Per un golfo di pace, lavoro e sostenibilità “Riflettiamo sul progetto Basi Blu” – Sabato 13 aprile ore 17 alla Sala conferenze di Tele Liguria Sud
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L’odissea dei precari e i diritti del lavoro

a cura di in data 12 Aprile 2011 – 09:08

Il  Secolo XIX – 12  aprile  2011 – Dopo l’articolo sull’Università alcuni lettori mi hanno scritto per sottolineare che il tema del futuro dei giovani è oggi il più importante. Una ragazza si sofferma su stage e tirocini, per denunciare che “sono diventati lavoro dipendente, poco qualificato e non retribuito, spesso senza alcun valore formativo”.
Come stanno le cose? Ce lo spiega Eleonora Voltolina, trent’anni, che dopo cinque tirocini ha scritto il libro “La Repubblica degli stagisti”. Un’inchiesta ricca di storie, che fotografa bene una realtà imponente: gli stagisti sono 500.000 ogni anno. Tra le protagoniste c’è anche Lucia, ragazza spezzina del 1983, che racconta i suoi quasi inutili tre stage. Gli stage sono introdotti in Italia da un decreto del 1998, che attua il “pacchetto Treu” del 1997: l’unico obbligo che impone alle aziende è di pagare l’assicurazione Inail e di mettere a disposizione un tutor. Non prevede la retribuzione né il rimborso spese, che sono lasciati alla discrezionalità di ogni azienda, non fissa limiti di età, ammette troppe possibilità di proroghe e non prevede sanzioni per il datore di lavoro che trasgredisce. In molti Paesi la norma impone un salario minimo, o comunque gli stage non sono previsti fuori dal percorso formativo. Da noi, invece, si inizia spesso alla fine degli studi e si può restare stagisti fino a quarant’anni. In alcuni uffici gli stagisti sono il doppio o il triplo del consentito, gli stage sono prorogati due o tre volte, si gioca impunemente con i limiti di durata: tanto non c’è controllo. Più della metà degli stagisti non vede mai un euro, nemmeno di rimborso spese; solo un 30% prende meno di 500 euro netti. Solo il 9,4% viene assunto alla fine: ma sono dati del 2008, antecedenti alla “grande crisi”. Voltolina distingue tra stage “fisiologici“ e “patologici”: i primi sono quelli utili, fatti durante l’Università, per un primo contatto, non più di sei mesi, con il mondo del lavoro; i secondi sono quelli inutili, in cui le aziende prendono un giovane dietro l’altro, anche oltre i sei mesi, perché hanno bisogno di manovalanza, senza alcuna intenzione di formare o di assumere. Se non si interviene, spiega l’autrice, la scelta di molti giovani è la fuga verso Paesi con normative e contratti più dignitosi: sono almeno 30.000 l’anno i ragazzi che volgono le spalle all’Italia. Compresa Lucia, che oggi lavora in Irlanda.
Il fenomeno stage era al centro delle manifestazioni dei giovani precari tenutesi sabato in molte città. “Stanchi di aspettare, la vita è ora”, questo il loro messaggio. Davvero non siamo un Paese per giovani. I tassi di disoccupazione giovanile sono tra i più alti d’Europa, nonostante i salari d’ingresso tra i più bassi e una flessibilità del lavoro, come nel caso dell’uso patologico degli stage, tutta a carico dei giovani. E non stupisce il nostro primato della più alta percentuale europea di giovani, in maggioranza ragazze, che né studiano né lavorano: è la scelta, drammatica, di  chi “sente di aver perso il futuro”, come dice Edgar Morin.
Poco o nulla si fa per i giovani perché, si dice, con il debito pubblico elevato, mancano le risorse. Perché non ricercarle aumentando le tasse a quel 10% che ha continuato ad arricchirsi in questi anni da solo possiede il 45% della ricchezza nazionale?

lontanoevicino@gmail.com

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