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“Vite che non possiamo permetterci” di Zygmunt Bauman

a cura di in data 1 Gennaio 2012 – 17:56

Zygmunt Bauman, “Vite che non possiamo permetterci”

“L’odierna crisi del credito non è il risultato del fallimento delle banche. Al contrario è il frutto – assolutamente prevedibile anche se in gran parte imprevisto – del loro straordinario successo. Successo nel trasformare una grande maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani in una razza di debitori. Le banche hanno ottenuto quello che volevano: una razza di eterni debitori che vive in una condizione di indebitamento che si autoperpetua e che solo chiedendo altri prestiti può realisticamente (ma temporaneamente) ottenere una sospensione della pena”

Invitare Zygmunt Bauman a un qualunque convegno che tratti delle forme contemporanee assunte dalla società dei consumi dev’essere come mettersi in casa un ospite che non cessi di ricordarti che la minestra che gli hai appena servita nel piatto manca di sale, ed è fredda. Con impeccabile cortesia, però, e spiegandoti esattamente perché la minestra si è raffreddata, e come non valga certamente la pena tentare di riscaldarla.
In questo libro, frutto delle conversazioni avute con Citlali Rovirosa-Madrazo, lo spirito indomito del sociologo polacco zampilla ad ogni occasione, come una fontana che peschi da una vena profonda e inesauribile, e Bauman non perde occasione per mostrare quanto anche le formule usate per criticare la deriva ultraliberista adottata dagli Stati negli ultimi decenni siano in realtà slogan bolliti e inefficaci. Parole vuote, superate da una realtà talmente vistosa da risultare invisibile ai più.
“Fallimento delle banche”? Ma per piacere! … qualcuno riesce a immaginare un successo più clamoroso di quello conseguito da un’istituzione che fa di tutto per tenere sotto lo scacco del debito milioni di famiglie dalle quali non vuole assolutamente siano resi i soldi prestati?
Già, perché l’unico modo ad oggi conosciuto per estinguere un debito è quello di rendere i soldi che si sono avuti in prestito, giusto?
E a chi chiederemo altri soldi, per poterci indebitare ancor di più nel tentativo di ripianare il primo debito, se non alle banche?
Ecco, il sistema ha funzionato così bene che neppure i suoi ingegneri, teorici del capitalismo, speculatori e banchieri, si aspettavano un simile risultato… e i tentennamenti che al crac hanno fatto seguito, sono semplicemente l’equivalente dello smarrimento momentaneo che mostrano i divi del cinema quando vengono chiamati a salire sul palco dell’Hollywood Bowl perché hanno appena vinto l’Oscar.
“Io? Davvero? Dite a me? Wow!”.
È tutto qua, davvero, e lo Stato che continua a iniettare liquidi nelle casse delle banche non può – semplicemente non può – mettersi di traverso e contestare davvero la validità di un modello che ha propugnato di concerto con l’altro grande attore delle democrazie moderne, il mercato.
Il mercato e lo stato sono un po’ come Gianni e Pinotto, nella visione Baumaniana. Possono anche scaramucciare, rimbrottarsi a vicenda (nello psicodramma lo Stato recita sempre, com’è ovvio, la parte del padre severo ma in fondo comprensivo, quando non orgoglioso – sotto sotto – delle marachelle combinate dal figlio), ma poi, alla fine, si abbracciano e tornano amici come prima.
Ne sia un esempio la fine che ha fatto il welfare state, a seguito dello spostamento dell’asse da una società industriale a una società dei consumi.
Quando la materia prima per il mantenimento e l’autoperpetuazione del capitale non è più il lavoro, ma diventa il consumo, che senso ha occuparsi della salute di lavoratori che si ostinano a non voler consumare quanto potrebbero?
Non sembri irriverente il tono scanzonato con cui si parla di cose tanto importanti, perché fra le cifre più autentiche della dialettica di Bauman c’è proprio un’ironia tagliente, affilatissima, che ha il pregio di portare coi piedi per terra un dibattito cruciale, troppo importante perché rimanga materia di speculazione solo per analisti e studiosi.
Con la stessa, splendida e disillusa verve, il sociologo affronta anche altri argomenti che a quello della crisi finanziaria sono intimamente connessi: lo stato delle democrazie, il welfare state, le biotecnologie e il loro impatto sugli equilibri di povertà e ricchezza; e ancora: i fondamentalismi e la modernità – sempre con ampi riferimenti alla società liquida di cui Bauman è il massimo teorico – per arrivare poi nel capitolo finale a fare considerazioni tutt’altro che scontate sull’amore e il potere creativo che un simile “atto d’abbandono” comporta anche a livello sociale, a dispetto della brama di controllo che sembra informare e pervadere ogni ambito della nostra vita di cittadini del ventunesimo secolo.

Fonte: http://www.wuz.it/recensione-libro/5781/zygmunt-bauman-vite-che-non-possiamo-permetterci-che-tempo.html

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