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Torniamo ad essere golfo dei poeti e golfo del lavoro

a cura di in data 11 Dicembre 2023 – 18:46

La Spezia, ingresso principale dell’Arsenale Militare
(2011) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 2 luglio 2023

La storia di Spezia cambiò radicalmente – era il 1869 – con la realizzazione dell’Arsenale nell’area da San Vito, borgo di antichissime origini, al Lagora: quasi 900.000 m2 (di cui 180.000 edificati), 12 km di strade, 6,5 km di banchine che circondano circa 1.400.000 m2 di acque interne. L’Arsenale – ricorda William Domenichini nel suo bel libro “Il golfo ai poeti. No Basi Blu” – determinò il grande sviluppo economico e demografico della città ma allo stesso tempo le fece pagare un “dazio altissimo”: “andarono perduti i resti di civiltà romana e preromanica, spostati corsi d’acqua, cimiteri, chiese e testimonianze medievali, intere comunità traslocate”.
Lì è l’origine della perdita del rapporto di Spezia con il mare. Scrivevo nel 2009, centocinquant’anni dopo: “il mare, da allora, non ‘entra’ più in città, è ai margini, sullo sfondo, alle nostre spalle. Il mare e la città diventano due realtà che quasi non si toccano più. La città ‘dialoga’ con bacini, moli, banchine” (“Spezia città simbolo dell’unità nazionale”, “Il Secolo XIX”, 23 agosto 2009, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com).
Ora la nostra storia è ancora una volta, e altrettanto radicalmente, cambiata: la nostra fisionomia non è più legata alla sola Marina Militare. Spiega Domenichini:
“Dopo aver occupato oltre 12.000 lavoratori, nelle officine e negli uffici arsenalizi iniziò il crollo che porta, nel 2022, l’organico ufficiale a meno di 500 occupati e la previsione è di ulteriore riduzione, minacciandone la stessa esistenza”. Il Piano Brin, varato più di vent’anni anni fa, avrebbe dovuto garantire una ristrutturazione delle officine di manutenzione, ma è rimasto sostanzialmente lettera morta.
Eppure, nonostante il ridimensionamento produttivo e operativo, le aree occupate dalla Marina sono ancora oggi enormi. Il loro utilizzo è sempre più marginale, ci sono spazi ed edifici abbandonati e aree degradate. Tra cui quelle più a ponente, come giustamente sostengono i successori dell’antica San Vito, i “Murati vivi” di Marola.
Al libro di Domenichini e alla mobilitazione dei “Murati vivi” si è accompagnato, in queste settimane, l’impegno di alcune forze politiche. Ricordo, in particolare, l’iniziativa del 27 maggio scorso del gruppo LeAli, a cui altre sono seguite.
Non possiamo più assistere inermi a ciò che accade. La questione di un nuovo modo di essere “città della difesa” deve diventare una priorità per le istituzioni, e tutta la comunità va coinvolta e resa partecipe, perché sostenga le istituzioni nel confronto, e se necessario nel conflitto, con la Marina e il Governo. Quando terminai, nel 2007, il mio mandato da sindaco dissi: “La città ha sciolto molti nodi strategici, ora deve affrontarne ancora due, entrambi maturi: la dismissione dell’Enel e il recupero a usi civili delle tante aree militari inutilizzate, a partire da quelle del ponente”. Non è impossibile: prova ne è che sull’Enel la città ce l’ha fatta.
Se Governo e Marina non sono disponibili, una spinta politica e progettuale dell’intera città, sostenuta dalla Regione, può cambiare le cose. Vorrei che il sindaco e tutte le forze politiche e sociali ci credessero di più.
Come sull’Enel – dove a livello nazionale era prevalsa la tesi di sostituire la centrale a carbone con una centrale a gas – anche sull’Arsenale stanno avanzando progetti sbagliati, che vanno contrastati. Anzi, innanzitutto vanno conosciuti e dibattuti: perché tutto sta avvenendo senza coinvolgere minimamente la città. All’inizio del 2022 è spuntato fuori lo studio di fattibilità del programma Basi Blu. Lo spiega bene Domenichini: per adeguare l’Arsenale alle predisposizioni previste dalla Nato “sono previsti: tre nuovi moli (Varicella 3 e Scali) 1 e 2); l’ampliamento di un molo esistente (Varicella 1); l’ampliamento di una banchina esistente (Lagora). Un tombamento a mare per oltre 40.000 m2”.
Tra le opere a terra è prevista la riattivazione dei serbatoi sotterranei di carburante che, da tempo dismessi, si trovano tuttora sotto la Strada provinciale 530 (Napoleonica), l’unica via di collegamento nella costa di ponente, e sotto l’abitato di Marola.
Sono inoltre previste imponenti opere a mare per dragare il fondale di transito della Darsena Duca degli Abruzzi sino a 12 metri, con una previsione di fanghi asportati di circa 600.000 m3, le cui caratterizzazioni chimico-fisiche ad oggi note rivelano una forte componente di materiale inquinato.
L’intero programma avrà un costo di enorme rilievo per le casse dello Stato, con un importo superiore ai 350 milioni di euro per lavori che dovrebbero durare dieci anni, dal 2025 al 2035.
E i posti di lavoro? Non ce n’è traccia. Il progetto è finalizzato infatti solo a garantire infrastrutture e servizi di natura logistica e portuale alle nuove unità militari, senza incrementi significativi del numero degli addetti (militari e civili).
Una vera beffa: il resto dell’Arsenale resterebbe così com’è, senza che si bonifichino le tante criticità esistenti (si pensi all’amianto) e senza che si riqualifichino e si ammodernino le officine. Solo nuovi moli e banchine, nuovi (e pericolosi) serbatoi di carburante sotto le case di Marola.

