Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Venerdì 2 Agosto ore 21.15 al Centro Sociale Polis di Ceparana
23 Luglio 2024 – 21:36

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 2 agosto ore 21.15
Centro Sociale Polis di Ceparana
Il libro di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro …

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Riflessioni su Rosaia e sulla prossima democrazia

a cura di in data 19 Maggio 2019 – 15:07
Teatro Civico, rilievo di Augusto Magli (foto Enrico Amici) (2008)

Teatro Civico, rilievo di Augusto Magli
(foto Enrico Amici) (2008)

Città della Spezia, 12 maggio 2019 – Sulla stampa locale si è sviluppata una polemica attorno alla figura di Lucio Rosaia, Sindaco della città dal 1993 al 1997. Protagonisti Massimo Federici, autore di un articolo su “La Nazione”, e Luca Basile, che gli ha replicato su “Il Secolo XIX”. La riflessione sul passato è, come sempre, una lente sul futuro. Comprendere il “fenomeno Rosaia” e le sue origini è quindi di una qualche utilità per guardare avanti e per cercare di aprire strade nuove alla politica spezzina. Per cercare di capire come sarà la prossima democrazia.
Federici tratteggia la crisi della città nei primi anni Novanta e scrive: “Occorreva prendere fiato, occorreva un Sindaco di transizione”. No, Rosaia non fu scelto per prendere fiato, e non fu un Sindaco di transizione. Occorreva in realtà cominciare una nuova corsa, una nuova fase, e occorreva un Sindaco di svolta, che simboleggiasse la nuova fase. Rosaia fu scelto per dar vita a una svolta, e fu Sindaco di questa svolta.
La verità è che nel 1992-1993 finiva una storia. Si esauriva una fase politica, quella delle vecchie Giunte di sinistra basate sull’alleanza tra Pci e Psi. E si esauriva una fase del modello di sviluppo, quella imperniata sulle Partecipazioni Statali e sulla monocultura armiera. Servivano nuovi partiti, nuove alleanze, nuove idee per lo sviluppo. Federici scrive che io, allora Segretario provinciale del Pds, il principale partito della sinistra, fui “abile nel tessere la tela”. Ma non fu abilità tattica: il punto era elaborare una nuova strategia, alzare lo sguardo, costruire uno scenario inedito, ripensare l’idea di città. Basile sente in quella scelta il “sapore laico-azionista”, elitario e lontano dal popolo. Fu invece una scelta capace di trarre linfa vitale dalla società. Si stava trasformando il popolo della sinistra, la sua radice sociale. Fino a pochi anni prima quasi ogni mattina noi dirigenti del Pci andavamo davanti alle fabbriche e facevamo una cosa che nel frattempo diventò impossibile: in pochi minuti distribuivamo 20.000 volantini. Quando ci accorgemmo che, con la deindustrializzazione, il mondo operaio si restringeva, non lo abbandonammo e però sapemmo collegarci a nuovi strati sociali. E per molti anni continuammo ad avere gli stessi voti del Pci, nonostante fossero venute meno sia l’ideologia che le basi sociali del Pci. Facemmo ovviamente errori: ma quella giovane classe dirigente -diventai Segretario provinciale a 36 anni- che sostituì in un arco di tempo brevissimo quella “storica”, basata sulla diarchia tra due personalità di così grande rilievo come Flavio Bertone e Aldo Giacché, qualche merito lo ebbe. Innanzitutto quello di individuare un nuovo “disegno di insieme”, una “visione” e un “orizzonte” per la città: ancora l’industria, ma tecnologicamente innovata; il mare, cioè porto e turismo compatibili tra loro e finalmente centrali; la cultura e il sapere, dai musei all’università, come nuovi motori.

LA PROVA PIU’ ARDUA
Così racconto quella fase nel mio libro “La sinistra la capra e il violino” (2010): “Avrei potuto facilmente diventare Sindaco nella fase terminale delle vecchie Giunte di sinistra: bastava chiedere i voti e fare qualche promessa a qualche consigliere… La maggioranza dei consiglieri non voleva, infatti, le elezioni anticipate. Ma ritenni giusto porre fine a un’esperienza che non aveva più nulla da dare, e aprire una fase nuova, usando subito la nuova legge sull’elezione diretta del Sindaco. Con nuovi alleati e nuove idee, nuovi programmi. Anche in quel caso feci la mia scelta, nonostante molti miei collaboratori spingessero perché accettassi. Così come ritengo di aver fatto bene, subito dopo, a non candidarmi nell’elezione diretta, ma a proporre un candidato della società civile, il medico Lucio Rosaia: la svolta sarebbe stata ancora più netta, e così fu. Io diventai il suo più stretto collaboratore. Ho un ricordo molto bello, di una squadra. Il mio rapporto con Rosaia, una persona molto più anziana, che prima non conoscevo, e pure un po’ diffidente verso i ‘comunisti’, fu di un’intensità umana e politica superiore a quella di ogni altro mio rapporto con i politici. E’ la prova che la mia non è ‘nostalgia del Pci’, ma di una politica ‘alta’, con persone che hanno degli ideali. E’ questa la mia ricerca”. Aggiungo che vincemmo al secondo turno, e che mi giocai tutto: se avessimo perso mi sarei dimesso da Segretario e da ogni incarico di partito. Avrei cambiato vita e sarei rimasto un semplice militante: come sarebbe stato giusto. Per me fu una prova molto ardua, la più ardua, anche se entusiasmante. Fare il Sindaco è stata senz’altro l’esperienza politica più bella della mia vita. Però quell’inizio degli anni Novanta fu la fase più dura e sofferta. Perché è lì che si costruì la svolta.

