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Cento anni fa, la rivoluzione sognata anche a Spezia

a cura di in data 2 Febbraio 2021 – 06:48

Sarzana, Marinella, la targa della Cellula del PCI
(2011) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 24 gennaio 2021 – Alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, il 21 gennaio 1921 al Teatro San Marco a Livorno, parteciparono due delegati spezzini, Mario Saccani, operaio delle ferrovie, e Ugolino Del Bravo, operaio specializzato nelle costruzioni navali. Ripercorro le vicende di cento anni fa rileggendo i libri di Antonio Bianchi e andando con la memoria ai colloqui che, giovane Segretario di Sezione, avevo di frequente con due “compagni del ‘21”, Alfredo Saccani e Armando Gatti. Ancora negli anni Settanta l’anniversario del 1921 era una festa popolare, con manifestazioni ovunque. E i “compagni del ‘21” erano amati e rispettati come “miti” viventi. Che partito era, a Spezia, quello appena nato a Livorno? Era formato da tanti operai e da alcuni intellettuali. Il primo Segretario fu Alfredo Del Conte, che lavorava con Del Bravo, poi quasi subito sostituito da Federico Cassiano, che aveva diretto la Camera del Lavoro nel “biennio rosso” 1919-1920 e nell’occupazione delle fabbriche. Del Conte restò Vicesegretario. La sede del partito era in via De Nobili, in uno stabile distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale, corrispondente all’attuale numero 37. Al Canaletto c’era una Sezione tra le più forti, intitolata a Karl Liebknecht, uno dei protagonisti della rivolta della “Lega di Spartaco” a Berlino, nel 1919, ucciso dai socialdemocratici. Altre Sezioni combattive erano a Pitelli, a Biassa, ma anche a Lerici, a San Terenzo, in Riviera e in Val di Magra, Sarzana in primis. Nuclei comunisti erano presenti in molte fabbriche, anche in Arsenale. Nel marzo del 1921, al Congresso del PCd’I ligure presieduto da Antonio Gramsci, furono eletti nel Comitato regionale due spezzini, il professor Luca Di Castro e Aristide Pavolettoni. L’attività del partito, che consisteva nella raccolta di fondi a favore della Russia dei Soviet e nella lotta contro i licenziamenti e gli aumenti dei prezzi, fu subito contrastata dallo squadrismo fascista, che colpiva con la violenza le sedi e le iniziative dei partiti della sinistra. Nel febbraio e a marzo 1921 ci furono, a Spezia, eccidi politici e scioperi generali. Fu un’escalation continua, fino al colpo di Stato fascista nel 1922.

La distanza politica, sociale, culturale da quegli anni è certamente enorme. Il contesto era dominato dalle conseguenze della Prima Guerra Mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre. La guerra fu il cataclisma scatenante, la tragedia sociale che mobilitò milioni di uomini che volevano migliorare la loro vita. La Russia -mito fondante- dimostrava che la rivoluzione era possibile. Il comunismo, come reazione al riformismo di Turati che non voleva fare la rivoluzione, e il fascismo, come reazione al comunismo, furono il frutto di quella stagione: nacquero entrambi in quel magma incandescente. Come dice lo storico Marcello Flores a proposito di Turati: “Molto difficile dargli torto, oggi. Ma molto difficile dargli ragione allora”.

Roma, Cimitero del Verano: le tombe di Palmiro Togliatti, Nilde Jotti, Bruno Trentin, Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama
(2014) (foto Giorgio Pagano)

