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12 Dicembre 2024 – 21:18

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Commemorazione di Vegliante Torri “Ivan”, Villa di Panicale 26 gennaio 2024 – Intervento di Giorgio Pagano

a cura di in data 25 Agosto 2024 – 07:02

Commemorazione di Vegliante Torri “Ivan”
26 gennaio 2024, Villa di Panicale
Intervento di Giorgio Pagano

Vegliante Torri nacque a Miscoso di Ramiseto il 16 dicembre 1921.
Il padre, nativo di Succiso, morì prematuramente.
La madre, Antonia Dolci, si trasferì, vedova, alla Spezia per lavorare in uno stabilimento militare. Era il 1937.
Vegliante visse alla Spezia.
Dopo l’8 settembre lo stabilimento fu trasferito a Ponterotto.
Vegliante e la madre andarono a vivere a Monti di Licciana.
Lui faceva il fattorino e l’impiegato.
Era stato esonerato perché figlio di madre vedova.
Dopo l’8 settembre aderì alla Resistenza.
I primi contatti li ebbe, tra gli altri, con Edoardo Bassignani “Ebio”, il principale organizzatore della Resistenza partigiana su questi monti.
In contatto con il CLN e il PCI spezzino “Ebio” fece salire ai monti giovani spezzini, sarzanesi, lericini, nonché russi che ospitava: furono le vittime del primo eccidio partigiano in queste zone il 14 marzo 1944 sul monte Barca. Gli altri furono uccisi a Valmozzola il 17 marzo.
“Ebio” organizzò poi la salita ai monti di tanti giovani del Liccianese e del Bagnonese.
Tra loro c’era Vegliante.
Era esonerato.
Non era un militare sbandato. Non era un renitente alla leva.
La sua fu dunque una scelta del tutto libera, esistenziale e poi sempre più politica: per la libertà e per l’uguaglianza.
Victor sul “Tribuno del popolo” del 30 gennaio 1946 riportò le sue parole:
“L’egoismo deve essere distrutto, per il bene della comunità”.
Nello Quartieri “Italiano” fece scrivere nel cippo:
“Vi lascio i sogni della mia giovinezza, la meravigliosa illusione di un mondo di uomini liberi e uguali”.
Vegliante è un simbolo del comunismo fraterno della civiltà contadina: pensiamo al rito della comunione del cibo nelle bande.
Giovane valoroso e coraggioso, Vegliante – nome di battaglia “Ivan” – divenne comandante di un distaccamento della Brigata Borrini, il Distaccamento Giannotti.
La Brigata era erede della 37b, sorta dopo l’eccidio del monte Barca, sgominata nel terribile rastrellamento in Lunigiana del 30 giugno 1944 e dei giorni successivi. I comandanti della 37b furono prima Ernesto Parducci “Giovanni”, l’unico sopravvissuto sul monte Barca, poi Piero Galantini “Federico”, entrambi sarzanesi.
Ricordiamo le vittime del rastrellamento del luglio 1944, in particolare Adelmo Bottero e il suo calvario: ferito e catturato, fu torturato, legato alla ringhiera della chiesa del paese di Lusana, fucilato il 4 luglio e lasciato esposto per alcuni giorni. La popolazione fu costretta ad assistere al massacro. Bottero, prima di morire, gridò “Viva l’Italia”. Era un geometra di Villafranca Lunigiana, studente di Ingegneria, cattolico. Gli sarà intitolato uno dei distaccamenti della Brigata Muccini, che opererà in Val di Magra,
Dopo luglio ci fu un lento ricomporsi. La Borrini nacque ad agosto.
Ruffo Logli fu nominato comandante della Brigata, era stato partigiano con Bottero nella 37b. Commissario politico fu Bassignani. Ma le funzioni reali di commissario erano svolte da Giulio Pelliccia.
La Borrini fu attiva: ricordiamo l’attacco alla caserma di Virgoletta e altre azioni, fino al dicembre ‘44.
Logli tenne i collegamenti con la 1a Divisione Liguria e incontrò il suo comandante Fontana. La Brigata fu presente al convegno dei comandanti e dei commissari della 1a Divisione Liguria (17 novembre 1944, Sesta Godano) e fece parte della IV Zona operativa, fino al marzo 1945.
La Borrini si giovò dell’inserimento di elementi provenienti da altre formazioni: Pierino Razzoli e Gerolamo Balestracci dal Picelli, Settimio Simonini dalla Vanni e Costantino Cirelli dalla Muccini.
Ci furono una sua riorganizzazione e un suo potenziamento.
Due azioni nel gennaio 1945 ridiedero entusiasmo.
Ma il 26 gennaio 1945 fu un giorno tragico per la Borrini.
I documenti della Brigata – con tutti i nomi – vennero asportati dal cimitero di Collesino. “Ebio” riuscì a evitare la catastrofe.
Fu il giorno della morte di Vegliante Torri “Ivan”, a Villa di Panicale.
Il contesto è il rastrellamento del 20-28 gennaio contro la IV Zona operativa: 25 mila nazisti e fascisti contro 2500 partigiani, che risposero con uno sganciamento vittorioso. Ma con tanti morti, tra cui Vegliante. La zona della Borrini fu investita dal rastrellamento in modo marginale, ma tragico.
Tre partigiani del Distaccamento vennero sorpresi da un gruppo di bersaglieri della Divisione Italia. Aristide Batti e Bruno Riboldi riuscirono a fuggire. “Ivan” venne ferito e catturato. Non parlò, fu ucciso in modo barbaro, con una coltellata alla gola.
Il giorno stesso Mussolini ispezionò i reparti della Divisione Italia tra Pontremoli e Aulla e sostò a Mocrone.
I bersaglieri della Divisione Italia saranno gli assassini, qualche giorno dopo, di “Ebio” a Merizzo.
A gennaio Logli passò il fronte. Ai primi di febbraio il comandante militare sarà Francesco Isola “Tino”, commissario Giovanni Giampietri “Primo”. “Ebio” il responsabile politico di zona, ucciso pochi giorni dopo.
Riconosciamo oggi, ricordando “Ivan”, il grande ruolo della Borrini, fino alla battaglia di Licciana del 23 aprile.
Da fine marzo la Brigata era sotto il Comando Parmense.
I documenti degli Alleati sono una fonte preziosa. Se leggiamo i messaggi delle missioni della Special Force inglese sulle azioni del 1945, vediamo il nome Brigata Borrini nominato spessissimo per le azioni compiute. Come è noto agli inglesi i comunisti non erano molto simpatici, ma la Borrini – formazione prettamente comunista – seppe farsi così onore che anche gli inglesi lo riconobbero.
Un libro importante – un “romanzo storico” – sulla Resistenza su questi monti è “La collina rossa” di Riccardo Vinciguerra.
Enio, il protagonista, dice a Riccardo:

