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I sogni delle Primavere arabe sono ancora vivi

a cura di in data 10 Febbraio 2016 – 10:53
Egitto, Kom Ombo    (2012)  (foto Giorgio Pagano)

Egitto, Kom Ombo
(2012) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 7 febbraio 2016 – Giulio Regeni era un ragazzo che studiava, curioso del mondo, attento ai problemi di un Paese, l’Egitto, dove il dissenso è selvaggiamente represso con il carcere, le sparizioni, le uccisioni. La sua è stata una morte orribile: ha pagato per i suoi rapporti con gruppi di attivisti che in Egitto si battono per la democrazia e la giustizia. Ora l’Italia non deve accontentarsi delle verità di comodo che vuole propinarci il regime del dittatore Al-Sisi, ma pretendere tutta la verità. Anche a scapito della real-politik e degli affari italiani in Egitto.

A cinque anni dalla nascita delle “Primavere arabe”, tra cui quella che in Egitto pose fine al regime di Hosni Mubarak, cosa resta dello spirito di piazza Tahrir -la piazza del Cairo, a due passi dal Nilo, luogo della protesta- e dei suoi ragazzi? Apparentemente nulla. Oggi nessuno può più riunirsi, né in piazza Tahrir né altrove. Giulio, prima di essere torturato e assassinato, è stato sequestrato in piazza dalla polizia egiziana proprio il 25 gennaio, anniversario della rivolta. Il Paese ha ritrovato i vecchi metodi autoritari dei tempi di Mubarak, aggravandoli: quello di Al-Sisi, il nuovo “Faraone”, è un regime di militarismo puro, uno Stato di polizia. Nessuna opposizione è tollerata, laica o islamista che sia. Dopo la rivolta del 2011, le elezioni del 2012 diedero la maggioranza ai Fratelli musulmani, che governarono con inettitudine e con scarso rispetto per la democrazia. Ma il loro Governo fu rovesciato, nel 2013, dal colpo di stato dell’esercito di Al-Sisi, non dal voto popolare. Da allora è cresciuta la violenza, e l’Egitto non è certo uscito dalla sua crisi.

L’anno scorso Amnesty International ha pubblicato un rapporto angosciante, il cui titolo è di per sé un potente j’accuse contro il nuovo “Faraone”: “Generazione carcere”. Migliaia di giovani arrestati e detenuti in modo arbitrario, almeno 90 di loro scomparsi e uccisi. Ecco una testimonianza tra le tante raccolte: “Sono stato arrestato a febbraio, a casa, da uomini della sicurezza in abiti civili. Mi hanno subito picchiato e poi trasferito ad Al Azouly. Mi hanno interrogato 13 volte. Ogni volta bendato, ammanettato con le mani dietro la schiena, colpito con le scariche elettriche, su tutto il corpo, compresi i testicoli. Non mi hanno permesso di telefonare ai miei familiari. Un uomo che era in cella con noi, si chiamava Haj Shatewy e veniva dal Sinai, è stato torturato dalla Brigata militare 101. Gli hanno infilato un bastone rovente nell’ano e per nove giorni non è riuscito ad andare in bagno. Non lo hanno curato. E’ morto nella sua cella numero 11 del secondo piano”.
Amnesty ha sollecitato i partner internazionali a non sacrificare i diritti umani nel dialogo con le autorità egiziane. Ma i leader dell’Occidente -Francia, Italia, Germania e altri Paesi- hanno avuto tanti incontri con Al-Sisi, senza mai parlare di diritti umani. A loro interessa avere un alleato nel Mediterraneo, e magari il petrolio scoperto di recente. Matteo Renzi è stato molto chiaro, qualche mese fa, in un’intervista a Al Jazeera: “In questo momento l’Egitto può essere salvato soltanto dalla leadership personale di Al-Sisi… sono orgoglioso della nostra amicizia”. Probabilmente in vista di un’avventura militare in Libia. Il “Faraone” ha ringraziato, la “generazione carcere” no. Ora si pensa a risolvere il caso Regeni il più rapidamente possibile, per poi riprendere le normali relazioni tra Italia ed Egitto, come se nulla fosse. E’ drammaticamente sbagliato. Anche perché sfugge il rapporto tra i regimi di polizia e il terrorismo islamista. Sono fratelli siamesi: l’uno ha bisogno dell’altro. Ci siamo forse dimenticati dell’aereo russo colpito dai terroristi nel Sinai? Proprio non vogliamo capire: quando un dittatore viene liquidato, ne cerchiamo il sosia. Non aiutiamo a costruire la democrazia, e facciamo prosperare al meglio il terrorismo.

