Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Martedì 30 aprile aprile ore 17 a Tellaro, ex Oratorio ‘n Selàa
26 Aprile 2024 – 08:45

Presentazione di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiMartedì 30 aprile ore 17Tellaro – ex Oratorio ‘n Selàa.
All’incontro interverrà Giorgio Pagano, curatore dell’opera e autore di una postfazione e di …

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Dobbiamo scegliere che cosa conta e che cosa passa

a cura di in data 19 Aprile 2020 – 17:38
Sao Tomé, Parco d'Obò, la foresta primaria (2015) (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomé, Parco d Obò, la foresta primaria
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 12 aprile 2020 – Su “Città della Spezia”, nel mio diario da Sao Tomé e Principe, qualche anno fa ho raccontato la straordinaria bellezza della foresta primaria africana, il dramma della deforestazione, ed anche il mio incontro con i pipistrelli che abitano nella foresta (“La foresta tropicale, regno della biodiversità”, rubrica “Diario do centro do mundo”, 12 luglio 2015). Nella foto in alto vedete la foresta, in quella in basso la sua devastazione.
Questo sconvolgimento degli ecosistemi preesistenti si traduce in una perdita di natura che ha, tra le altre conseguenze, le pandemie. Il coronavirus nasce così: noi deforestiamo per dare vita ad attività produttive; strappiamo il territorio ai soggetti che sono i più grandi portatori di virus del pianeta, cioè i pipistrelli; questi finiscono “sotto stress” e sono portati ad essere aggressivi in un territorio che non è più il loro.

IL VERO ANTIVIRUS E’ LA CONSERVAZIONE DELLA NATURA
Il fenomeno è spiegato molto bene dagli scienziati. Leggiamo per esempio quanto scrive il geologo Mario Tozzi, volto noto della divulgazione scientifica:
“Quando tagli una foresta tropicale, sottrai habitat a pipistrelli ed altri animali che ospitano virus e batteri e che sono costretti a cercarsi un altro posto, in genere nei pressi degli allevamenti intensivi o delle periferie urbane. Con tutto il loro corredo di microrganismi. In pratica è come se noi stessi li invitassimo a nuove mense, magari attraverso ospiti-serbatoio, come potrebbe essere stato il caso del pangolino cinese. Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) il 75% delle malattie può essere definito zoonosi e ne conosciamo circa 200 al mondo, tutte connesse, da Ebola a Nipah, in un passaggio tipico che prevede sempre gli stessi step successivi: 1) deforestazione; 2) perdita o sterminio di predatori e crescita senza limiti della specie-serbatoio; 3) prelievo e traffico illegale di questa specie; 4) mercati animali e nuovi spazi per i virus (gli slum metropolitani); 5) salto di specie. In questo contesto le malattie-pandemie sono solo destinate a crescere.
Ma se la situazione è questa, ecco che abbiamo anche la soluzione: basterebbe comprendere che il vero antivirus che abbiamo a disposizione è proprio la conservazione della natura, ed in particolare delle foreste tropicali”. (“Il Secolo XIX”, 16 marzo 2020).

Leggiamo, per fare un altro esempio, il biologo statunitense Rob Wallace, che da venticinque anni studia le interrelazioni tra il nostro modello produttivo ed i nuovi patogeni. Nel suo libro “Big Farms Make Big Flu” (I grandi allevamenti producono grandi influenze), uscito nel 2016, Wallace ha analizzato come le cause strutturali di alcune malattie emergenti debbano essere rintracciate nell’attuale sistema di produzione di cibo: deforestazione e destinazione della terra -al posto della foresta- all’agricoltura industriale ed agli allevamenti intensivi. Ecco quanto scrive:

Le malattie hanno successo o falliscono in base alle opportunità che trovano nell’ambiente circostante. Nel modello capitalista, la sottrazione di risorse alle foreste del pianeta interrompe il ciclo ecologico, lasciando che i patogeni che erano tenuti sotto controllo dalla complessità di quell’ecosistema possano viaggiare liberamente. Penetrando nelle zone rurali più remote il modello neoliberista ha aumentato le possibilità di Spillover (o salto di specie) portando la popolazione umana a relazionarsi con patogeni marginalizzati”. (“il manifesto”, 2 aprile 2020).

