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Dalla parte di Exodus, di tutti i profughi e di tutte le vittime

a cura di in data 16 Maggio 2014 – 10:41
Gerusalemme, Collina del Ricordo, Yad Vashem: immagine del viaggio della nave Exodus nel Museo Storico dell'Olocausto e dell'Eroismo (2005) (foto Giorgio Pagano)

Gerusalemme, Collina del Ricordo, Yad Vashem: immagine del viaggio della nave Exodus nel Museo Storico dell’Olocausto e dell’Eroismo (2005)
(foto Giorgio Pagano)

Città  della  Spezia, 11  Maggio  2014 – Mermelstein Shoham Moshe è un ebreo sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau. A Munkatch, la sua città natale, non ritrovò nessun superstite della sua famiglia; da lì si spostò a Budapest, poi in Italia, a Ostia, e infine a Spezia, per raggiungere via nave la Palestina, per gli ebrei lo Stato di Israele. Rimase nella nostra città, insieme a oltre 1000 ebrei, per sei settimane, bloccato al molo Pirelli a Pagliari sulle piccole navi “Fede” e “Fenice”, a cui gli inglesi -che governavano la Palestina fin dal 1920- impedivano la partenza. L’8 maggio, sessantotto anni dopo, Merlmestein Shoham Moshe era in sala Dante, a ricevere, con tutto il kibbutz Ramot Menashe, il Premio Exodus dalle mani del Sindaco. Leggiamo la sua testimonianza: “Gli spezzini hanno costruito per noi servizi sanitari, ci hanno aiutato con il cibo, benché si trovassero anche loro in gravi difficoltà dopo la guerra, e nemmeno la vita culturale è stata trascurata: con il loro aiuto abbiamo festeggiato la Pasqua ebraica e il 1° maggio. Alla fine abbiamo dichiarato lo sciopero della fame, la notizia si è sparsa per il mondo e gli inglesi ci hanno concesso di partire per Haifa. Gli spezzini ci hanno accompagnato con tamburi e canti finché le navi non si vedevano più all’orizzonte. Non avrei mai creduto di tornare, ma eccomi qua, ottantaseienne.

Di nuovo grazie di cuore. Spero ricordiate ai vostri figli, nipoti e bisnipoti quanto avete fatto per aiutarci. Noi lo facciamo sempre”. Dopo quelle navi, ne salparono altre: Spezia divenne la base operativa per la partenza di 25.000 ebrei superstiti dei campi. Ricordo l’inaugurazione, nel Museo dell’immigrazione clandestina e della Marina a Haifa, nel febbraio 2006, della mostra”La Spezia città di Exodus”: la partecipazione emotiva era fortissima, soprattutto da parte di coloro che arrivarono a Haifa proprio dalla Spezia, e da parte dei loro familiari. Appena arrivato al Museo fui abbracciato dalla figlia di Yehuda Arazi, capo dell’immigrazione clandestina, che mi donò alcuni cimeli del padre, tra cui l’unica fotografia che gli fu scattata in quegli anni: Arazi con la bandiera di Israele sul molo Pirelli, a Pagliari. Prima e dopo il mio discorso fui “assediato” dai sopravvissuti e dai loro familiari, che volevano attraverso me salutare e ringraziare la nostra città. Davvero, in Israele, La Spezia è la “Porta di Sion”. E l’8 maggio di ogni anno -è stato giusto spostare il Premio, che si teneva in autunno, alla sua data “naturale”- deve diventare una giornata del nostro calendario civile, che ci insegni che dobbiamo essere orgogliosi della nostra storia, e consapevoli del prestigio nazionale e internazionale della nostra città, come dimostra l’attribuzione della Medaglia d’oro al merito civile da parte del Presidente Ciampi, il 25 aprile 2006. Una storia e un prestigio che devono stimolarci a essere ogni giorno, come sessantotto anni fa, una città di pace, aperta, accogliente, solidale.
Una delle testimonianze più belle di quei giorni, da parte spezzina, è quella del caro Giulio Negroni, che purtroppo ci ha lasciati. Ne scrissi in “Exodus, se la pietà alla fine svanisce”, Il Secolo XIX, 10 maggio 2009, ora in www.associazioneculturalemediterraneo.com. La testimonianza integrale è nel libro di Giulio “Il borgo di Fossamastra”. Per più di un mese  lui e la moglie Dina ospitarono tre ebrei, tra cui un rabbino. Leggiamo solo queste righe: “Questo gesto di spontaneo aiuto mi venne dettato dal ricordo che mi portavo dentro, cioè ricordai quando ci fu il dramma dell’Esercito italiano l’8 settembre 1943; io mi trovavo militare in terra straniera, a Sussak in Jugoslavia, dove trovai grande aiuto da parte della gente del luogo, mi dettero da mangiare e mi ospitarono salvandomi così dalla sicura prigionia che avrei dovuto scontare in Germania e, anche se dovetti superare diverse peripezie, potei riabbracciare felicemente la mia famiglia”. Erano tempi terribili, ma la solidarietà umana e l’amore per gli altri seppero sconfiggere il nazismo e il fascismo.

