Città della Spezia, 21 aprile 2024
Nell’articolo di questa rubrica “A ottant’anni dall’8 settembre 1943. Come Spezia fu occupata dai tedeschi” (3 settembre 2023), ho raccontato l’episodio in cui morì un alpino, il primo caduto della …
79° anniversario della Liberazione
20 aprile 2024, La Spezia – cantiere Navale Muggiano
Intervento di Giorgio Pagano
co presidente del Comitato Unitario della Resistenza
Com’erano gli operai del Muggiano nel 1943-1944?
Con lo sviluppo dell’industria bellica si era venuto aggregando – nel Paese, non solo a Spezia – un consistente gruppo operaio con caratteristiche proprie, formato da giovani, talora giovanissimi, apprendisti in via di professionalizzazione, orgogliosi del lavoro di fabbrica, portatori di una identità operaia forte.
Sono i maestri di cui scrive Dino Grassi nella sua “Memoria”: operai sui trenta-quarant’anni.
Molti venivano dalle campagne: avevano l’orto.
Gli operai dell’industria bellica avevano qualche vantaggio rispetto agli altri: non venivano richiamati alle armi. Ma erano più controllati.
La fine del 1942 e l’inizio del 1943 videro una crescita dell’insofferenza. Tra gli operai ma anche in altri ceti. Le catastrofi militari, i bombardamenti e la fame diedero il senso di una crisi senza ritorno. Una crisi organica del regime: militare, sociale, politica, d’autorità. La contrarietà alla guerra si tramutò in crescente ostilità verso il regime.
Una saldatura tra fascismo e operai non c’era stata. Restavano le diffidenze da parte fascista e la memoria operaia di una ferita violentissima, quella subita negli anni 1921-1922. La memoria aiutò almeno una parte degli operai a compensare l’oppressione e a mantenere una disposizione alla libertà. Ma erano cresciute le generazioni che non avevano conosciuto quella tragedia e fasce di consenso operaio al fascismo non erano mancate.
Tuttavia: la condizione di disagio sociale va fatta risalire a scelte del governo fascista che si snodano nel lungo periodo, che l’emergenza bellica acutizza, non crea. I salari durante il regime sono quasi sempre scesi.
In ogni caso: il salario reale nel 1943 corrisponde a non più del 60% di quello precedente lo scoppio della seconda guerra mondiale.
E poi scoppia il problema alimentare: prezzi alti, mercato nero…
Nel marzo 1943 la classe operaia spezzina non sciopera. Perché?
Fame e sfruttamento possono portare alla demoralizzazione come alla rabbia. L’ipotesi di una naturale propensione operaia alla lotta non è sostenibile, tanto più se si considera la cesura del ventennio. Va detto che i lavoratori volevano sottrarsi all’invio per lavoro in Germania: il trasferimento coatto era stato particolarmente intenso già nel 1941-42, e lo sarà ancora nel 1944. Non è mai stata scritta una storia della paura durante una dittatura, e non possiamo sapere.
Già il 26 luglio si tennero assemblee e iniziative nei principali stabilimenti spezzini, tra spontaneità e ruolo dei partiti, in primo luogo il PCI. Le fabbriche più insofferenti e attive erano il Cantiere Navale Muggiano e l’OTO Melara, allora appartenenti a un unico gruppo, l’OTO, e le Officine Motosi.
La sera del 27 luglio si tenne una grande, gioiosa, manifestazione operaia a Pitelli.
Il Muggiano fu l’unica fabbrica in cui i soldati trovarono, in due copie in una parete dei gabinetti, il manifesto del comitato regionale dei partiti antifascisti.
Il 29 luglio scioperarono gli operai di molte fabbriche spezzine, per partecipare a una grande manifestazione in città. Chiedevano, oltre alla cacciata dei fascisti, l’aumento del salario e della razione viveri. Due operai furono uccisi: il diciottenne Rino Cerretti, della Società Industrie Meccaniche, e la quindicenne Nicolina Fratoni, delle Officine Motosi.
Nei quarantacinque giorni del governo Badoglio si spara agli operai, mentre la guerra continua.
Il processo di defascistizzazione è molto lento.
Più che di colpo di stato si può parlare, per il 25 luglio, di esaurimento dall’interno di un’esperienza.
Si procede alla sostituzione al potere di uomini in linea di continuità con gli assetti preesistenti.
Una sorta di “successione al potere”. E la resistenza a una politica antitedesca.
