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L’orribile strage del 22 gennaio 1923

a cura di in data 22 Febbraio 2023 – 18:24

Cippo in ricordo di Amedeo Cevasco, Felettino
(2023) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 22 gennaio 2023

Gaetano Salvemini così raccontò, negli “Scritti sul fascismo”, i fatti accaduti alla Spezia cento anni fa:
“Nella notte del 21 gennaio 1923 un fascista, certo Lubrano, fu ucciso a La Spezia da certi fratelli fascisti […] A La Spezia, come a Torino, l’incidente diventò un pretesto per un’azione di violenza su larga scala allo scopo di terrorizzare la città”.
Giovanni Lubrano, guardiano della fabbrica Pertusola, era uno degli squadristi più feroci. Era stato attivo nelle spedizioni fasciste di Sarzana e della Serra del luglio 1921 e del febbraio 1922, e poi protagonista, nel maggio 1922, dell’aggressione ai funerali del ferroviere Attilio Stagno, con l’obiettivo di strappare il simbolo della bandiera rossa.
A ucciderlo furono i fratelli Giulio e Aldebrando Poggi di San Terenzo, aiutati da due complici. Aldebrando era un fondatore del Fascio di San Terenzo. Giulio era stato picchiato da Lubrano qualche giorno prima. I fascisti cercarono di far passare la tesi della rappresaglia: i comunisti si sarebbero infiltrati nel Fascio per compiere il delitto. Ma “La Stampa” del 27 gennaio scrisse quel che i giornali locali, in vario modo legati al fascismo, non ebbero il coraggio di scrivere:
“Non si può certo nascondere che profonda è l’impressione per quanto avrebbero stabilito […] il Comando dei carabinieri e l’autorità di P.S. nei riguardi dell’autore del triste misfatto: che cioè gli elementi sovversivi sarebbero completamente estranei all’episodio brigantesco”.
L’”Avanti!” del giorno dopo fu più esplicito ancora, titolando: “L’inchiesta fascista esclude le responsabilità dei sovversivi nell’uccisione di Lubrano”.
Ma il pretesto, per dirla con Salvemini, funzionò. La furia esplose nella notte tra il 21 e il 22 e nella giornata del 22, e proseguì nella notte successiva.
Sulla base della lettura dei giornali e delle testimonianze raccolte, si arriva a un numero molto alto di vittime: 19. I nominativi individuati – sia pure in qualche caso scritti in modo storpiato, in altri senza la coincidenza di tutte le fonti – sono ad oggi 12. In ordine alfabetico: Giovanni Bacigalupi, Serafino Bardi, Carlo Canali, Angelo Cestari, Amedeo Cevasco, Angelo Costi, Pietro Lelli, Arturo Micheli, Papiniano Papini, Fioravanti Paolo Raspolini, Angelo Scopsi, Armando Zilioli. Solo tre di loro hanno lapidi o cippi che li ricordano, costruiti dopo la Liberazione: Cevasco al Felettino (il cippo è attualmente ospitato nel “vecchio” cantiere del “nuovo” ospedale), Lelli a Rebocco, Raspolini al Guercio, tra Lerici e Arcola.
A volte i giornali scrissero, genericamente, di “cadaveri rinvenuti” senza poter dare ad essi un nome. Così “Il Secolo XIX” del 23 gennaio: “A San Terenzo in località Baracche è stato trovato il cadavere di un giovane non ancora identificato”. Certamente tra i 12 non c’è un morto a San Terenzo.
I fascisti avevano un piano, sapevano cioè chi cercare. Nella notte ci fu la prima reazione all’uccisione di Lubrano, ma la mobilitazione organizzata scattò la mattina del 22 gennaio, con la consegna delle armi agli squadristi chiamati nella sede cittadina del Fascio, al Teatro San Carlo in via Sapri. Nel pomeriggio le squadre armate partirono per compiere violenze mirate. Così l’”Avanti!”, in un’inchiesta in più puntate pubblicata nel luglio-agosto 1924, descrisse le ore dei preparativi:
“La rappresaglia feroce dunque che ne seguì assume chiaramente l’aspetto di un mostruoso delitto, pensato, organizzato e preparato da tempo e da attuarsi alla prima occasione. La narrazione pura e semplice dei fatti nel loro sviluppo offre la più precisa conferma di tale cinica premeditazione. […]
Ci riferiscono che in quel breve tratto di via [corso Cavour] sembrava si fosse trasferito il Quartiere generale di qualche grossa unità in zona di guerra, tanto febbrili ed accurati apparivano i preparativi dell’azione guerresca, tanto era intenso il traffico dovuto all’armamento delle squadre, all’andirivieni dei ciclisti e portaordini, all’arrivo ed alla partenza dei nuclei convenuti per la mobilitazione. Di tutti questi preparativi, che nella popolazione, già trepidante e commossa, gettavano un senso di grave apprensione, di sgomento, di questa infame preparazione al delitto più nefando che abbia mai macchiato questa graziosa cittadina, le autorità finsero candidamente di non accorgersi, e, per essere più certe di nulla aver veduto, mentre da sei o sette ore si organizzava il delitto, disponevano perché la forza pubblica venisse completamente ritirata e né un agente né un carabiniere rimanesse in circolazione. […]”.
[Le] vittime erano state precedentemente scelte e predestinate al sacrificio e […] le azioni vennero guidate e dirette da elementi dirigenti lo squadrismo”.
L’ammissione dell’ampiezza della rappresaglia venne dagli stessi fascisti. Il 26 gennaio fu pubblicato un comunicato in cui il capo degli squadristi spezzini, Guido Bosero, affermava:
“Ordino tassativamente che nessun fascista si permetta di compiere azioni individuali o rappresaglie di qualsiasi specie. I trasgressori saranno da me puniti fascisticamente. I fascisti sono avvisati, sappiano regolarsi”.
L’ordine venne il giorno dopo dallo stesso Duce.
Ma c’erano già stati 19 morti, uccisi con una brutalità senza pari. In primo luogo proprio da Bosero stesso e dai suoi scherani.
L’articolo di oggi racconta quel che sappiamo delle vittime della strage.