A volte penso se vale proprio la pena di fare tutti questi sacrifici, poi morire e rimanere dimenticati per sempre da tutti e forse seppelliti in qualche angolo degli appennini senza nome e senza una croce che ci circondi”.

Il testo del 1998, probabilmente di “Italiano”, recita:
Il cuore di Ivan cessa di battere ed egli sarà consacrato al durevole ricordo della gente”.
Sta a noi far sì che il ricordo sia durevole, che i partigiani non restino dimenticati.
A loro dobbiamo la libertà, e il bene più prezioso che abbiamo: la Costituzione.
Il testo di “Italiano” da lui letto a Villa di Panicale nel 1998 è molto bello. Vi ripropongo le considerazioni finali:

Abbiamo ripetuto più volte che le morti sono eguali e degne di rimpianto e rispetto. Ma è anche vero che non sono eguali le ragioni della loro morte e che una morte non può far diventare giusta una causa sbagliata.
Perché, amici partigiani, vi è un passato nel quale si può costruire l’avvenire e vi è invece un trascorso di oltre venti anni che deve essere un monito continuo perché nessun accostamento giustificativo a quegli orrori di una notte ventennale può essere consentito.
Occorrono molto di più che alcune dichiarazioni, che incontri a due, anche se di autorevoli parlamentari, forse suggeriti da contingenti circostanze politiche, per colmare un divario di cultura che fu per i fascisti quello dell’annientamento dell’avversario, dei campi di sterminio, delle camere a gas.
Gente di Licciana e della Lunigiana, non sono concepibili scambi di valori o di riconoscimenti tra le due parti, poiché lo scontro fu di civiltà, fu e rimane quello della concezione del vivere.
Non si può piegare la Storia a povere convenienze e a sottintesi politici.
Cittadini, perché non ricordare che fu il fascismo che distrusse il sistema politico parlamentare del nostro Paese, che devastò le sedi delle Camere del Lavoro e le redazioni dei giornali democratici, che assassinò i rappresentanti delle leghe contadine, che soppresse il deputato Giacomo Matteotti e uccise Gramsci e don Minzoni, e Gobetti, i fratelli Rosselli, Amendola e tanti altri ancora?
Fu il fascismo che volle annientare il sistema democratico che tutti i totalitarismi hanno in odio e disprezzo.
E’ da lì, signor Sindaco, che bisogna ripartire, a mio parere e non solo a mio parere, per rientrare nel solco maestro del diritto, della civiltà, della vita.
Per noi partigiani è altresì chiaro che ogni avvicinamento alla democrazia sarà il benvenuto, a riprova che la forza delle libere idee e dei liberi convincimenti prima o poi hanno la meglio sui misfatti delle dittature.
Epperciò non servono scorciatoie, né artifici, né compromessi per l’approdo pieno e sincero, senza ambiguità e riserve mentali, alla democrazia, che sarà tanto più vigorosa quanto più combatterà le violazioni di ogni fondamento della vita civile, denuncerà i vizi corruttori e non indulgerà ai propri peccati, e saprà invece proporre, con felice intuizione, i grandi cambiamenti e le grandi trasformazioni sociali.
Cittadini, amici partigiani, ditemi voi come è pensabile una qualche affinità con gli uomini di Salò e i loro eredi, con questo insieme di figure senza onore, addestrati e usati per rappresaglie, stragi, spesso vili e servili accompagnatori di quell’interminabile corteo funebre di infelici nei campi di tortura e di sterminio?
No! Non fu così per il movimento partigiano in generale. La linea di demarcazione passò anche ai monti, fu tale che di fronte agli eccidi di Forno, Valmozzola, Vinca, Sant’Anna, San Terenzo, Ponticello di Filattiera, alle distruzioni nello Zerasco, respingemmo la tentazione di legittimare rappresaglie altrettanto crudeli nei confronti dei nostri nemici.
A costo di parere presuntuosi, possiamo dire a testa alta che la Resistenza fu un’etica, un costume di vita e di comportamento che costituisce un patrimonio prezioso perché seppe volere e conquistare la scelta del bene e il rifiuto del male.
Vale per tutti che la democrazia è una lunga virtuosa pratica quotidiana, che a questa norma di civiltà debbono inchinarsi anche coloro, cari amici, che in questo mezzo secolo ne hanno beneficiato e goduto e tuttavia l’hanno aspramente insidiata e minacciata
”.

