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Presentazione di “Come pesci nell’acqua” di Chiara Dogliotti, La Spezia, 4 marzo 2023 – Intervento di Giorgio Pagano

a cura di in data 18 Luglio 2023 – 23:48

Presentazione di “Come pesci nell’acqua” di Chiara Dogliotti
4 marzo 2023 alla Spezia
Intervento di Giorgio Pagano

Il libro di Chiara Dogliotti è molto interessante e stimolante.
Il tema di fondo che affronta è il rapporto tra le formazioni armate e la cosiddetta sinistra rivoluzionaria (o extraparlamentare), oggetto di una divisione manichea tra chi sostiene che sia di assoluta estraneità e chi invece di totale continuità: un continuum in cui è possibile solo distinguere gradi di coinvolgimento.
Nel libro è studiata la complessità/contraddittorietà di questo rapporto attraverso l’analisi di due casi di studio: la colonna delle Brigate Rosse veneta e quella genovese.
In Veneto le BR hanno un rapporto con Potere Operaio e la galassia dell’Autonomia. Si caratterizzano per scarsa efficienza militare e vitalità teorica. L’Autonomia problematizza e complica la vita della colonna brigatista.
Genova si caratterizza, invece, per l’assenza di una forte componente della cosiddetta sinistra rivoluzionaria. A Genova si anticipa una tendenza. La prima formazione di estrema sinistra a praticare in Italia la lotta armata nasce infatti nel 1969 nella periferia genovese: è un gruppo senza nome, chiamato 22 ottobre dagli inquirenti facendo riferimento alla presunta data di nascita, che appare improvvisato ma è in realtà anticipatorio della successiva lotta armata. Sia il rapimento del magistrato Mario Sossi sia il primo omicidio pianificato delle BR – l’uccisione del magistrato Francesco Coco e della sua scorta – avranno come teatro Genova e saranno legate alla vicenda della 22 ottobre. Le BR genovesi, a differenza di quelle venete, si caratterizzano per efficienza militare e scarsa ideologia, fedeli in tal modo alla linea di Mario Moretti e del Comitato esecutivo.
Le due colonne hanno una base comune ma sono per certi versi antitetiche. Si pensi a due intellettuali come il veneto Toni Negri e il genovese Gianfranco Faina: il primo ha un ruolo molto importante, il secondo del tutto minoritario. A Genova prevalgono la dimensione militare, il gesto, la pratica. Non c’è la teoria.
Sia i miei studi sugli anni Sessanta e Settanta – pubblicati in “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” – che la mia esperienza politica – in particolare quella di responsabile della commissione Problemi dello Stato della Federazione spezzina del PCI, e di membro di quella ligure, a partire dal primo gennaio 1979 – mi portano a una sintonia con le tesi di Chiara.
Il rapporto tra le formazioni armate e la cosiddetta sinistra rivoluzionaria fu davvero complesso e contraddittorio.
Il “Sessantotto degli inizi” è nonviolento fino a Valle Giulia (marzo 1968), diciamo fino al Maggio francese. La sconfitta del Maggio spinge alla tesi della necessità del partito rivoluzionario. I diversi gruppi si dividono tra loro nel tentativo di costruirlo e nella ricerca di un supporto dottrinario a ciò, tra i tanti offerti dalla storia del marxismo e del comunismo: Straordinarie energie giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina, scrisse Vittorio Foa.
L’uso dello strumento tradizionale del partito segna la fine della sinistra “nuova”. Concordo anch’io con Chiara, e con Marica Tolomelli: il termine “nuova sinistra” si può applicare solo al “Sessantotto degli inizi” e non ai gruppi della cosiddetta sinistra rivoluzionaria.
Riprendo l’analisi di Anna Bravo:
Ai loro esordi, praticamente tutti i movimenti degli anni Sessanta e Settanta adottano pratiche pacifiche sit-in, manifestazioni all’insegna del gioco e della provocazione verbale, happening, resistenza passiva. […] In tempi relativamente brevi, la violenza ha guadagnato una legittimazione anche tra quelli che non la praticano. Mentre nei primi anni Sessanta era l’eccezione, ora l’eccezione è la nonviolenza.
La tesi del Sessantotto come movimento di massa pacifico e nonviolento fino al più tardo momento della “perdita dell’innocenza” è però, per alcuni aspetti, discutibile. Certamente all’inizio si è ancora lontani dall’idea di attrezzarsi per l’uso della forza. Ma, secondo la stessa Bravo, non si può parlare di un’età dell’oro, tradita da un’involuzione successiva:
I riferimenti teorici prevedevano la violenza, i simboli più amati erano uomini e popoli in guerra.
Chiara cita l’intervista di Adriano Sofri al “Corriere della sera” del 2 aprile 2004:
La verità è che l’innocenza come condizione originaria è difficile da trovare.
Si può dire che per tutta una fase pacifismo e violenza convivono, e che ci si illude che l’illegalità possa essere soltanto simbolica. Poi, progressivamente, la violenza sostituisce il pacifismo. A Woodstock la violenza non c’è. Nel 1971 Pino Masi, il “cantautore di Lotta Continua”, scrive la canzone “L’ora del fucile”, trasformando la canzone pacifista “Eve of destruction” di Barry Mc Guire (1965) in un appello alla rivolta armata:
E quindi, cosa vuoi di più, compagno, per capire che è suonata l’ora del fucile?
È una violenza spesso più urlata che praticata. E, quanto al praticarla, i gradi sono molto diversi tra loro.
La strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) è un fattore micidiale di precipitazione e di accelerazione verso la violenza: incomincia a essere praticato un uso “difensivo” della violenza organizzato attraverso i “servizi d’ordine”, anticamera delle formazioni terroristiche. In molti casi si consuma il passaggio: dalla repressione e dalla violenza dello Stato all’illegalità per difendere la libertà. È la “violenza difensiva”, non teorizzata come valore in sé. Ma in questo passaggio la democrazia perde valore, viene sempre più letta come “apparenza” di uno Stato autoritario. Avanza cosi la tesi della “fascistizzazione dello Stato”, una lettura dello Stato totalmente appiattita sul suo apparato di forza (Giovanni De Luna)) e fondata su una totale sottovalutazione della democrazia, che comporta un altro passaggio: dalla “violenza difensiva” a quella “offensiva”.
E comunque, a conferma della complessità del tema, il legame Sessantotto-sinistra rivoluzionaria-lotta armata, pur presente nei miti, negli slogan e nei contenuti, è però negato dai fatti reali. Scrivono Marcello Flores e Giovanni Gozzini:
la grande maggioranza delle persone che nel Sessantotto condividono l’idea di un cambiamento radicale non la traduce nella scelta della lotta armata.
C’è, quindi, un legame, e a un certo punto, per una minoranza, c’è un salto.
Il legame, la mescolanza, in Veneto emergono chiaramente. Paradossalmente, la sinistra rivoluzionaria più estremista, pur predicando a voce e praticando a piene mani la violenza, contribuisce ad arginare l’adesione di massa alla lotta armata vera e propria da parte di migliaia di giovani. Poi questi gruppi implodono, e una parte dei militanti diventa terrorista.
A Genova, invece, c’è più una dimensione militare. Ideologicamente c’è il richiamo alla Resistenza tradita. Il filone è quello Pietro Secchia-Giangiacomo Feltrinelli, anche se questo era legato a una “violenza difensiva” contro una svolta autoritaria fascista vissuta come inevitabile (a volte la “violenza difensiva” non fu più moderata).
Nella classe operaia genovese ci furono le zone grige, settori equidistanti. Quando assunsi la responsabilità di partito che ho ricordato, la commissione Problemi dello Stato del PCI ligure aveva appena redatto il documento intitolato “Terrorismo e nuovo estremismo”: sono due fenomeni diversi – sosteneva – ma non c’è sempre la contrapposizione auspicabile. Nel partito c’era preoccupazione.
Chiara sostiene che nel 1978 l’omicidio di Aldo Moro segna per le BR l’inizio della sconfitta politica, se non ancora di quella militare, con il sempre maggior isolamento di un gruppo ormai largamente riconosciuto come sanguinario e criminale, ma aggiunge che la decisa contrapposizione con gli operai si manifesta quando Guido Rossa, l’operaio comunista che aveva denunciato i brigatisti in fabbrica, viene da essi punito con la morte. Era il 24 gennaio 1979. La sconfitta politica diventa definitiva.
Ma prima? La contrapposizione, per usare il linguaggio di Chiara, era meno decisa. Rossa era troppo isolato. Disse Luciano Lama ai funerali: Dovevamo essere un solo grande testimone. Un operaio intervistato, piangendo, disse: Avevi ragione tu, scusaci tu.
Con Rossa muoiono anche le BR. Poi vincerà l’edonismo, sconfiggendo la classe operaia e il PCI. Ma le BR non hanno scampo. Dopo il 24 gennaio 1979 la via del consenso operaio è preclusa definitivamente.
Lo spiega bene Sergio Luzzatto nel suo “Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa”.
Si può sostenere, quindi, che le Brigate Rosse muoiono in Liguria.
“Lotta continua” pubblica nel giorno dei funerali di Rossa il comunicato del collettivo operaio dell’Italsider:
L’uccisione del compagno delegato Guido Rossa è stato un attacco non a un militante di un partito ma alla classe operaia, perché Guido rossa non era un padrone, non era un dirigente industriale, era un delegato operaio, eletto liberamente dagli operai e non dal padrone.
Ogni dubbio è spazzato via.
Già nel 1968, nella poesia “Panagulis”, Pier Paolo Pasolini aveva scritto il verso violenza, aggiungo, senza speranza. Negli anni successivi al 1968 la violenza emerse come architrave – possibile o necessario – della speranza. Dopo l’uccisione di Rossa la violenza cominciò a declinare. Così, purtroppo, anche la speranza. Oggi la speranza può rinascere solo nel segno della noviolenza. La ricostruzione che fa Chiara Dogliotti di quei dolorosi eventi spinge e sollecita a questa conclusione.

Giorgio Pagano

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