GIOVANNI BACIGALUPI
L’”Avanti!” descrisse nei dettagli l’uccisione del carrettiere settantaseienne – per altre fonti settantenne – Giovanni Bacigalupi da parte di Bosero e di alcuni suoi fedeli, in una collinetta di Muggiano, sopra la fabbrica di Pertusola dove era morto Lubrano: forse perché portava il cognome compromettente del deputato socialista Angelo Bacigalupi, o più probabilmente perché amico del fascista uccisore di Lubrano. Scrisse il quotidiano socialista:
“Fu accertato che l’assassino [di Lubrano], che deve aver premeditato il delitto, fu visto parlare col Bacigalupi il giorno precedente all’assassinio. Molto probabilmente il vecchio carrettiere nulla sapeva, ma il solo sospetto nato nella mente di certuni dalla coscienza tutt’altro che tranquilla, bastò per fare apparire necessaria la sua soppressione.
Mentre la squadra comandata dal Bosero e dal La Barbera [comandante delle squadre di Pitelli e di Muggiano] si avvicinava alla casa, il povero carrettiere attendeva a prepararsi la sua frugale cena dopo la giornata di faticoso lavoro. Gli eroi vollero prima esperimentare in ‘corpore vili’ le armi che tutt’ora detengono per la sicurezza della patria; e tirato fuori dalla stalla il cavallo, unico patrimonio del disgraziato lavoratore, lo condussero presso un vicino fossato e lo abbatterono con una scarica di colpi. Il vecchio veniva quindi sospinto violentemente fuori dalla casa a calci e schiaffi e trascinato poco lontano, di dove, con la morte nel cuore, dovette assistere piangente alla fine della sua casa che, data alle fiamme, ardeva rapidamente. Il supplizio dell’infelice, privato di ogni suo bene, volgeva ormai al suo termine. Gettato bestialmente presso la carogna del suo cavallo, fedele compagno di lavoro, e che da povera ‘bestia’ lo aveva fraternamente aiutato a trascinare la stentata esistenza, i barbari, invitandolo a dare un ultimo sguardo alla bestia morente cinicamente gli comunicavano che egli avrebbe fatto tra poco la stessa fine. Ed infatti con una scarica di moschetti e rivoltelle abbattevano poco dopo quel vecchio innocente, facendone ruzzolare il misero corpo con alcuni calci nel vicino fossato”.