Museo Lia (foto Enrico Amici) (2007)

Museo Lia
(foto Enrico Amici) (2007)

AUTONOMIA DA CHE COSA?
Luca Basile scrive che con Lucio Rosaia prevalsero la “logica dell’autonomia degli eletti dalle forme di partecipazione politica” e una concezione da “ottimati”. Ma non fu così. Rosaia era per l’autonomia delle istituzioni, pur nel dialogo costante con le forze politiche e sociali, perché era convinto che chi ha responsabilità di governo deve rispondere, prima di tutto, alla città. I partiti e le associazioni sono una parte, la città è il tutto, e il governo appartiene al tutto, non a una parte. Rosaia non fu contro la partecipazione che c’era prima di lui: perché la partecipazione proprio non c’era. La partecipazione c’era stata nella fase “alta” delle Giunte di sinistra. Ma negli anni della loro crisi fu sostituita dalla consociazione degli interessi e dal corporativismo dei gruppi di pressione. Rosaia fu autonomo dalle relazioni di potere del consociativismo, non dalla partecipazione. Io fui il suo principale collaboratore: come assessore alla qualificazione del sistema urbano contrassegnai il mio operato all’insegna della partecipazione popolare. Per anni ho passato pomeriggi e sere in ogni angolo di ogni quartiere. E Rosaia certo non vedeva con fastidio questa mia “attitudine”, anzi. Così come concordò con me che non bisognava incorrere in quell’errore che ingiustamente Basile gli attribuisce: “una gerarchia dei problemi locali in cui l’apertura di un museo faceva premio sui bisogni della periferia”. Lo capì a tal punto che, con l’aiuto di Roberto Quber, allora Assessore al Bilancio, riuscimmo ad investire, complessivamente, più per gli investimenti nelle opere dei quartieri che in quelli per i musei. Aggiungo che, se mi indicò da subito come suo “successore”, vuol dire che non era proprio ai miei antipodi. Non aveva la mia cultura politica, ma non ne era un avversario. Non avrebbe mai costruito piazza Verdi così. Né pronunciò mai o avrebbe mai potuto pronunciare la frase rivolta da Federici a una signora con opinioni diverse dalle sue (contro cui giustamente Basile polemizzò da Assessore): “Signora, quando farà il Sindaco faremo come vuole lei”.
Ancora: certamente Rosaia fu un “borghese onesto”, come dice Basile. Ma aveva un istinto di classe dalla parte dei più deboli che il Pd non ha mai minimamente avuto. Basta leggere il suo celebre libro “Anonima mutuati”, una critica spietata della sanità di classe:
“Come è noto, il Padreterno ha ritenuto che gli uomini dovessero essere tutti eguali davanti alla malattia e alla morte; e la Costituzione italiana del 1946, come tutti sanno, ha recepito il punto di vista del Padreterno. Nonostante questi autorevoli appoggi, l’idea di una ragionevole uniformità nel trattamento dei malati è però considerata sovversiva”.

NON ASSISTERE INERTI ALLA DECADENZA DELLA POLITICA
Il ripudio della partecipazione e l’abbandono delle periferie non risalgono dunque a Rosaia, ma nacquero dopo. Il punto ora è cosa fare, come non assistere inerti alla decadenza della politica. Non si tratta ovviamente di tornare a Rosaia, o a Pagano. Raccogliere la sfida significa puntare sulla democrazia deliberativa, restituendo ai cittadini una quota della loro sovranità. Se spetta alle istituzioni rappresentative la responsabilità di decidere in merito alla maggior parte delle questioni correnti, i cittadini debbono poter avere voce sulle questioni più significative. Così come raccogliere la sfida significa, di fronte alla povertà, lottare per una democrazia giusta, che combatta contro le diseguaglianze e redistribuisca la ricchezza. Rosaia, davanti a un povero, si chiedeva: “Quale contesto lo ha ridotto così?”. E’ ancora la reazione valida, anche se la soluzione del problema è in parte diversa rispetto ad allora. Ma oggi la prima reazione è: “Che cosa ha combinato per ridursi così?”. E’ un cambiamento di senso comune frutto del neoliberismo. C’entra il Pd, non Rosaia.

Post scriptum:
Nel 2010, decennale della scomparsa di Lucio Rosaia, l’Amministrazione Comunale fu scandalosamente silente. Spero che ciò non avverrà in occasione del ventennale.
Su Rosaia rimando a questi testi, leggibili entrambi su www.associazioneculturalemediterraneo.com:
La sinistra la capra e il violino – Conversazione con Daniela Brancati”, 2010
Rosaia a dieci anni dalla scomparsa”, “Il Secolo XIX”, 14 febbraio 2010

lucidellacitta2011@gmail.com

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