Tuttavia il processo di defascistizzazione avanzò un poco nelle fabbriche. Il 2 settembre si concluse la trattativa tra sindacati e Confederazione degli industriali, con un accordo nazionale sulla costituzione delle Commissioni interne, elette dai lavoratori. La democrazia fece il suo primo passo, significativamente, in fabbrica. Poi il precipitare degli eventi impedì di portare a compimento ciò che l’accordo aveva reso possibile: alla Spezia, per esempio, solo i lavoratori del Cantiere Navale Muggiano elessero i loro rappresentanti nella Commissione interna, due comunisti e un repubblicano. Ma uno spiraglio positivo si era aperto.
Dopo l’8 settembre 1943 gli operai spezzini non scioperarono né a novembre né a dicembre, come fecero i loro compagni in molte fabbriche italiane. Tuttavia la situazione degli operai spezzini peggiorava sempre più. Forse anche per questo non scioperarono ancora.
Pesò la debolezza del locale Partito Comunista, ma non solo. Incise anche, e forse soprattutto, il fatto che la preoccupazione più grande degli operai spezzini era per il posto di lavoro: moltissimi non l’avevano più, gli altri temevano di perderlo.
Nel corso del 1943 cresce uno spirito di lotta nuovo.
Si stavano creando le condizioni per il grande sciopero del gennaio 1944.
La protesta aveva all’origine una situazione sociale insopportabile: a dominare era la fame. I negozi e i mercati erano vuoti, il mercato nero regnava incontrastato. I prezzi erano saliti vertiginosamente, le paghe non riuscivano a reggere il passo. A tutto questo si aggiungevano la disoccupazione – anche se una certa ripresa produttiva dopo il tracollo dell’8 settembre ci fu –, la minaccia di essere deportati in Germania e la mancanza di case, distrutte dai bombardamenti: 20 mila, secondo il prefetto FranzTurchi.
Il 3 dicembre fu firmato un accordo tra industriali e sindacati fascisti per un aumento salariale del 30%. Ma agli operai non bastava per sopravvivere. Il 20 dicembre il generale tedesco Paul Zimmermann, delle SS, insediato da novembre a Torino quale “incaricato della repressione degli scioperi”, ordinò , per evitare altri scioperi, di “estendere i miglioramenti, sia nella paga che nel campo alimentare, già stabiliti per gli operai di Milano e di Torino” agli operai di Genova. Nel manifesto il generale accennava anche alle “zone industriali liguri”. I fascisti spezzini erano preoccupatissimi. Franz Turchi scrisse il 24 dicembre al Ministro dell’Interno e personalmente al Duce per essere certo di introdurre i miglioramenti anche nella nostra provincia. Ma gli animi non si placarono. Già in un Promemoria a Turchi del 20 novembre la Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria era stata costretta ad ammettere: “gli operai […] non sono orientati verso il Partito Fascista Repubblicano per mancanza di fiducia”.
La lotta iniziò all’OTO Melara il 5 gennaio, si allargò il 7 al Cantiere Muggiano e ad altri stabilimenti: Termomeccanica, Jutificio Montecatini, Pertusola e piccole fabbriche. Il 10 il Prefetto si recò all’OTO Melara e al Muggiano, alternando lusinghe e minacce. Alla fine, il pomeriggio dell’11, cedette su buona parte delle richieste, e lo sciopero cessò.
Negli scioperi del novembre e dicembre 1943 nelle altre città il ruolo politico e organizzativo del PCI fu più accentuato rispetto agli scioperi del marzo e del luglio-agosto di quell’anno, ma le agitazioni ebbero quasi sempre un avvio spontaneo. Fu così anche nello sciopero del gennaio 1944 alla Spezia.
Uno sciopero spontaneo all’OTO il 5, al Muggiano il 7.
Sul Muggiano lo rivela il documento Materiali sullo sciopero di Spezia – Gennaio 1944, steso nello stesso mese dalla Federazione spezzina del PCI, in cui la Relazione di un membro del Com. Federale descriveva ogni fase dello sciopero al Muggiano e spiegava:
“[La] rivendicazione dei generi alimentari […] fu proprio una leva che rimosse quell’incrostazione che da vent’anni aveva assorbito la classe operaia. […] si è giunti a una maturazione politica che bastò posticipare di tre giorni la paga per far esplodere in un sol colpo lo sciopero che noi compagni ci eravamo promessi di raggiungerlo [sic] solo una decina di giorni dopo. Questo precipitare degli avvenimenti in fabbrica ci ha sorpresi tutti e non nascondiamo che noi stessi ne siamo stati così sorpresi di tale fulmineo colpo, che alcuni operai comunisti uscirono dal cantiere a chiedere istruzioni di come dovevano contenersi e quali rivendicazioni loro si proponevano di chiedere in merito allo sciopero”.