Meglio non si potrebbe dire.
La dimensione morale è la radice della Resistenza e della Costituzione. Ed è la radice che si vuole estirpare.
Questo è il motivo che rende importanti il ricordo, la memoria, la conoscenza della storia.
L’offensiva revisionista in corso dagli anni Ottanta, spinta dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza e dell’antifascismo, ha raccolto ben più di un successo, dopo quel 1998. Sta avendo un’accelerazione in questi mesi.
Stiamo assistendo a una deriva sempre più preoccupante di una destra estrema che sempre più apertamente si richiama al fascismo e che vuole fare tabula rasa della cultura popolare e istituzionale antifascista di cinquant’anni di repubblica.
Il problema vero, ha scritto la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”.
Se così è, serve tornare testardamente a raccontare la storia e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato. Conoscere, rivendicare ogni azione partigiana, come abbiamo fatto oggi.
Serve anche tornare testardamente a raccontare che cosa fu il fascismo: il fulcro di questo racconto è la violenza.
Se raccontiamo questa storia, queste storie, ci accorgiamo sì della portata del revisionismo, ma anche delle ragioni della Resistenza. E dei risultati nonostante tutto raggiunti, grazie a queste ragioni, dalla Resistenza: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro. Delle ragioni di quel miracolo lontano ci resta la speranza della partecipazione, la voglia di prendere in mano la nostra vita.
L’antifascismo è dunque una cultura “fondante”, che serve nel mutare dei tempi.
Leggiamo le parole profetiche dello storico Sergio Luzzatto in “La crisi dell’antifascismo” (2004):

In un giorno non lontano, fuori d’Italia e forse anche dentro il nemico avrà un altro nome e un altro volto. Probabilmente quel nuovo ‘ismo’ ancora da battezzare sarà una miscela di rigurgito patriottico e di anelito mistico, di religione del mercato e di ideologia dello scontro tra civiltà: sarà un ‘totalitarismo democratico’ che pretenderà di far coincidere la globalizzazione economica con l’occidentalizzazione politica e culturale del pianeta, una guerra dopo l’altra, sempre più restringendo e privatizzando le libertà civili. Entro un simile scenario, e mentre la fragilità della democrazia appare evidente persino tra le mura del tempio americano, come non riconoscere che quanto noi italiani intendiamo per antifascismo minaccia di riuscire un patrimonio di cose non solo desuete, ma anche periferiche, marginali?
Insomma, può ben darsi che l’antifascismo giaccia oggi sul suo letto di morte: malato terminale di ritualità, di credibilità, di senilità, e addirittura di eccentricità. Ma può essere che valga la pena di impegnarsi a mantenerlo in vita ancora un po’ -almeno finché non si sia trovato di meglio- senza meritare con questo una denuncia per accanimento terapeutico. E forse il tentativo è tanto più opportuno o addirittura necessario nel contesto della vita politica italiana, dove la morte dell’antifascismo rischia di significare non già una rinascita, ma l’agonia della democrazia
”.