AMEDEO CEVASCO
Alcuni fascisti invasero al Felettino il circolo apolitico “Vittoria” e, dopo aver perquisito i presenti, se ne andarono prelevando due giovani operai comunisti Amedeo Cevasco e Enrico Delpino (secondo altri Del Pinto). Appena fuori del paese, in via Buonviaggio, i due tentarono la fuga: Delpino, sia pure ferito, riuscì a fuggire. Cevasco fu ucciso a colpi di rivoltella. Aveva 25 anni.
Il giornale filofascista “Il Tirreno” aggiunse, al fine di negare ogni responsabilità ai fascisti: “il fratello dell’ucciso ci ha assicurato che il suo congiunto era un ottimo lavoratore e che non apparteneva a nessun partito politico”. Il che era vero. Ma Cevasco fu ucciso perché comunista appartenente a una famiglia di comunisti. Gli altri due fratelli – Enrico e Silvio – erano senz’altro più impegnati politicamente di lui. Enrico, che ho conosciuto, raccontava le aggressioni fasciste che aveva subito ancor prima dell’uccisione di Amedeo.

Lapide in ricordo di Pietro Lelli, Rebocco (2023) (foto Giorgio Pagano)

PIETRO LELLI
Pietro Lelli faceva il facchino. Comunista, 26 anni, aveva una gigantesca forza fisica. Il 12 gennaio 1923 “Il Secolo XIX” scrisse che era stato trasportato in ospedale dopo essere stato accoltellato da sconosciuti al porto mercantile, dove lavorava. Antonio Bianchi, nel libro “Storia del movimento operaio di La Spezia e Lunigiana”, ha scritto:
“[…] Lelli saliva sul treno per Genova, ma alla curva del Rebocco, appena fuori della stazione, mentre il treno stava ancora prendendo velocità, notati dal finestrino un gruppo di squadristi che aggredivano un suo compagno, si gettava giù dal treno e da solo piombava sui fascisti; ma, mentre il compagno riusciva a salvarsi, fuggendo, Lelli veniva colpito a colpi di pistola”.

ARMANDO ZILIOLI
Una puntata dell’inchiesta dell’”Avanti!” fu dedicata al massacro di Zilioli”. Armando Zilioli, pittore trentenne, anarchico, ammalato di asma bronchiale, fu prelevato dalla sua casa nel quartiere del Poggio, “addossato al muro ed ucciso”:
“Un certo Olivieri ed il figlio di un noto commerciante di vini, tale Aragò [Guido Salomé, figlio della Ragò, che gestiva un’osteria nella vicina via Colombo], vecchi conoscenti del Zilioli e che gli si professavano amici, vollero anche essi completare la parte del Giuda assicurando la madre che al figlio non sarebbe stato torto un capello, giacché trattavasi di dare soItanto qualche schiarimento.
Le ultime resistenze della povera donna vennero cosi vinte un poco per amore, ed un poco per forza: ed il corteo funebre usci dalla casa, mentre l’eroico compagno che non si era fatta illusione sulla sua sorte, aveva ancora la forza di sussurrare alla madre una serena parola di conforto e d’incoraggiamento. ‘Stai tranquilla — le diceva — vedrai, tornerò; è nulla: non possono far del male a me’.
Impossibilitato persino a camminare per l’estrema debolezza conseguente alla grave malattia, l’infelice, sorretto dai suoi carnefici non fu portato neppure molto lontano. Discesa la breve scaletta del Poggio, venne addossato al muro di una casa vicina ed una scarica di rivoltelle e di moschetti troncò d’un tratto la esistenza tormentosa di un magnifico idealista, noto in tutta Spezia per la sua immensa bontà”.

Lapide in ricordo di Fioravanti Paolo Raspolini, Guercio di Lerici
(2023) (foto Giorgio Pagano)