Il partito fu “spiazzato”. Ma al contempo si lamentò sulla conclusione dello sciopero. In quella fase era ispettore regionale del PCI in Liguria Raffaele Pieragostini, esponente di quello che Giaime Pintor aveva definito il “partito di Ventotene”, cioè il gruppo di dirigenti e quadri comunisti che stava scontando il confino nell’isola e si preparava, dopo essere liberato, ad assumere la guida del partito in Italia. Il suo nome in clandestinità era “Lorenzo”. Ecco cosa scrisse “Lorenzo” subito dopo lo sciopero di gennaio:
“Non si era formato un Comitato Sindacale Segr. Vi fu, e forse vi è ancora una certa corrente favorevole alle Comm. Interne. Resta il fatto che durante lo sciopero i compagni, malgrado le istruzioni contrarie che a suo tempo erano state impartite, hanno dato il loro consenso alla formazione delle Commissioni che andarono a parlamentare e a trattare con il prefetto”.
Si può dire che gli operai avessero sbagliato? Ma che altro avrebbero potuto fare in quel contesto? Emergeva, piuttosto, una loro capacità di adoperare tutti gli strumenti organizzativi che le condizioni di lotta potevano offrire. Tant’è che nel febbraio successivo quegli stessi operai fecero fallire le elezioni delle Commissioni Interne, organizzate dai fascisti. L’indicazione data dalle forze antifasciste fu quella del sabotaggio attraverso l’astensionismo o la dispersione del voto.
Il risultato fu eclatante ovunque. Questo, per esempio, il dato del Muggiano:
“Totale votanti per i candidati 91. In bianco 429. Reclamo tre mesi 166. Generi alimentari 337. Stalin 16. Per la pace 14. Totale complessivo 753 votanti, circa 1347 astenuti”.
Il 16 febbraio i sindacati fascisti scrissero al Prefetto una lettera desolata: le elezioni “non hanno sortito esito favorevole”.
Fu la prima grande prova degli operai spezzini e del Muggiano.
Dopo lo sciopero di gennaio la situazione alimentare ed economica degli operai spezzini continuava ad essere grave, nonostante le conquiste strappate.
Il CLN, composto inizialmente – a ottobre – da comunisti, socialisti e liberali, a gennaio si rafforzò con l’ingresso dei rappresentanti del Partito d’Azione e della Democrazia Cristiana. In una riunione successiva allo sciopero di gennaio stabilì di “lanciare un manifesto alla cittadinanza e alla classe operaia per incitarla allo sciopero”.
Va detto che i partiti erano molto gracili. Il 25 luglio si spiega anche così. Il PCI aveva in tutta Italia qualche migliaio di militanti: sino al 25 luglio tra i 4 e i 6 mila. Era l’unica opposizione organizzata. La sola per la quale De Gasperi faceva esplicitamente ricorso al termine partito.
I partiti di massa del dopoguerra si formano nel corso del 1944.
Lo sciopero era parte integrante di un’iniziativa ben più ampia. Il teatro di guerra era cambiato, in senso sempre più favorevole agli alleati. Si parlava sempre più spesso di loro sbarchi sulle coste dell’Italia occupata, Liguria compresa. La liberazione di Roma sembrava vicina. Occorreva dunque sostenere lo sforzo degli alleati sviluppando tutto il potenziale espresso dalle lotte operaie.
Lo sciopero del primo marzo fu organizzato dal Comitato segreto di agitazione per Piemonte, Liguria e Lombardia (creatura del Partito Comunista) e fu sostenuto dal CLN, quindi da tutti i partiti antifascisti. In una prima fase si era pensato a uno sciopero insurrezionale, ma la prospettiva di liberazione in tempi brevi di Roma e dell’Italia cadde. Gli obiettivi furono modificati. Nell’ultima versione erano obiettivi economici e alimentari, ma puntavano anche alla salvezza degli impianti e della manodopera dal saccheggio tedesco – il Muggiano, per esempio, era stato minato e forte, anche alla Spezia, era la spinta a deportare gli operai – e alla cessazione della produzione bellica per il Reich: “pane e libertà”, com’era scritto nel volantino del Comitato segreto di agitazione della Spezia del primo marzo.
