:53
La Spezia, Area Mardichi, sede, dopo la Repubblica fascista di Salò, della Guardia Nazionale Repubblicana   (2012)    (foto Giorgio Pagano)

La Spezia, Area Mardichi,
sede, dopo la Repubblica fascista di Salò,
della Guardia Nazionale Repubblicana
(2012) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 15 marzo 2015 – Ad Astorre Tanca la città ha dedicato il campo di calcio di via Lunigiana perché da ragazzo giocò nelle giovanili sia dello Spezia che della Sarzanese. L’ho ricordato ai giovanissimi calciatori del Canaletto e a tutti i presenti nei giorni scorsi, in occasione del settantesimo della morte di Astorre. Tanca era un militare, lo fu fino al febbraio del ’44. Approfittò di una licenza per non ripresentarsi e iniziare l’attività con i partigiani, prima con le Sap (Squadre di azione patriottica) in città, poi ai monti con il Battaglione “Vanni” della Brigata garibaldina “Gramsci”. Si distinse in azioni valorose e, nel gennaio ’45, divenne il comandante del “Vanni”. Ma prima visse momenti non facili con i suoi compagni. Leggiamo la testimonianza di Franco Mocchi “Paolo” in “Migliarina ricorda”: “Cominciarono alcuni dissapori tra noi e le gerarchie: Tanca, capo carismatico e ricco di doti militari, era per l’azione, mentre secondo noi il comandante ‘Sceriffo’ e il commissario Albertini si erano troppo ‘seduti’. Successe un fatto: nel dicembre ’44 venimmo a Piano d’Arcola, a Fornola, per attaccare delle brigate nere che dovevano passare di là. Rimanemmo in agguato tutta la notte, poi Tanca commise un’imprudenza…” I tedeschi lo ferirono, ma i partigiani riuscirono a fuggire. “Dopo questo episodio -prosegue Mocchi- fummo convocati al comando, a Pieve di Zignago, e appena arrivati fummo arrestati da Albertini, ‘Sceriffo’ e Secchi con l’accusa di indisciplina e tendenza al separatismo. Venne allestito il processo vicino alla chiesa, all’antivigilia di Natale ’44; particolarmente eravamo attaccati io e Tanca, che venne degradato. Fu un momento pericoloso: potevamo essere messi al muro in men che non si dica. Ci difendemmo come leoni; accusammo il comando di immobilismo, di essersi staccati dallo spirito e dalla vita partigiana, anche in dettagli, come non mangiare più insieme agli uomini; mentre loro si burocratizzavano, noi avevamo intraprese azioni necessarie per tenere in vita la Resistenza. La nostra parlantina funzionò: il processo si concluse con un nulla di fatto… Dopo 15 giorni in un’assemblea generale a Pieve, Tanca fu nominato comandante del battaglione e io commissario politico”.

Appena diventato comandante, Tanca si impegnò valorosamente nel grande rastrellamento del Gottero, dove subì il congelamento per la lunga marcia a temperature rigidissime. Ma rifiutò cura e ricovero per riorganizzare il suo battaglione. Il 4 marzo ‘45 Tanca si trovava a Imara superiore, sopra Zignago. Una staffetta lo avvertì che un gruppo di tedeschi, guidati da spie, stava avvicinandosi a Pieve di Zignago. Lui trasferì il comando a Pieve e affrontò lo scontro sparando al nemico per coprire i suoi compagni, che si salvarono. Con lui morirono Battista Marini e Merio Scopsi “Stevens”. Come ha ricordato in questa rubrica Carlo Bertolani, che era con lui, Tanca morì perché era impossibilitato a muoversi con rapidità (“L’epopea del Gottero”, 25 gennaio 2015). Mocchi scrive che quel giorno era il compleanno di Scopsi e che la madre venne a trovarlo: “lo riportammo morto alla madre che lo attendeva in casa di amici”.