FIORAVANTI PAOLO RASPOLINI
L’”Avanti!” scrisse che “altri numerosi cadaveri venivano rintracciati nei giorni successivi nel fiume Magra e presso Sarzana e Romito, dove la furia omicida ebbe a sferzarsi con particolare ferocia, in vendetta forse della tenace ed epica resistenza di queste popolazioni, agli assalti delle colonna dei vari Castellani, Dumini, Terzi e Bosero, che vi convergevano da Carrara e da Spezia”. Tra questi cadaveri vi era quello di Fioravanti Paolo Raspolini detto Dante, trentottenne nato a Romito Magra e residente al Guercio di Lerici, zio di Stefano Gabriele Paita, il giovane comunista ucciso nel corso della spedizione squadrista alla Serra del febbraio 1922. Così Alberto Incoronato, nel libro “Sotto la lapide dei Barbantan”, ha raccontato la sua morte:
“Dante venne malmenato e legato per i piedi con un cavo d’acciaio ad un’auto di proprietà dell’industriale De Biasi che abitava al Guercio, località sotto Pugliola, e che lì aveva una fornace per la calce dove lavorava come fuochista proprio Silvio Carro [un fascista di Pugliola], e a comandare la squadra c’era proprio il figlio Francesco detto ‘Fernando’, Ras di Pugliola. La squadra era composta da gente della zona fra i quali oltre al Carro, Cesare Lupi, Valentino Novelli, Bellucci di Arcola, Rovagna di Pugliola e Pugnatin [Umberto Cresci]; e da gente che veniva da fuori come Froselli Gino di Piombino.
Dante fu trascinato fino alla Ripa, fra Fornola e Bottagna, sotto Vezzano, sul greto del fiume, dove, già duramente provato, venne finito con due colpi di pistola, uno alla tempia ed uno al cuore, così, per essere sicuri di ucciderlo, e poi svariati colpi di coltello sia dati di punta che di taglio. […]
Qualcuno dice che come estrema umiliazione in bocca gli avevano messi i propri genitali”.
Dante non era un militante impegnato, era semmai un “anarchico individualista”. Un minatore, un bracciante, un ribelle, spesso violento. Ma non, per quanto ne sappiamo, un militante. Forse il suo assassinio, e lo scempio del suo corpo, erano in qualche modo legati ai fatti della Serra?

LE ALTRE VITTIME
Serafino Bardi, trentenne, piccolo industriale, fu colpito da una pugnalata ai polmoni. Carlo Canali era un manovale di Fabiano, ucciso a Pegazzano mentre stava rientrando a casa. Angelo Cestari, calzolaio di 41 anni, era un anarchico della Chiappa, ucciso in via Genova. Angelo Costi fu trovato cadavere in Valdurasca. Arturo Micheli era un operaio dell’Arsenale, che era stato candidato nelle elezioni politiche del 1921. Papiniano Papini, cinquantenne, anche lui operaio dell’Arsenale e comunista, abitante in via Napoli, fu ucciso da un colpo di rivoltella alla testa. Angelo Scopsi era un barrocciaio della Pianta, il suo corpo fu trovato sul greto del Magra.

LA POLITICA FASCISTA DEL “DOPPIO BINARIO”
Nominato Presidente del Consiglio dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Benito Mussolini adoperò l’abile strategia del “doppio binario”. Da un lato ordinò la smobilitazione delle squadre fasciste, predicando la normalizzazione; dall’altro coprì sempre la violenza squadrista, che non cessò affatto nel 1923: fece oltre cento morti, tra cui i 19 spezzini. Condanna in pubblico e appoggio in privato, si potrebbe dire. Come fece nel suo piccolo il ras spezzino Bosero: assassino e mandante, al processo agli assassini di Zilioli negò in generale la rappresaglia e giurò su sua madre che i suoi scherani erano nella sede del Fascio quando fu compiuto il delitto. I liberali e i moderati si fecero come sempre irretire: si accorgeranno troppo tardi che le istituzioni liberali erano state ormai distrutte. Mentre l’opposizione veniva massacrata. Il primo articolo dell’inchiesta dell’”Avanti!” del 1924 cominciava non a caso così:
“Può darsi che altre città italiane siano state percosse da terrore pari a quello di Spezia, crediamo però che nessuna l’abbia superata. […] Occorreva […] piegare quella che era una delle città più rosse d’Italia: occorreva il terrore. E la reazione inferocì brutale, violenta”.

Post scriptum:
per gli approfondimenti sul periodo rimando ai saggi che ho pubblicato su “Patria Indipendente”: “Con gli Arditi del popolo dove il 1922 non piegò l’antifascismo” e “La marcia su Roma e le ultime ‘isole’ di resistenza”, pubblicati l’8 aprile e il 10 ottobre 2022; e all’articolo su questo giornale “Spezia nei giorni della marcia su Roma”, pubblicato il 18 e il 19 ottobre 2022.
Le tre fotografie di oggi sono dedicate ai martiri Amedeo Cevasco, Pietro Lelli e Fioravanti Paolo Raspolini.

lucidellacitta2011@gmail.com

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