Alla Spezia l’adesione fu compatta. Gli scioperanti, secondo i fascisti, furono 5 mila. In realtà furono forse il doppio: una vera e propria sfida al sistema, che scatenò una terribile macchina repressiva.
Il primo marzo il federale Augusto Bertozzi fece affiggere un manifesto a sua firma in cui era scritto: lo sciopero “sarà decisamente stroncato”.
I lavoratori tennero duro, anche al Muggiano. Ecco un brano racconto inedito – scritto alla fine degli anni Novanta – dell’operaio Bruno Scattina, socialista, depositato nell’archivio di Vasco Sensoni:
“Era venuto un rappresentante del sindacato fascista a fare un’assemblea nel piazzale più importante del Muggiano. C’eravamo perché la convocazione era obbligatoria. C’eravamo tutti i dipendenti del Muggiano, allora eravamo oltre 3 mila persone. Mi ricordo che tutti questi ragazzi che eravamo tra gli elettricisti, quando questo signore aveva posto una domanda che mi pare fosse se siamo contenti dell’attuale trattamento che ci viene riservato come dipendenti di una grossa fabbrica, tutti quanti in coro abbiamo gridato: ‘no!’. Tutti i ragazzi – gli uomini dovevano tenersi più coperti perché poi c’era pericolo di rastrellamenti – però noi ragazzi abbiamo detto spontaneamente ‘no!’”.
I fascisti conoscevano gli organizzatori ed erano pronti a colpire senza pietà. Nella notte del primo marzo il prefetto fece stampare un manifesto, affisso all’alba del 2: se lo sciopero non fosse cessato il Prefetto avrebbe chiuso gli stabilimenti, licenziato gli operai e sorteggiato chi inviare in “campi italiani di concentramento, come elementi sediziosi e nemici della Patria”. In realtà il campo fu Mauthausen. Nella stessa notte iniziò una catena di arresti presso le abitazioni. I primi ad essere incarcerati furono tre operai e un tecnico dell’OTO Melara e nove operaie dello Jutificio.
Il primo marzo il Questore aveva emanato le disposizioni per il giorno successivo: decine di militi della Xª Mas furono inviati in tutte le fabbriche.
Ma il 2 marzo, nonostante tutto, lo sciopero continuò.
Due documenti della Prefettura senza data – ma dei giorni immediatamente successivi – senza intestazione e senza firma custoditi nell’Archivio di Stato della Spezia spiegano quanto accadde: i lavoratori fermati e tradotti in carcere furono 23, quelli arrestati e “messi a disposizione del comando germanico” furono 15. Tre furono rilasciati, 12 deportati a Mauthausen. Solo in tre riuscirono a tornare: Dora Fidolfi dello Jutificio, Ioriche Natali dell’OTO Melara, Mario Pistelli del Muggiano.
Questi i nomi dei caduti: Oreste Buzzolino (Bargiacchi), Michele Castagnaro (OTO Melara), Armando Cialdini (Muggiano), Umberto Colotto (Muggiano), Filippo Dondoglio (Muggiano), Elvira Fidolfi (Jutificio), Pietro Milone (OTO Melara), Giuseppe Sanvenero (OTO Melara), Giuseppe Tonelli (Muggiano).
In un testo inedito, di grande intensità narrativa – una sorta di “diario” a posteriori del periodo che va dal primo marzo all’8 aprile 1944 – un sopravvissuto, Mario Pistelli, racconta lo sciopero al Muggiano, “clandestinamente preparato da un Comitato di agitazione […] di cui era responsabile l’indimenticabile compagno Giuseppe Tonelli” e in ogni dettaglio l’arresto e il trattamento ricevuto nella caserma Fiastri sede della Xª Mas:
“Per cinque giornate e altrettante notti io e Tonelli fummo sottoposti a estenuanti interrogatori fatti con pugni e calci e non ottenendo alcun risultato passarono alle torture, con spille ficcate nelle unghie delle mani e dei piedi; il cerchio che stringe la testa finché sembra che scoppi e anche con il fuoco sotto i piedi”.