La soluzione che propone Wallace è la stessa di Tozzi:
“Curare il gap tra economia ed ecologia è la primaria sfida scientifica e sociale del nostro secolo. Dobbiamo seriamente domandarci come tornare ad un’economia naturale, preservando i servizi ecosistemici che permettono di avere aria e acqua pulite, suolo fertile e di ridurre le possibilità di epidemie. I piccoli contadini e le popolazioni native mostrano che per secoli abbiamo utilizzato un tipo di agricoltura rigenerativa e non invasiva e quindi possiamo tornare a farlo, impiegando le risorse che ci permetterebbero di continuare a fornire il cibo di cui il mondo ha bisogno senza distruggere i mezzi con i quali lo produciamo realmente…
Dovremmo sicuramente modificare la nostra relazione con l’ambiente, in modo da tenere i patogeni al loro posto. Le foreste primarie sono sempre più in pericolo. Siamo in un circolo perverso, in cui più perdiamo ambiente primario e più diventa prezioso per le compagnie che se lo contendono”.

Sao Tomé, Parco d'Obò, la deforestazione (2015) (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomé, Parco d Obò, la deforestazione
(2015) (foto Giorgio Pagano)

SAPEVAMO E SAPPIAMO TUTTO
Non è che queste cose non le sapevamo. Ce le avevano messe davanti agli occhi le epidemie precedenti. Ce le avevano spiegate l’OMS, gli scienziati, Bill Gates… Il rapporto “A world at risk” (settembre 2019), scritto da una commissione di esperti creata da OMS e Banca Mondiale, affermava che con uno-due dollari a testa ogni Paese potrebbe avere un Piano di prevenzione, preparazione e risposta (NAPHS) che potrebbe far “reggere” al sistema di sanità pubblica una grande epidemia o una pandemia.
Il Presidente americano Donald Trump ha detto, sul coronavirus: “Chi poteva saperlo?”. La risposta è: “Tutti potevano saperlo. Bastava, per esempio, leggere quel rapporto”. Ma noi non ci prepariamo mai al peggio, anche quando è inevitabile. Perché prevalgono gli interessi economici di pochi.
Sappiamo tutto, anche se Trump fa finta di non saperlo, pure sulle conseguenze devastanti dei cambiamenti climatici. Conseguenze anche sulle malattie. Il climatologo Antonello Pasini nel suo libro “L’equazione dei disastri” (2020) spiega che la connessione tra i cambiamenti climatici e l’espansione di certe malattie tropicali è provata e, anche se in Italia la malaria non è arrivata:

tuttavia si sono verificate recentemente epidemie causate dal Chikungunya virus, trasmesso dalla zanzara tigre, e sono giunti anche il Dengue virus e il West Nile virus. La leishmaniosi, malattia canina trasmessa dai pappataci (flebotomi), che un tempo si riscontrava solo al Sud, ora appare emergente anche in altre zone d’Italia ed in altura”.

A proposito di cambiamenti climatici, anche l’inquinamento atmosferico potrebbe avere dato un contributo alla diffusione del coronavirus. Una solida letteratura scientifica descrive il ruolo del particolato atmosferico quale efficace “carrier”, ovvero vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Il particolato atmosferico, oltre ad essere un “carrier”, costituisce anche un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni. Si tratta di un tema ancora oggetto di studio, ma qualcosa è già emerso. Ridurre le emissioni inquinanti, dunque, non può farci che bene: anche per prevenire le pandemie.

IL CORONAVIRUS E’ LO SPECCHIO DELLA NOSTRA CIVILTA’
Il coronavirus è quindi lo specchio della nostra civiltà, di una “globalizzazione letale”, come spiega l’epidemiologo americano Frank Snowden:

Abbiamo il mito per cui si può avere una crescita economica ed uno sviluppo infinito anche se le risorse del pianeta sono limitate, il che è una contraddizione intrinseca. Eppure abbiamo costruito la nostra società su questo mito, pensando che le due cose si possano in qualche modo conciliare”. (“il manifesto”, 9 aprile 2020).

Ma è anche vero che, continua Snowden:
se accettiamo il fatto che siamo noi stessi i responsabili, ci guardiamo allo specchio e riconosciamo che siamo stati noi stessi a creare quei percorsi, quelle vulnerabilità, e a costruirle nelle nostre società, significa anche che sempre noi stessi possiamo cambiarle”.

In questi giorni di tenebre, quello che ci rimarrà più impresso nella memoria è il giorno in cui abbiamo sentito, in una piazza San Pietro vuota come mai prima nella storia, il crepitio della pioggia, il suono delle campane unito a quello delle sirene delle ambulanze e la voce di un uomo solo vestito di bianco, con il volto provato dalla fatica ed un messaggio di speranza nel cuore. Francesco ha ricordato che cosa questa pandemia smaschera. Siamo “avidi di guadagno”, “ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta”. “Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. E’ “il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”.

Buona Pasqua a tutte ed a tutti

lucidellacitta2011@gmail.com

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