Poi Gramsci riconobbe gli errori di estremismo e dogmatismo del PCd’I diretto da Amadeo Bordiga e nel 1926, al Congresso di Lione, “rifondò” il partito. Subito dopo fu arrestato e morì in carcere nel 1937, assassinato dal fascismo. Nei “Quaderni del carcere” c’è una elaborazione ricchissima, “una bussola per capire la contemporaneità”, come dice lo storico Luciano Canfora: Gramsci fu l’unico che guardò oltre il modello della politica di potenza che era quello della guerra e del leninismo. Una elaborazione mai fatta propria fino in fondo dal PCI.
E tuttavia, dopo gli anni della clandestinità e della lotta al fascismo, ci fu, nel 1944, un’altra “rifondazione” del partito, di cui va dato merito a Palmiro Togliatti. La “democrazia progressiva”: miglioriamo le condizioni di vita delle masse qui e oggi, attuiamo le riforme, il socialismo sarà il prossimo passo. Un originale “comunismo riformista”, che evitò la guerra civile senza mai rinunciare a dare una speranza ai ceti più deboli e praticò giorno dopo giorno la serietà della politica legata al popolo. Ma che non seppe mai operare un distacco radicale dall’URSS, diventata quello Stato totalitario che già Gramsci aveva criticato nella riflessione in carcere.
Oggi tutto è cambiato. Ma raccontare questa storia e riflettere su di essa è qualcosa di utile. Un’epoca in cui la vita è racchiusa solo nel presente è smemorata (priva di memoria) ma anche disperata (priva di speranza). La sinistra non esiste più, o se esiste è apolide, senza data e luogo di nascita. Di allora è rimasto pochissimo. Botteghe Oscure e le Frattocchie sono diventati appartamenti, così, a Spezia, la storica sede di piazza Mentana. All’orizzonte non ci sono né la rivoluzione né le riforme. La crisi cominciò negli anni Settanta, con l’incapacità di interpretare la spinta del Sessantotto. Fino alla sua precipitazione nel 1989, quando l’errore non fu quello di cambiare nome, ma di perdere di vista l’obiettivo della trasformazione sociale e della dignità del lavoro, mutuando l’obiettivo liberale e liberista. Come aveva già fatto, del resto, il Partito Socialista.

Il problema di oggi nasce da allora: mancano i partiti, e in particolare il partito della sinistra, che si connetta alle persone che si sentono sradicate, che “stanno sotto”.
Nei giorni scorsi se ne è andato, a 96 anni, il “comunista riformista” Emanuele Macaluso. Nel suo ultimo libro, “Comunisti a modo nostro”, ha scritto:
“Ritengo che un partito della sinistra debba stare sempre attento ai processi che investono la società. In questi anni, la società ha subito dei processi che la sinistra non ha colto; è una critica che faccio da ben prima che arrivasse Renzi. Se smonti la tua presenza nella società e non allacci più rapporti con il territorio, allora la tua presenza al governo assume un altro aspetto. Facendo quasi una battuta, ho detto che la cultura che aveva un contadino siciliano, un bracciante pugliese o emiliano era molto più alta di quella di molti politici che girano oggi. Quest’abbassamento culturale ha portato alla situazione attuale. Mi inquieta il fatto che ci sia un distacco della sinistra dagli interessi immediati e reali del popolo, motivo per cui viene vissuta quasi come un vecchio club. Non mi preoccupa esageratamente il calo dei voti di alcuni partiti socialisti, perché ho un’altra visione. I verdi, che hanno una cultura ambientalista, si dovranno misurare sul terreno delle riforme sociali e sull’emigrazione. Se elaboreranno una politica in questo senso, allora trovo pure in loro il carattere che ritengo debba avere la sinistra. Penso che la sinistra, quella riformista, debba avere la capacità di vedere la dimensione sociale. E poi, se si chiamano verdi, socialdemocratici, Partito laburista o Partito socialista, non è decisivo”.
Forse il secolo scorso non è così lontano. Perché se la sinistra deve ricostruire una connessione sociale e sentimentale con il popolo, se deve ricreare una dimensione sociale ed una nuova trama di relazioni umane tra le persone, nella nuova realtà del lavoro, allora ha bisogno di Antonio Gramsci, l’unico suo pensatore che si è cimentato nello studio delle relazioni sociali e delle forme di costruzione della società. A 130 anni dalla nascita del grande sardo -che nacque il 22 gennaio 1891- l’anniversario che più ci parla, allora, è questo. Perché le opere di Gramsci sono un serbatoio inesauribile di scoperte. Anche per un partito che non si chiamerà più “comunista”.

Post scriptum:
Su Gramsci rimando al testo di una conferenza che ho tenuto a Genova il 3 novembre 2020 sul tema “Gramsci oltre Gramsci: il dibattito nella sinistra italiana nella seconda metà del Novecento”, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com

lucidellacitta2011@gmail.com

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