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Ho ricordato un altro partigiano del “Vanni”, Luigi Zebra “Il Rosso”, qualche giorno dopo a Monterosso. Fu fucilato nel borgo rivierasco il 5 marzo ’45, insieme a Giuseppe Da Pozzo, partigiano della IV Compagnia della Colonna “Giustizia e Libertà” (ho raccontato il suo sacrificio in questa rubrica: “Siamo i ribelli della montagna”, 8 febbraio 2015). Zebra era del Limone, raggiunse il “Vanni” nel giugno del ’44 ad Adelano di Zeri, insieme a un gruppo di ragazzi della sua zona, tra cui Giovanni Uras, che divenne “Il Mosca”. I due vissero tutte le vicende del Battaglione, a partire da quella, tragica, del rastrellamento dell’agosto ’44. Giovanni è un formidabile costruttore di memoria, era in piazza anche a Monterosso. Leggiamo il suo racconto inedito, raccolto da Aldo Mazzola: “Verso la fine di febbraio decidemmo di fare una visita a casa ai nostri familiari. La sera del 26 arrivammo al Limone: ognuno andò dalle proprie famiglie con la promessa che alle 23 ci saremmo ritrovati all’ingresso del ponte che porta nella zona del Carpanedo: era un luogo che conoscevo molto bene e adatto per passare la notte in sicurezza… Una mattina all’alba sentimmo delle voci che si avvicinavano sempre più”. Erano ragazzi che erano ai monti con loro, che avevano tradito. Furono presi come topi in trappola, picchiati e consegnati ai fascisti, e torturati anche dal famigerato Aurelio Gallo. “Rimasi una settimana nella caserma della Scorza, una mattina mi prelevarono assieme a Zebra e ci trasferirono al XXI° in una piccola cella, dove trovammo una persona malconcia; barba lunga, lividi sul viso e su tutto il corpo, al momento credemmo che era stato messo lì per ascoltare le nostre conversazioni… noi non si parlava, e lui non disse una parola, né prima né dopo il processo”. Quell’uomo era Giuseppe Da Pozzo. “Ci prelevarono uno alla volta scortati da sei brigate nere; il primo fu Zebra, al suo ritorno mi disse che il giudice aveva chiesto la sua condanna a morte. Venne il mio turno, il giudice chiese anche per me la condanna a morte, ma durante il dibattito intervenne un avvocato della milizia che propose la clemenza alla corte per i miei diciassette anni. Non seppi nulla, se la domanda di grazia era stata accolta o no. Mi riportarono in cella e prelevarono Da Pozzo, ritornò anche lui dopo circa una mezzora senza dire una parola; nessuno di noi disse più una parola, mai come in quel momento i pensieri vorticavano nella testa, non era la paura di morire, no! Assolutamente! Era l’ultima cosa a cui pensare, rivedevo i nostri compagni sul monte Malone mentre si correva a prendere i bidoni del lancio; mentre ci accampavamo nelle capanne dei carbonai; e quando riuscivamo a evitare i rastrellamenti. E infine i miei genitori che non vedevo da molto tempo; se la morte dovesse venire, che sia una liberazione come quell’ideale al quale mi sono ispirato combattendo per la mia terra”. Poi i tre furono riportati nel salone del tribunale. “Per un istante regnò il silenzio totale, una voce urlò ‘Entra la corte!’. Presero posto sugli scranni e dopo pochi istanti lesse le condanne: ‘Uras Giovanni, Zebra Luigi, Da Pozzo Giuseppe, condannati a morte mediante fucilazione alla schiena, la sentenza sarà eseguita nella giornata odierna’. Letta la sentenza ci riportarono in cella… Nel primo pomeriggio ci prelevarono tutti e ci legarono le mani dietro la schiena con delle corde, ci portarono nel piazzale e ci fecero salire su di un motocarro, mentre si avviava verso il corpo di guardia arrivò un sergente correndo con in mano un foglio e andò a parlare con il capo guardia; pochi attimi dopo mi fecero scendere per firmare il foglio: era la mia domanda di grazia! Mentre il motocarro partiva Zebra mi disse ‘porta un bacio a mia madre’; Da Pozzo mi fece un cenno con la testa mormorando qualcosa che non riuscii a capire: momenti di grande emozione, vedevo i miei amici andare verso la morte mentre io rimanevo impietrito a osservarli senza poter far nulla per loro”. “Il Mosca” si salvò grazie all’intercessione di un amico del padre, un grossista di formaggi da cui si servivano anche i tedeschi. La pena di morte fu commutata in trent’anni di carcere, ma per fortuna la detenzione durò poco, fino alla vittoria di aprile.

