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Ottanta giovani musicisti e il loro sogno sempre più lontano

a cura di in data 9 Agosto 2012 – 10:47

Palestina, Betlemme: il mercato (2009) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 5 Agosto 2012 – Il concerto più bello ed emozionante dell’estate in provincia? Non si è tenuto ad Artsenal o a Sconfinando, ma a Vernazza, nello splendido scenario del porticciolo, recuperato dopo la catastrofe di ottobre. Sabato scorso, davanti a un pubblico numerosissimo, in buona parte arrampicato tra gli scogli, la Palestine Youth Orchestra ha tenuto il suo primo concerto della sua breve tournée estiva, che ogni anno si tiene in un Paese diverso. Quest’anno è toccato all’Italia, grazie all’impegno del Conservatorio Niccolò Paganini di Genova. Dopo l’anteprima di Vernazza, l’Orchestra ha suonato al Teatro Carlo Felice di Genova, in piazza della Signoria a Firenze, nella Sala Accademica del Conservatorio di Roma e al Belvedere di Villa Rufolo a Ravello. Sedi e luoghi prestigiosi, tra cui una Vernazza tornata a nuova vita grazie alla dedizione di tanti, dei suoi abitanti in primo luogo. Anche se molto resta ancora da fare: per questo è bene che Vincenzo Resasco, il Sindaco simbolo dell’abnegazione per la ricostruzione, resti al suo posto. 

Il popolo palestinese è oggi frammentato e disperso in tanti Paesi del mondo: in Palestina (Israele e Territori occupati da Israele nel 1967) e nella diaspora (Libano, Siria, Giordania, Egitto, Europa, Americhe). Vivere e crescere sotto occupazione militare è difficile. Significa, per le istituzioni culturali palestinesi, contribuire allo sviluppo del proprio popolo facendo “resistenza culturale”, cioè difendendo e sviluppando il patrimonio culturale della Palestina. Una ricchezza che va fatta conoscere anche all’estero. La Palestine Youth Orchestra è nata per questo: “è la prova che la nostra nazione ha una cultura, ama la vita, vuole andare avanti”, dice la violinista Nadeen Baboun. È stata creata nel 2004 nell’ambito delle attività del Conservatorio Edward Said, dedicato alla memoria del grande intellettuale palestinese scomparso nel 2003. Il Conservatorio conta più di mille studenti e sessanta docenti distribuiti nelle cinque sedi di Gerusalemme, Ramallah, Betlemme, Nablus e Gaza. La composizione dell’Orchestra offre uno spaccato della storia moderna della Palestina: ci sono giovani che vivono nei Territori occupati (che hanno grande difficoltà ad ottenere i visti per andare all’estero) e nei Paesi della diaspora. Uniti dalla musica e dal fatto che fino al 1948, prima della creazione dello Stato di Israele, tutte le loro famiglie vivevano in Palestina.
Il concerto è stato molto bello: un mix tra il repertorio europeo e le musiche di compositori palestinesi e arabi. Ha cercato di dare il senso di uno scambio culturale. Quando ho visto gli ottanta giovani musicisti tutti schierati ho provato una grande emozione. Per la loro musica, certo, ma anche per il fatto stesso di vederli lì. Due volte, a Ramallah e a Betlemme, ho ascoltato i loro concerti. Vederli fuori dai loro muri, barriere e posti di blocco, tutti assieme, sembra quasi un miracolo. “Quello che mi sorprende è pensare a quanta libertà di movimento abbiamo qui”, dice il percussionista Tim Pottier.
E’ un sentimento che conosco bene. E che ci impone una domanda: il grande sogno di avere una Patria e di vivere in libertà di questi ottanta giovani, e dei loro coetanei palestinesi, potrà mai realizzarsi? E’ la domanda che mi assilla da anni, soprattutto da quando -era il 2005- ho cominciato a impegnarmi in progetti di cooperazione in Palestina, prima a Jenin, con il Comune della Spezia, poi a Betlemme, con l’Unione europea. La risposta, oggi, non può che essere pessimista e preoccupata: il grande sogno è lontano, perché sono ancora molti gli ostacoli che continuano ad impedire la nascita, accanto allo Stato di Israele, di uno Stato autonomo palestinese. La sua realizzazione non appare certo come una priorità né per l’attuale Governo israeliano né per la comunità internazionale, Stati Uniti ed Europa in testa. Mentre i palestinesi continuano ad essere divisi, tra Fatah che governa la Cisgiordania e Hamas insediata a Gaza.
Il destino mi farà tornare presto nell’amata Jenin, con l’Unione europea. Comincerò la mia missione in autunno, questa volta nel Governatorato (l’ente che corrisponde alla nostra Provincia) e non in Comune, per seguire i piani di sviluppo delle piccole imprese e dei servizi sociali. Non troverò una situazione facile. La missione, non a caso, è stata rinviata di qualche mese, perché ad aprile una sparatoria notturna sotto casa ha causato l’infarto che ha ucciso il Governatore Qaddura Musa, un caro amico che ha sempre seguito in prima persona il progetto La Spezia-Jenin, fornendoci una collaborazione preziosissima. Tra gli arrestati ci sono anche ex militanti di Fatah, tra cui Zakaria Zubeidi, uno dei leader militari di Fatah a Jenin durante gli anni più caldi della seconda intifada. Aveva abbandonato le armi ed era tornato alla sua prima passione, il teatro, entrando nell’amministrazione del Freedom Theatre di Jenin, diretto dall’ebreo-palestinese Juliano Mer-Khamis, assassinato misteriosamente lo scorso anno (proprio in quei giorni ero a Jenin). Sono fatti che fanno capire quanto sia complicata la situazione anche all’interno del campo palestinese.