Ma dire che dobbiamo “aiutare a costruire la democrazia” presuppone che, in quei Paesi, ci siano forze che combattono per la democrazia. Le vicende egiziane ci mettono davanti a questa domanda: queste forze esistono? Oppure le “Primavere arabe” sono definitivamente archiviate? E’ quello che vorrebbero sia Al-Sisi che i terroristi, ma per fortuna non è così. Le istanze di libertà e giustizia che hanno animato cinque anni fa i giovani di Tahrir e delle altre piazze arabe non sono venute meno. Sono il nemico comune del “Faraone” e del Califfo, e vivono nella società civile, si organizzano nelle associazioni, nei sindacati, nei movimenti di base, come ci raccontava Giulio Regeni nei suoi reportage sul “Manifesto”.

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Tunisi, la Moschea Al-Zaytuna nella Medina    (2004)   (foto Giorgio Pagano)

Tunisi, la Moschea Al-Zaytuna
nella Medina (2004)
(foto Giorgio Pagano)

Che i sogni delle “Primavere” siano ancora vivi ce lo dimostrano anche e soprattutto le vicende della Tunisia. Quella tunisina è una “repubblica sospesa” che, se riuscisse a raggiungere gli obbiettivi della rivoluzione -la costruzione di un Paese democratico-, potrebbe rappresentare un esempio per gli altri Paesi dell’area. Si è rivelata velleitaria l’altra speranza, che in molti -io tra questi- coltivavano: quella del modello turco “islamo-democratico”. In realtà negli ultimi anni l’autoritarismo di Recyp Erdogan, la repressione dell’opposizione (la Turchia è scivolata al 149° posto su 180 del World Press Freedom Index di Reporter senza Frontiere), l’appoggio all’Isis ne hanno svelato la vera natura. La “repubblica sospesa” tunisina ha alcuni frammenti preziosi frutto delle “Primavere”: soprattutto la nuova Costituzione approvata nel 2014, che dichiara che l’Islam è la religione della Tunisia ma non la religione dello Stato e riconosce l’eguaglianza di diritti tra uomini e donne. Un frutto dell’impegno della società civile, e del ruolo decisivo delle donne. Anche in Tunisia, come in Egitto, le prime elezioni furono vinte dal partito islamista, Ennahda, rivelatosi anch’esso incapace di gestire l’economia, come i Fratelli musulmani. Ma Ennahda fu sconfitto alle elezioni del 2014, e accettò il risultato elettorale e poi l’intesa con il primo partito, Nidaa Tounes, laico di centro. La Tunisia ha dimostrato che può esistere un Islam moderato e democratico: un simbolo che non a caso i terroristi hanno voluto colpire, con l’attentato al Museo del Bardo a Tunisi, nel 2015. E che il mondo ha voluto invece riconoscere e ricompensare, premiando con il Premio Nobel per la pace 2015 quattro organizzazioni della società civile tunisina, impegnate a evitare lo scontro tra laici e islamisti e la guerra civile. Il terrorismo ha portato però alla crisi del turismo, e quindi alla crescita del malcontento popolare: di fatto l’economia non è mai ripartita. Ritorna il tema del ruolo dell’Occidente, e dell’Europa in particolare: dare un sostegno economico alla Tunisia, sostenere il Paese nel suo cammino democratico, aiutare la prevenzione del terrorismo. Esattamente ciò che non abbiamo fatto in Egitto. E tantomeno in Libia.

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La Libia è una giungla di tribù e di gruppi autonomi armati. Molti rimpiangono Gheddafi, ma nel 2011 il rais era finito, il regime si stava sfaldando. Il tragico errore dell’Occidente fu fare la guerra anziché supportare la transizione alla democrazia. Ora ogni sforzo dovrebbe essere dedicato alla riconciliazione nazionale, all’accordo politico tra le parti in guerra, e poi al supporto alla transizione, difficile perché in Libia non c’è la tradizione dei partiti e della società civile come in Tunisia (anche se c’è più ricchezza economica). Un intervento militare straniero, che sembra purtroppo imminente, aggraverebbe invece il caos. La strada della diplomazia, del sostegno a un accordo politico, del supporto all’economia e alla costruzione della democrazia non ha alternative. L’unica risposta di lungo periodo all’Isis è costruire società democratiche, inclusive e prospere, che ascoltino i bisogni dei loro cittadini e riconoscano loro lavoro, diritti, potere. Quello che preoccupa, guardando alle vicende di Siria e Iraq, è che lì si sta combattendo una guerra di potenze, globali e regionali, più che una lotta al terrorismo. Come ha scritto uno dei più acuti e indipendenti analisti di geopolitica americani, David Rothkpof: “La nostra reazione al terrorismo è più pericolosa dei terroristi”.

Post scriptum:
le foto pubblicate oggi non sono state scattate a Sao Tomè e Principe, come tutte quelle pubblicate in questi mesi, ma in Egitto e in Tunisia.

lucidellacitta2011@gmail.com

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