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La Spezia, Area Mardichi, sede, dopo la Repubblica fascista di Salò, della Guardia Nazionale Repubblicana   (2012)    (foto Giorgio Pagano)

La Spezia, Area Mardichi,
sede, dopo la Repubblica fascista di Salò,
della Guardia Nazionale Repubblicana
(2012) (foto Giorgio Pagano)

Le figure di Astorre Tanca, di Luigi Zebra e di Giovanni Uras ci riportano alla questione della storia mai scritta del “Vanni” (si veda, in questa rubrica, “Migliarina ricorda”, 23 novembre 2014). Forse perché, nel dopoguerra, non rimasero in vita, di questo battaglione, personalità politiche di primo piano, dedite anche alla ricostruzione della memoria della propria brigata. Forse perché, all’inizio, la fama del “Vanni” non fu buona. Non c’è dubbio che all’inizio il Pci ebbe difficoltà a formare brigate garibaldine: le sue forze, fino al grande sciopero del marzo ’44, furono impegnate principalmente nelle fabbriche. Nell’estate ci fu l’esplosione delle bande, e a volte i bravi comandanti difettavano. Il primo comandante del “Vanni”, gruppo nato nel giugno ’44, fu Primo Battistini “Tullio”. Fu ai monti fin dall’ottobre ’43, subentrò nel marzo ’44 al comandante Betti, morto alla testa dell’omonima banda nell’attacco di Valmozzola (si veda “il coraggio della libertà e la buona politica”, in “il Secolo XIX”, 11 aprile 2010, ora in www.associazioneculturalemediterraneo.com), ma dopo qualche tempo venne messo in minoranza nel raggruppamento partigiano, a causa dei suoi metodi di conduzione. Paolino Ranieri diceva di lui: “Era uno che non poteva comandare!”. E infatti “Tullio” fu sostituito al comando della banda Betti da Flavio Bertone “Walter”. A quel punto Battistini si spostò nello zerasco, dando vita al nuovo raggruppamento “Signanini” e poi, da fine luglio ’44, alla Brigata d’assalto “Vanni”, di cui fu comandante (commissario era Giovanni Albertini “Luciano”). Nel corso dell’estate la “Vanni” attuò una serie di azioni, tra cui “la beffa di Ceparana” (si veda “Migliarina ricorda”), ma venne travolta nel rastrellamento del 3 agosto ’44: solo il distaccamento comandato da Duilio Lanaro “Sceriffo” si oppose con efficacia, “Tullio” fu assente ingiustificato… Questa pagina non gloriosa macchiò la “Vanni” e non le diede buona fama. “Tullio” fu destituito, e da allora non ebbe più a che fare con la “Vanni”. Personaggio contraddittorio, andrebbe probabilmente riabilitato perché come partigiano diede spesso un contributo di valore; anche sulla vicenda di “Facio”, nelle sue memorie, prende le distanze dalla versione “ufficiale”, che gli addebita pesanti responsabilità. Ma una riabilitazione totale della figura di “Tullio” non appare possibile, perché molti furono i suoi errori. Dopo l’agosto nacque il Battaglione, comandato da “Sceriffo” e poi da Tanca, con commissario Franco Mocchi, e, alla morte di Tanca, da Eugenio Lenzi “Primula rossa”. Il “Vanni” si distinse in numerose azioni, affrontò in modo più organizzato il rastrellamento dell’8 ottobre ’44 e soprattutto quello di gennaio ’45, diede martiri come Tanca e come Nino Ricciardi e Marcello Toracca, morti mentre facevano saltare il ponte del Graveglia l’8 aprile ’45, contribuì in modo decisivo all’ultimo duro scontro con i nazifascisti a San Benedetto il 24 aprile. Ricorda Mocchi: “A sera, dopo una serie di combattimenti corpo a corpo, una parte di tedeschi si arrese. I primi ad arrivare in città fummo noi: dalla Foce entrammo alla Spezia”. Ci fu, dopo l’agosto ’44, una nuova storia del “Vanni”, che gli meritò nuova fama. E che oggi merita di essere finalmente raccontata.

lucidellacitta2011@gmail.com

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