Una conferenza di ri-nascita per ebrei e palestinesi
Critica Sociale gennaio-febbraio 2024
Scrivo mentre si discute di una tregua a Gaza. Dal 7 ottobre 2023 l’esercito israeliano non ha mai allentato la sua morsa sulla Striscia. E’ in atto una catastrofe immane, che va bloccata. Dovrebbe essere un imperativo morale e politico per gli uomini e per gli Stati. Per uomini e Stati capaci di una visione: quella di un futuro in comune.
E’ indispensabile un cessate il fuoco durevole che permetta un flusso regolare di assistenza vitale e il ristabilimento del funzionamento minimo di infrastrutture civili, ora distrutte o paralizzate.
L’ultimo progetto di cooperazione che ho seguito in Palestina (2018-2020) si occupava del problema dell’acqua. A Gaza la situazione era già drammatica allora, e stava portando al tracollo: il 96% delle risorse idriche disponibili non erano potabili e le infrastrutture erano state danneggiate pesantemente dai bombardamenti israeliani del luglio-agosto 2014. Non riesco a immaginare la situazione attuale. Dalla Palestina mi raccontano che ogni abitante di Gaza ha oggi accesso ad appena mezzo litro d’acqua potabile al giorno. E che le acque reflue scorrono nelle strade.
Ma non manca solo l’acqua, manca il cibo.
Jean-Pierre Filiu, professore all’Università di Scienze Politiche a Parigi, nell’articolo «Guerra Hamas-Israele, lo spettro della fame», pubblicato su «Le Monde» il 21 gennaio scorso, ha spiegato l’inesorabile degradarsi della situazione alimentare dei 2,3 milioni di abitanti dell’enclave assediata:
“L’IPC, la sigla inglese della Classifica per fase integrata di sicurezza alimentare, creata nel 2004 in un contesto di carestia in Somalia, considera che l’insieme della popolazione di Gaza è ormai entrata nella ‘fase 3 di grave crisi alimentare’. Non solo, l’IPC non si è mai trovata di fronte a una situazione così allarmante in venti anni di attività, ma essa stima che la metà degli abitanti dell’enclave palestinese ha raggiunto la ‘fase 4 d’urgenza alimentare’ e che il quarto è caduto nella ‘fase 5 detta di catastrofe’.
In tal modo, secondo l’IPC, 576.000 persone sono ‘minacciate dalla fame’, essendo la situazione più tragica nel nord della striscia di Gaza devastato che nel resto del territorio. Ovunque già, comunque, l’IPC ricorda che gli adulti si privano dal cibo per permettere ai bambini di mangiare almeno un poco, ma non per saziarsi. E i capifamiglia sono pronti ad affrontare qualunque rischio per ricuperare qualche aiuto, come l’11 gennaio a Gaza dove armi israeliane hanno ucciso un numero indeterminato di civili riuniti per una distribuzione alimentare.
L’OMS stima che più di un quinto della popolazione di Gaza soffre di malattie infettive, con 180.000 casi di infezioni respiratorie; 55.000 casi di scabbia e altre infezioni cutanee e 136.000 casi di diarree croniche. Le vittime di queste ultime hanno colpito per metà dei bambini di età inferiore a cinque anni, una popolazione particolarmente fragile in cui i casi di diarrea sono state moltiplicate per venticinque dall’inizio del conflitto.
L’affollamento in rifugi di fortuna – in cui non è garantita nessuna igiene – sono alla base di queste cifre spaventose, così come la contaminazione dell’ambiente dai bombardamenti, in particolare al fosforo, aggravata dalla putrefazione di cadaveri abbandonati nelle strade o sepolti sotto le macerie. La morte di un soldato israeliano, per un’infezione fulminante contratta a Gaza ha illustrato la gravità del rischio epidemiologico, rischio reso ancora più serio dalla carestia .In questo momento l’ONU stima che l’80 % delle persone minacciate dalla fame del pianeta si trovano nella striscia di Gaza. Avete letto bene: 80 %, fame, pianeta, Gaza!”
Anche le guerre hanno delle regole e vincolano tutte le parti. E’ un crimine prendere di mira i civili. E’ un crimine negare cibo e acqua ai civili. E’ un crimine prendere di mira ospedali, scuole e strutture civili.
Occorre il cessate il fuoco per bloccare la catastrofe. Ma poi?