Palestina, Betlemme: la porta di ingresso alla Basilica della Natività (2009) (foto Giorgio Pagano)

Ma alla radice delle difficoltà c’è l’ostacolo più grande: la ripresa degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, che sta logorando credibilità e fiducia. Una parte dei Territori è amministrata dal Governo presieduto da Salam Fayad, con risultati economici positivi (meno spese statali e più imprese e occupazione). Il problema è che Israele si è impadronito dell’acqua, ha di fatto il monopolio del turismo e soprattutto continua a riservare ai suoi coloni grandi quantità di terre. Amici palestinesi mi hanno raccontato che otto villaggi palestinesi a sud della città di Hebron rischiano di essere demoliti dall’esercito israeliano, che vuole usare quelle aree per svolgervi manovre militari. Sono piccoli villaggi di pastori, alcuni dei quali vivono in case ricavate da grotte. Ho mangiato con loro il riso con le mani, come vuole la tradizione. Ho visitato questi villaggi con l’allora sindaco di Yatta, Khalil Younis, purtroppo scomparso di recente. Lo cito sempre come esempio di “buona amministrazione” di Fatah, il cui governo non è stato e non è certamente solo corruzione. Younis era un Sindaco legatissimo al suo popolo. Al mattino stava in Comune, al pomeriggio girava tra i villaggi, per metter pace nelle famiglie colpite dalla crisi economica e dalla disoccupazione ed evitare i divorzi: una sorta di prete laico, insomma. Ora Israele vuole trasferire gli abitanti degli otto villaggi a Yatta, consentendo loro di raggiungere i campi solo quando l’esercito non dovrà svolgere le esercitazioni. Molti interpretano questa decisione come il passo preliminare all’espulsione dei palestinesi dalla zona C, quel 61% della Cisgiordania che rimane sotto il controllo esclusivo dell’esercito israeliano. Israele ha anche il controllo di sicurezza dell’area B (oltre il 20% della Cisgiordania), dove l’amministrazione civile è palestinese, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese ha il controllo “pieno”, con il Governo di Fayad, di meno del 20% della Cisgiordania. Nell’area C vivono oltre 300.0000 coloni israeliani: un numero ormai superiore a quello dei palestinesi, che spinge i “falchi” di Israele a chiedere subito l’annessione, in modo tale da restringere fortemente, e in modo unilaterale, i confini del futuro (?) Stato palestinese. Come ha riconosciuto il grande scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua è la costruzione degli insediamenti nei Territori palestinesi la causa principale della crescente avversione verso Israele nel mondo, perché mina la sua “posizione morale”: non è possibile “accettare che Israele eriga insediamenti espropriando arbitrariamente e ingiustamente territori che dovrebbero essere, a detta di tutti, dello Stato palestinese”. La questione è particolarmente grave se si pensa a quanto sta accadendo a Gerusalemme est (la parte araba della città): l’espansione degli insediamenti rende sempre più improbabile e impraticabile la prospettiva che Gerusalemme diventi la futura capitale anche dello Stato palestinese. Ma Gerusalemme non può non essere, nella prospettiva dei due Stati, la capitale di entrambi. La prospettiva dei due Stati, senza Gerusalemme, è senza sbocco.
La situazione è quindi drammatica. Assistiamo a una navigazione senza rotta, verso l’apparentemente inevitabile approdo di uno Stato unico in cui israeliani e palestinesi vivrebbero in zone separate, con status differenti. Israele diventerebbe Stato dell’apartheid, come il Sudafrica prima di Nelson Mandela. Appare inoltre sempre più probabile, come ha denunciato l’altro grande scrittore israeliano David Grossman, l’attacco di Israele all’Iran, “che potrebbe rivelarsi il più grosso errore mai commesso da un governo israeliano”. Il quadro è davvero fosco e raggelante. Vengono in mente le parole di Albert Einstein, ebreo e sionista: “Se non saremo capaci di trovare un modo di cooperare e di venire a patti onestamente con gli arabi, allora vorrà dire che non abbiamo imparato assolutamente niente durante i nostri duemila anni di sofferenza e che ci meriteremo tutto ciò che ci accadrà”. Il diritto di Israele a vivere in sicurezza non potrà mai essere garantito da una politica di guerra e di supremazia militare, ma solo da una politica di pace e di convivenza con lo Stato del popolo arabo di Palestina e con gli altri Stati arabi.

lucidellacitta@gmail.com

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