Gerusalemme, Collina del Ricordo, Yad Vashem: il nome La Spezia nella Valle delle Comunità Distrutte, sito commemorativo scolpito sul fondovalle che riporta i nomi di 5000 comunità ebraiche annientate dai nazisti   (2005) (foto Giorgio Pagano)

Gerusalemme, Collina del Ricordo, Yad Vashem: il nome La Spezia nella Valle delle Comunità Distrutte, sito commemorativo scolpito sul fondovalle che riporta i nomi di 5000 comunità ebraiche annientate dai nazisti (2005)
(foto Giorgio Pagano)

Il mio amico Giulio me ne parlava sempre nei nostri incontri, nella sua casa di via Brugnato a Fossamastra, dalla quale negli ultimi tempi non usciva più. Le sue riflessioni sull’uomo si ritrovano anche nell’altro suo libro “Anni difficili. 8 settembre ’43 – 25 aprile ‘45”: il racconto della Resistenza del partigiano “Squalo”, il nome di battaglia di Giulio, in cui più che le azioni militari colpiscono l’ossessione della fame, la fatica per il cammino senza scarponi, la paura dei tedeschi. E, insieme, la capacità di “restare umani” da parte di tanti: i contadini che rischiavano la vita per curare e dar da mangiare ai partigiani, una donna che dona a Giulio gli scarponi, Giulio che rinuncia a uccidere un tedesco e viceversa: “I tedeschi non immaginavano che fossi appostato a pochi metri da loro, tenendoli sotto tiro. Passarono tutti fuorché l’ultimo, accortosi di me, si soffermò il tempo di poterci guardare fissi negli occhi. Avevamo le armi puntate l’un contro l’altro e sarebbe bastato un niente, una semplice mossa falsa che ci saremmo sparati a vicenda. Dopo un attimo di riflessione, distolse l’arma che aveva puntato contro di me, e tirò avanti, come se nulla avesse visto. A distanza di cinquant’anni esatti, più volte rivedo quei suoi occhi azzurri. Non erano quelli di un fanatico nemico, ma di un semplice soldato tedesco, costretto a fare una guerra da lui non voluta”. C’è qualcosa nell’uomo, ci dicevamo rievocando questo episodio, che riesce a sconfiggere “la bestia umana”. “Squalo”, dopo una ferita e il ricovero nell’ospedale nella “zona liberata” di Albareto, non tornò ai monti ma entrò a far parte delle Sap (Squadre di azione patriottica) a Fossamastra. Fu grazie alla complicità di un tedesco, il sergente Klaus, che le Sap riuscirono a impossessarsi di molte armi depositate in un capannone. E fu con queste armi che “Squalo” e i suoi compagni poterono catturare i guastatori tedeschi che stavano per far saltare, prima della loro fuga, il molo Pirelli. Se gli ebrei poterono partire un anno dopo da quel molo, è perché i partigiani riuscirono a salvare le fabbriche e le infrastrutture di una città che i nazisti volevano distruggere.

La storia di Exodus invita davvero a riflettere. Innanzitutto sulla nostra capacità, oggi, di saper accogliere i profughi dei nostri tempi, che scappano da povertà, violenze, guerre, disastri climatici, che hanno perso la loro casa e spesso le loro famiglie: i migranti africani. E di saper ridurre le cifre crudeli della tragica contabilità dei morti del Mediterraneo. Negli ultimi vent’anni, ogni giorno hanno perso la vita mediamente 6-7 fuggiaschi che cercavano di raggiungere l’Europa. Tanti sono bambini, come ci ha ricordato la campagna di Terre des hommes “Running for kids”, una corsa lungo tutta la Penisola per proteggere i diritti dei bambini in fuga, che ha raggiunto Spezia nei giorni scorsi, accolta dall’assessore Stretti e dal Coordinamento Io non respingo in Comune. Ci servono ancora la solidarietà umana e l’amore per gli altri. Uniti a una strategia intelligente e razionale. La cupa utopia dell’Europa-fortezza non ci porta da nessuna parte. Una buona parte di questi sventurati non vorrebbe fermarsi in Italia, ma vi è costretta dai vincoli della legge italiana. Servirebbe una legge europea, una politica comune sull’immigrazione dell’Europa: ma gli Stati europei viaggiano ciascuno per conto proprio. E’ arduo da realizzare, ma non c’è alternativa all’istituzione di presidi dell’Unione europea nei Paesi di partenza e di transito per accogliere le richieste di asilo e di protezione umanitaria. Una volta riconosciuta la sussistenza delle condizioni per la protezione, l’Unione europea definirà le quote di accoglienza di ciascun Stato membro. Un viaggio sicuro, dunque, dal presidio europeo al Paese di destinazione, l’unico progetto capace di evitare la maledetta “traversata della morte” (su questo punto si veda il mio “Una nuova agenda europea per asilo e immigrazione”, Centro in Europa, 2/2014, in www.associazioneculturalemediterraneo.com).