E’ così: non c’è democrazia senza antifascismo. Non è vero che l’antifascismo è giunto al tramonto. E’ più attuale che mai, contro quei nuovi “ismi” che prevedeva Luzzatto: sovranismo cioè nazionalismo aggressivo ed escludente. Presente in tutti i Paesi, declinato in tanti sotto “ismi” diversi.
Ancora la Patria. Ancora la Nazione, la Tradizione…
Oggi i leader di questi “ismi” dicono “Prima gli italiani”.
Ma quando gli stranieri erano gli occupanti tedeschi i loro vassalli fascisti li affiancavano – e molto volentieri – nelle stragi dei civili (italiani), nelle cacce all’uomo e nelle deportazioni degli oppositori politici (prevalentemente italiani) ed ebrei (prevalentemente italiani). Come fecero quei bersaglieri della Divisione Italia il 26 gennaio 1945 a Villa di Panicale.
C’è un “fascismo eterno”.
Ha scritto Umberto Eco (1995): “Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia”.
Caratteristiche tipiche del “fascismo eterno”, secondo Eco, sono il culto della tradizione, il culto dell’azione per l’azione e il sospetto verso il mondo intellettuale, la paura della differenza e il razzismo, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto e la xenofobia, la concezione della vita come una guerra permanente, l’elitismo e il disprezzo per i deboli, il culto della morte, il machismo, il populismo e il disprezzo per il Parlamento (la riforma costituzionale che la maggioranza sta per varare, basata sulla filosofia dell’uomo solo al comando, che cos’è se non un attacco al Parlamento?).
E c’è un “antifascismo eterno”.
Ha scritto Giovanni De Luna (1995):

Ci si può riferire all’antifascismo come a una forma particolare della concezione della politica totalmente svincolata dal canonico ambito cronologico del ventennio fascista e definita attraverso elementi che appartengono drammaticamente alla realtà del nostro tempo: la tolleranza, la libertà, i diritti degli uomini, l’uguaglianza, la giustizia, il rispetto delle regole e della convivenza civile”.

Dobbiamo aggiungere: la pace, una rinnovata coesistenza pacifica.
La pace era il vero valore, e il vero obiettivo, di chi combatté la guerra di Liberazione. La guerra di Liberazione voleva la fine della guerra, la fine di tutte le guerre, la condanna della guerra, come male non riparabile. E la ricerca della pace, come principio di civiltà contrapposto alla barbarie di ogni ideologia della morte. Di cui il fascismo era – e portava sulle proprie divise – l’emblema.
Non a caso l’art. 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. “Ripudiare” vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento. Il carattere micidiale assunto dalla guerra fu cioè compreso dai resistenti, che pure avevano vinto anche con le armi, quando divennero costituenti. Ne “La Collina rossa” “Ebio” dice: “Questo è il mondo in cui viviamo oggi, in armi per un domani di pace”.
Rafforziamo, allora, l’unità di tutte le forze di pace del nostro Paese e il dialogo tra tutte le forze antifasciste per ricercare, in Ucraina, in Israele e in Palestina e dovunque nel mondo c’è la guerra, la via del negoziato. Cessate il fuoco, negoziate! Basta uccidere!
Ma l’antifascismo è sempre stato anche un fatto sociale, è sempre stato legato anche alla giustizia sociale. L’antifascismo vive se parla anche dell’oggi. Se parla ai lavoratori, ai ceti più poveri.
In un’Italia in cui ci sono quattro morti sul lavoro al giorno, in un’Italia che è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti negli ultimi trent’anni, in un’Italia in cui la pandemia ha aggravato e complicato la mappa delle diseguaglianze e della povertà, possiamo, dobbiamo, ancorarci al vero tratto distintivo della Resistenza italiana ed europea, e in particolare a quel progetto di futuro che è la nostra Costituzione.
Leggiamo l’articolo 36:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

O, ancora, l’articolo 41:

L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Ecco qual è il problema della politica: tornare a questa lezione, a questo progetto per il futuro. Perché è solo sulla strada segnata dalla Costituzione nata dalla Resistenza che è possibile costruire un’altra Italia, migliore e più giusta. La Costituzione è davvero la via maestra!
Ognuno ha il diritto di condividere la propria memoria. Ma le istituzioni democratiche possono stare da una parte sola, contro l’altra parte. Dalla parte dell’umanità, della libertà, della giustizia. I “ragazzi di Salò”, alleati dei nazisti, non esprimevano alcun valore, se non quello della violenza e della morte.
Ricordiamo, nell’Ottantesimo, ogni caduto. Dobbiamo farlo perché la Resistenza, quell’esperienza nata quasi ottant’anni fa, difficile, fragile, romantica, coraggiosa, nonostante tutto è lì, e riemerge come un appiglio. E’ la cosa migliore che abbiamo avuto, e che abbiamo.
Viva la Resistenza antifascista!

Giorgio Pagano

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