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Articolo 18 se Genova è l’ultima trincea del lavoro

a cura di in data 19 Aprile 2012 – 09:07

Repubblica – Il Lavoro – 11 Aprile 2012 – La lotta contro lo smantellamento dell’articolo 18 è partita dalle fabbriche genovesi e liguri. E i lavoratori della nostra regione sono protagonisti della mobilitazione per trovare una soluzione all’emergenza sociale delle migliaia di persone senza più stipendio e pensione. Sull’articolo 18, e sul sotteso cambiamento di principio nel rapporto tra Governo e sindacato, per cui il primo “ascolta” ma non negozia, la marcia indietro di Monti c’è stata: ma, nel merito, il compromesso raggiunto rende difficile il possibile reintegro del lavoratore licenziato. Sugli “esodati” -terribile stereotipo che cancella la dignità delle persone- il Governo si è impegnato a trovare una soluzione, ma certezze non ce n’è.

Resta un’insoddisfazione di fondo, e la protesta continuerà. La realtà ci parla da tempo di un lavoro di fabbrica insediato su più versanti, e di un potere d’acquisto in continua diminuzione: l’Eurostat ha spiegato che gli stipendi medi dei lavoratori italiani sono tra i più bassi in Europa, mentre lo strato superiore, il più ricco, lo è molto di più degli omologhi europei. E il reddito dei nostri lavoratori è più “alto” di quello che molti professionisti e imprenditori denunciano al fisco. La crisi, per tanti, è questo: non saper più come fare, rischiare di perdere il lavoro e la dignità. Ricordo gli anni di Lama e Trentin, il loro senso di responsabilità in momenti drammatici per il Paese, e la generosa disponibilità dei sindacati: se ripercorriamo questi anni, vediamo bene che non ci sono mai stati comportamenti analoghi di altre classi sociali. Ecco perché oggi servirebbe una prospettiva fedele ai valori fondanti della Costituzione e del modello sociale europeo, che non sacrifichi i più deboli, nei redditi e nei diritti. Che non consideri gli operai delle cose ma delle persone. Quando vediamo le immagini degli operai di Mirafiori che fanno i bagagli dalla storica sede della Fiom perché il loro sindacato, non avendo firmato gli accordi con la Fiat, ha perso la rappresentanza e non deve esistere in fabbrica; o quando leggiamo che le celle di vetro dei capireparto che sorvegliano gli operai a Pomigliano sono state usate per umiliare di fronte ai loro compagni gli operai che non reggevano i nuovi ritmi di lavoro, facendogli gridare <sono un uomo di m.>, allora capiamo che si sta snaturando la Costituzione, costringendola di fatto ad affermare che <l’Italia è una Repubblica fondata sull’impresa> (sono parole non di un “estremista novecentesco”, ma del Vicepresidente del Senato Vannino Chiti).
I lavoratori liguri, dalla Finmeccanica a Fincantieri, sono alla testa anche della lotta perché il Governo si impegni sulla crescita e la politica industriale. In Italia le grandi imprese sono sempre di meno e il capitalismo è sempre più piccolo: dobbiamo ripensare il nostro modello. Come spiega lo storico Giuseppe Berta, “l’Italia è cresciuta quando si è affidata alla formula mista di interventi dello Stato e di mobilitazione di energie private”. L’economia mista finì con la Prima Repubblica, e da allora il Paese non cresce più. Non si tratta di tornare al passato, ma in tutto il mondo si discute dell’intervento pubblico. Cosa aspettiamo a farlo anche noi? Marchionne è il nuovo mito, ma è, dice Berta, “il simbolo del successo dello Stato in economia”: ha potuto fare quello che ha fatto alla Chrysler solo perché la Casa Bianca gli ha dato i soldi. L’Italia non cresce perché non c’è qualità, che si ottiene con più formazione, ricerca, stimoli all’innovazione. E perché ci sono troppe diseguaglianze sociali: i sei Paesi europei a minor diseguaglianza sono quelli che crescono di più.
Dalla Liguria che lavora sale dunque il rigetto di una modernità che riduce il lavoro a merce, che consegna il primato al mercato, che rifiuta la cultura della mediazione, fondamentale per la democrazia. E’ l’ideologia neoliberista, che da noi è l’ideologia dei tecnici: è di corto respiro e non ci farà uscire dalla crisi. Perché, come spiega Giuseppe De Rita,” i tecnici sono lontani dalla società”: la “verticalizzazione del potere è coerente con il mercato internazionale ma è incoerente con la quotidiana realtà italiana”, in cui “la mediazione della politica è necessaria”. La politica è arretrata in questi anni perché il neoliberismo ha messo in crisi il compromesso tra democrazia e capitalismo. Ma oltre l’esclusivo recinto dei tecnici ci sono altri mondi e pensieri, che possono dar vita a un nuovo compromesso, che non penalizzi le classi più umili. Non è vero che esistono ricette obbligate, e che lo scettro va per forza affidato all’Europa dei mercati. L’incantesimo dei tecnici può essere spezzato.

Giorgio Pagano

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