La Spezia, le mura dell’Arsenale Militare e il canale Lagora
(2011) (foto Giorgio Pagano)

Domenichini sostiene che “Basi Blu rappresenterebbe la pietra tombale per ogni possibilità di riconversione del territorio spezzino”, innanzitutto per il ponente, e propone una scelta alternativa, quella di concentrare le attività della Marina nella parte orientale dell’Arsenale, sulla base di una visione d’insieme della città e dell’Arsenale stesso. La linea di costa del ponente, da Marola a Cadimare, riconvertita al civile e bonificata, avrebbe una straordinaria attrattività per la nautica, il turismo, la cultura.
La “visione” è la condizione essenziale per impedire la “pietra tombale”. Come ha sostenuto LeAli, è necessario definire il “piano strategico” dell’Arsenale militare e dell’intera base navale spezzina, un piano concordato tra Comune, Regione, Marina e Governo, che coinvolga i cittadini e gli attori sociali.
Si può, si deve, essere “città della difesa” in modo nuovo. A chi ha la memoria corta ricordo che non partiamo da zero.
Abbiamo realizzato, alla Spezia, un lungo e positivo processo di riconversione nel civile, iniziato con la fine della Guerra Fredda e la conseguente crisi dell’industria militare nella prima metà degli anni Novanta, con ripercussioni pesanti nell’economia spezzina, particolarmente vulnerabile. Soffrimmo terribilmente perché avevamo una “monocultura”, quella della difesa.
Lo ha ricordato il sindacalista della CISL Gianni Alioti nella manifestazione “Riconvertiamo Seafuture” del 3 giugno scorso:
“Fu grazie all’investimento di miliardi di lire del programma europeo Konver e all’estensione a tutti i Comuni della provincia spezzina delle misure a sostegno dell’occupazione, previste dal Fondo Sociale Europeo, che si fece fronte alla perdita secca di posti di lavoro nel settore della difesa. In dieci anni, al netto di 160 lavoratori della missilistica passati alla Mbda, l’occupazione della Oto Melara si dimezzò, passando da 2.400 a 1.200 dipendenti (oggi, come Leonardo, ne occupa 900). Chiusero diverse piccole-medie aziende, tra cui l’Usea e i Cantieri Barberis. E la divisione militare della Fincantieri visse un lungo periodo di crisi e cassa integrazione, interrotto solo dopo il cambio al vertice del Gruppo e la decisione di produrre i ‘traghetti veloci’ a Riva Trigoso e al Muggiano”.
A distanza di anni possiamo, anzi dobbiamo rivendicare i successi ottenuti, mediante i progetti regionali per l’utilizzo nell’area spezzina dei fondi europei fino al 2001 di Konver e del Fondo Sociale Europeo fino ad oggi. Se si è insediato il Campus Universitario, se si è sviluppato il “distretto produttivo della nautica”, lo si deve a quell’impegno per la riconversione nel civile. Solo in un’area di un miglio, compresa tra il Molo Pagliari e il Muggiano, sono concentrate le maggiori eccellenze mondiali della nautica. E, complessivamente, in questo comparto (sia in ambito manifatturiero, sia nei servizi collegati) lavorano oggi, secondo i dati forniti dalla Camera di Commercio, 12.900 persone. “Molte di più – ha sostenuto Alioti – di quelle che si sono perse nell’industria a produzione militare negli anni Novanta. E, qualcosa di meno di quelle che potrebbero ancora trovare un lavoro in questo territorio, se il processo di graduale differenziazione produttiva dell’economia spezzina e di conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa, fosse andato avanti con più coraggio e più decisione”.
Ecco perché dobbiamo avere la forza culturale e politica di mettere in gioco l’Arsenale. I posti di lavoro non li creeremo con Basi Blu ma con la riconversione civile di una parte dell’Arsenale.
Quanto è successo negli ultimi trent’anni alla Spezia, cioè nel più importante distretto industriale del settore della difesa, lo dimostra con estrema chiarezza. Nel 1991 i lavoratori occupati diretti in attività legate alla difesa erano pari al 9,6 per cento del totale dell’occupazione e ben il 41,0 per cento del totale degli occupati nell’industria manifatturiera (scesi adesso al 16 per cento). Nel 2022 le persone occupate direttamente nel settore della nautica rappresentano oltre il 15 per cento del totale degli occupati alla Spezia, contro il 2,5 per cento di quelli occupati direttamente nel settore della difesa.
Il nuovo golfo dei poeti dovrà essere ancora di più il golfo del lavoro: lottare per il disarmo, la riduzione delle spese militari e la riconversione nel civile fa bene non solo all’anima, ma anche all’economia e all’occupazione.

lucidellacitta2011@gmail.com

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