Tonelli e Pistelli furono condannati a morte tramite fucilazione, ma poi portati insieme agli altri nel carcere della Spezia, quindi in quello di Genova, poi nel campo di Fossoli e infine a Bergamo per il viaggio in treno verso la Germania. Tonelli riuscì a prendere contatti con il CLN di Bergamo per un attacco partigiano al treno, ma purtroppo l’azione non andò a buon fine. Il diario di Pistelli si conclude così:
“Nella mattina dell’8 aprile, vigilia di Pasqua, arrivammo al famigerato campo di Mauthausen e a toglierci ogni illusione, appena varcata la soglia del campo, vedemmo per anteprima un deportato russo vestito a zebre, impiccato alla porta del Lager e la brezza mattutina lo dondolava dolcemente”.
Così un altro sopravvissuto, Ioriche Natali, in un testo inedito, ricordava Giuseppe Tonelli:
“In questo triste periodo di permanenza a Gusen la figura di Tonelli Giuseppe di Carrara fu grande per la sua viva fede, per un largo contributo dato all’organizzazione clandestina del PCI, per la sua instancabile propaganda di unione proletaria della massa Italiana del campo. Fu anche il promotore di un’associazione a carattere mutualista comprendente tutti gli italiani, contribuendo con la sua tenacia di organizzatore, con il suo amore per il prossimo, ad alleviare molti dolori sia fisici che morali. Il Tonelli, che tutti i compagni stimavano ed amavano, decedeva il primo maggio 1945 all’infermeria di Gusen, per sfinimento fisico che provocò la inesorabile dissenteria, terrore di tutti i prigionieri.
Lo sciopero fu nel medio-lungo periodo una vittoria: segnò il passaggio della classe operaia da classe marginalizzata a classe egemone.
Il lavoro umano si propone come fondamento della realizzazione di sé.
Il conflitto sociale si propone come lo strumento principale per difendere il lavoro umano e affermarne la centralità.
Se leggete i documenti del CLN e dei partiti antifascisti nati o rinati nella Resistenza vedrete le centralità di questi valori, che sono poi i valori della Costituzione.
Nell’immediato lo sciopero fu però una sconfitta. Tuttavia non fu l’ultimo sciopero degli operai spezzini e del Muggiano
Ci furono altri due brevi scioperi, il primo e il 17 maggio.
Dopo la liberazione di Roma del 4 giugno 1944 i tedeschi considerarono la possibilità dell’abbandono dei territori occupati. Iniziò la fase più difficile per gli operai. La crisi produttiva riduceva il loro protagonismo, crescevano la spoliazione degli impianti da parte dei tedeschi e la deportazione come forza lavoro. Il Muggiano fu colpito dal rastrellamento il 30 giugno.
Dalla Memoria di Dino Grassi, ma anche dall’archivio di Soresio Montarese e dalla testimonianza di Bruno Scattina conservata nell’archivio di Vasco Sensoni, emerge forte il ricordo di quell’avvenimento, oggi andato perduto. Da tempo, ogni anno, i lavoratori del Cantiere Muggiano onorano i deportati del marzo 1944, non più quelli di giugno.
L’archivio di Dino Grassi ci è di grande aiuto per la ricostruzione dei fatti, perché conserva alcuni testi di suoi discorsi al Muggiano in occasione del 25 aprile. In tutti questi interventi non veniva mai fatta distinzione tra i caduti di marzo e di giugno. L’esame combinato dei testi di Dino Grassi e della testimonianza di Silvio Sassetoli, lavoratore del Muggiano, pitellese, cattolico, rastrellato e deportato il 30 giugno e alcune mie prime ricerche consentono di stabilire che tre furono i caduti certi del rastrellamento del 30 giugno 1944: Mario Piras, nato alla Spezia nel 1902, residente a Sarzana, operaio, deceduto per maltrattamenti a Mannheim il 7 marzo 1945; Ulderico Tozzini, santerenzino del 1914, congegnatore, deceduto il 25 giugno 1945 all’Ospedale della Spezia, al suo ritorno dai campi; De Michelis, di cui possediamo solo il cognome. Sassetoli fa inoltre i nomi di Lattici, Orefici e Ricco, deceduti dopo il ritorno dai campi.
Le ricerche devono continuare, per dare un volto, un nome di battesimo, tracce di vita ai caduti dimenticati. E la memoria deve tornare a ricordare.
Giorgio Pagano
co presidente del Comitato Unitario della Resistenza
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