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L’ Italia dell’integrazione può nascere solo a scuola

a cura di in data 25 Giugno 2009 – 10:56

Il  Secolo  XIX    25  giugno  2009 – A metà del 2009, vivono in Italia 900.000 stranieri con meno di 18 anni, 600.000 in più rispetto alla metà del 2001. Negli ultimi tre anni, i minorenni stranieri sono aumentati di 100.000 l’anno. Il fenomeno crescerà ancora: non solo perché si svilupperà la pressione demografica da parte dei Paesi africani e asiatici ma anche perché, secondo stime dell’ONU, se nei prossimi cinquant’anni volessimo mantenere stabile la nostra forza lavoro, dovremmo aprire le porte a oltre 350.000 immigrati l’anno, per un totale di oltre 19 milioni.
Si pone, quindi, un enorme problema di governo di questo processo. Quale modello di convivenza vogliamo tra stranieri e italiani? E, intanto, quale convivenza si sta realizzando?
Gli studi individuano tre possibili tipologie: assimilazione, inserzione, integrazione interculturale. Nella modalità dell’assimilazione il nuovo arrivato è sollecitato a comportarsi in tutto come i cittadini della società ospitante. E’ un rapporto di esclusione dell’altro perché postula un incontro che nega la differenza. L’inserzione risponde al desiderio di vivere gli uni accanto agli altri conservando le rispettive differenze. Implica che le persone provenienti dai diversi Paesi mantengano forti tratti distintivi e siano concentrate dal punto di vista territoriale: il rapporto con l’altro è vissuto nell’indifferenza. L’idea alla base dell’integrazione interculturale, invece, è che i nuovi e i vecchi cittadini diano vita a soggetti sociali differenti ma in rapporto di riconoscimento e arricchimento reciproco: il rapporto con l’altro è basato sulla reciprocità. Una piena realizzazione dell’intercultura dovrebbe vedere gli stranieri far propri i tratti essenziali della società italiana, ma senza rinunciare a quelle specificità culturali non in radicale contrasto con i nostri costumi. Gli italiani, d’altro canto, dovrebbero a loro volta  riconoscere queste specificità dei nuovi cittadini. E’ un cammino lungo e difficile, ma preferibile ad altri: anche perché la prima tipologia sembra difficilmente praticabile, mentre la seconda non è frequente in Italia, dato che da noi non ci sono le enclave etniche e le “società parallele” come in Francia o Germania.
In questo contesto la questione della socializzazione dei figli degli immigrati è decisiva: è qui che si misura la riuscita del grande obbiettivo dell’intercultura. Ecco perché è importante il libro “Nuovi Italiani”, dei demografi Gianpiero Della Zanna, Patrizia Farina e Salvatore Strozza.: si tratta della prima inchiesta di respiro nazionale, condotta tra 10.000 figli di immigrati tra gli 11 e i 14 anni, messi al confronto con 10.000 coetanei italiani.
Che cosa ci dice la ricerca? I giovani stranieri socializzati in Italia sono molto simili ai  coetanei  italiani, specialmente a quelli appartenenti a classi sociali  basse o medio-basse. Ciò vale per le dimensioni esteriori, come i rapporti di amicizia, l’uso del tempo libero, le scelte scolastiche, ma anche per gli aspetti valoriali intimi: la religiosità, l’atteggiamento di fronte alla vita, i sogni per il futuro, il numero dei figli desiderato, il lavoro e il ruolo di genere. Non è vero, per esempio, che i giovani stranieri  vogliono una famiglia numerosa o ruoli femminili tradizionali. Non sono arresi né rassegnati, ma volonterosi e determinati, con forti aspirazioni alla mobilità sociale. Soprattutto le ragazze: sono meno fataliste e più “attive” rispetto ai ragazzi, al contrario di quanto si osserva tra gli italiani. E sono meno tradizionaliste delle nostre, si discostano dal loro vissuto familiare e non si adagiano sugli stereotipi di una femminilità subalterna. Si sognano, più delle italiane, come “donne indipendenti” e non come “angeli del focolare”.
I risultati di questo studio concordano con quelli di analisi precedenti, riguardanti campioni più parziali: da quella di Marzio Barbagli e Camille Schmoll sulla religiosità dei ragazzi  stranieri delle scuole medie emiliane, che diminuisce, rispetto ai loro padri, con il passare degli anni, a quella della Fondazione Agnelli sugli studenti torinesi, che ci spiegava che “il 60% dei ragazzi immigrati socializzati in Italia si sente italiano”. La conoscenza di questi dati dovrebbe servirci a superare la diffidenza verso l’immigrazione, che è alimentata dal timore che troppi immigrati frenino la modernizzazione culturale ed economica del Paese e “snaturino” la nostra società. Non è così: da noi è venuta la “meglio gioventù” di quei Paesi, le persone più aperte al nuovo e mosse dall’ansia di farsi strada nella vita. Con l’eccezione dei cinesi, sono simili ai nostri coetanei: certamente la nostra società ne viene modificata, ma più forte ancora è il cambiamento provocato negli stranieri dall’impatto con noi.
Ma se i ragazzi stranieri resteranno relegati in ruoli subalterni, come gran parte dei loro genitori, l’intercultura resterà una parola vuota. Se i giovani stranieri non saranno messi in condizione di giocarsela “alla pari” con i loro coetanei italiani, il rischio è la loro integrazione nelle parti oscure della società, nei circoli viziosi della marginalità e della criminalità, come è avvenuto in Germania, Francia, Svizzera, Olanda, Belgio. Ma, come insegnano i Paesi scandinavi, le cose possono andare diversamente: servono politiche di inclusione, per colmare le disuguaglianze.
E’ la scuola, allora, il luogo in cui si gioca il futuro dei “nuovi italiani”. L’inchiesta evidenzia una forte diversità nel percorso scolastico di italiani e stranieri, segnati questi ultimi da tassi di promozione più bassi e da gravi ritardi. Gli stranieri smettono di andare a scuola  prima degli italiani: fino ai 13 anni le differenze sono abbastanza contenute, poi la forbice si apre progressivamente. La scuola superiore rimane largamente inaccessibile, e anche i più capaci tendono a scegliere la formazione tecnico-professionale e cicli brevi, disertando i licei.
La conclusione degli autori è che la scuola, pur svolgendo un lavoro prezioso di socializzazione e di integrazione, perpetui da una generazione all’altra le differenze sociali. Le nuove disuguaglianze, secondo il luogo di provenienza dei genitori, si sovrappongono a quelle vecchie, secondo il livello culturale della famiglia. Il rischio è di perdere molte delle opportunità offerte dall’immigrazione e di dover affrontare situazioni di disagio sociale. La scuola e l’intera società dovrebbero favorire “gli studenti capaci e meritevoli” e “non i figli delle persone più istruite e nate in Italia” e “dare  di più a chi parte più indietro, indipendentemente dalla sua cittadinanza”. Insomma, conviene tornare alla Costituzione e alla “Lettera  alla professoressa” dei ragazzi di Barbiana.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).

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