Un’ultima riflessione, su un tema ancor più delicato. L’8 maggio si è parlato di Exodus, di Israele, ma non della Palestina. Eppure nei giorni scorsi il Presidente palestinese Abu Mazen ha fatto una dichiarazione storica. Ha detto: “L’Olocausto è il crimine più odioso contro l’umanità che sia stato commesso in epoca moderna”. E per la prima volta trenta studenti palestinesi sono stati in visita ad Auschwitz. La questione, di cui ho a lungo discusso con amici palestinesi e israeliani, è terribilmente complessa (ne ho scritto in “Il museo dell’Olocausto in Palestina parla di pace”, Il Secolo XIX, 24 febbraio 2011, inwww.associazioneculturalemediterraneo.com). Abu Mazen ha fatto un atto politico, ha cercato di misurarsi con la sensibilità dell’opinione pubblica israeliana, di fare i conti con una realtà che spesso è stata rimossa. Le sue parole costituiscono la premessa per il riconoscimento delle ragioni dell’altro, che è alla radice di tutto. Non dobbiamo mai dimenticare che la pace si fa con il nemico, e che il presupposto è il riconoscimento di quella che Antonio Gramsci chiamava la “verità interna” delle posizioni degli altri. Lo ha ben capito lo scrittore israeliano David Grossman: “Credo che la dichiarazione di Abu Mazen sia un passo molto positivo di comprensione per quello che gli ebrei hanno subito nella Shoah. I palestinesi non sono stati in grado di esprimerlo in passato, anche perché si sentivano loro stessi vittime delle vittime. Ed è necessario aver presente che non è possibile paragonare ciò che Israele compie nei Territori occupati con l’orrore della Shoah. Sono due dimensioni di malvagità totalmente differenti e il paragone tra loro è sbagliato. Spero che questo consenta anche agli israeliani di capire l’essenza della tragedia dei palestinesi, anche se probabilmente questo è ancora più difficile, poiché si aggiungono sensi di colpa inevitabili, dovuti a ciò che noi abbiamo fatto loro… La prima fase di ogni processo di pace è che le due parti riescano a identificarsi vicendevolmente con la sofferenza dell’altra parte, con quella di cui loro stessi sono responsabili e con quella che altri hanno inflitto all’altra parte. Solo se smetteremo di difenderci, a volte selvaggiamente, contro la sofferenza del nostro avversario saremo in grado di capire la narrazione dell’altro”. Purtroppo il premier israeliano Netanyahu ha reagito alle parole di Abu Mazen con irritazione, incapace di capire quanto Grossman ha invece perfettamente capito.

Bisogna essere davvero preoccupati di ciò che sta succedendo a Israele. Il sionismo del kibbutz che ha ricevuto il Premio Exodus esiste ancora? Leggiamo le parole di Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano: “Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Il sionismo ha diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del Governo in carica, conferma che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista la guerra del ’67 è in rottura e non in continuazione con la guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato di Israele, quella del ’67 si trasformò da risposta di difesa in un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare non lo Stato di Israele, a fianco dello Stato palestinese, ma la “Grande Israele”, che ha creato un “popolo di espropriati” delle terre e della sua identità. La strada per il Sudafrica dell’apartheid è già stata pavimentata”.

E’ un tema da maneggiare con cura e rispetto per tutti, ma la città di Exodus, la città gemellata con la palestinese Jenin e l’israeliana Haifa, la città che nel 2007 organizzò la Conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente, ha il dovere di non rimuoverlo e di metterlo al centro della sua iniziativa politica e culturale per il dialogo e per la pace.

lucidellacitta2011@gmail.com

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