L’obiettivo dichiarato di Israele è eliminare Hamas. Ma i miliziani di Hamas sono nascosti in una selva che è la sfortunata popolazione della Striscia. Si può – forse – eliminare Hamas, ma la condizione è il genocidio: non c’è altro modo. Lo hanno spiegato le fonti di intelligence israeliana alla testata israeliana «+972mag», in un’inchiesta pubblicata in italiano su «il manifesto» del 7 dicembre 2023:
“Molte delle fonti che hanno parlato con «+972» e «Local Call» a patto di restare anonime, hanno confermato che l’esercito israeliano è in possesso di file sulla grande maggioranza degli obiettivi potenziali a Gaza – incluse le case – in cui è riportato il numero di civili che plausibilmente verranno uccisi in un attacco. Di questo numero le unità di intelligence dell’esercito sono al corrente in anticipo: poco prima di condurre un attacco sono anche consapevoli di quanti civili, più o meno, verranno uccisi con certezza.
In uno dei casi discussi dalle fonti, il comando dell’esercito israeliano ha consapevolmente approvato l’uccisione di centinaia di civili palestinesi nel tentativo di assassinare un singolo comandante militare di Hamas. ‘I numeri sono passati da decine di morti civili consentite come danno collaterale di un attacco a ufficiali di primo piano di Hamas, come avveniva nelle operazioni precedenti, a centinaia di morti civili come danno collaterale’, ha detto una fonte.
‘Niente succede per caso’, ha affermato un’altra fonte. ‘Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti ‘danni collaterali’ ci sono in ogni casa”.
Hamas, con il barbaro attacco terroristico del 7 ottobre, non poteva sapere come l’esercito israeliano avesse usato l’intelligenza artificiale, ma voleva spingere Israele esattamente in questa direzione: una guerra lunga e sanguinosa, in cui Israele compisse crimini di guerra tali che il mondo gli si rivoltasse contro. Ed è ciò che sta accadendo. Israele conta di ignorare l’opinione pubblica globale, convinto di essere coperto dagli Stati Uniti. Ma fino a quando potrà accadere? Gli americani, indeboliti come sono su scala mondiale, non possono salvare Israele da se stesso, come dice l’ex presidente del Parlamento israeliano Avraham Burg.
Il grande errore di Israele è stato quello di illudersi – e di illudere noi occidentali – che la questione palestinese fosse ormai risolta. Netanyahu, come è ben documentato, ha sostenuto segretamente Hamas per dividere e umiliare l’Autorità palestinese, proseguire la colonizzazione di massa della Cisgiordania e rendere impossibile la soluzione dei due Stati. Mentre Gaza marciva in preda dei suoi demoni. Alla fine la situazione è esplosa: ma non poteva non esplodere.
Che fare? Non c’è alternativa: bisogna riprendere un filo interrotto molti anni fa. Solo la politica potrà dare la sicurezza a Israele, non la guerra. Dopo così tanti anni ormai è chiaro. La comunità internazionale deve imporre questa strada. L’Europa deve farlo capire al suo alleato-padrone in grave crisi di identità: gli Stati Uniti. Deve cioè saper accompagnare il declino inesorabile dell’egemonia americana. Un Paese che elegge presidente Trump – e che delusione il vecchio Biden! – come può pretendere di essere il “faro del mondo”?
Ma molto deve nascere in Israele e in Palestina. Si deve aprire una prospettiva nuova in due società entrambe lacerate dalla crescita dei nemici della laicità e della democrazia. In vent’anni di frequentazione dei due popoli ho constatato amaramente il lento progredire, in entrambi, del fanatismo identitario, mascherato da fede religiosa (che spesso non è sincera). Ho fatto in tempo a conoscere forze socialiste e anche gandhiane, sia israeliane che palestinesi, di cui non c’è quasi più traccia. O forse sì. Prima del 7 ottobre in Israele era in atto una mobilitazione democratica senza precedenti contro Netanyahu. Lui e il suo gabinetto di guerra possono – devono – essere cacciati via. E in Palestina molti sono consapevoli che solo la politica può servire alla causa, che la violenza terroristica delegittima la causa del popolo palestinese.
Come ha scritto il grande musicista ebreo Daniel Barenboim su «La Repubblica» del 15
ottobre 2023:
“Gli israeliani avranno sicurezza quando i palestinesi potranno provare speranza, cioè giustizia. Entrambi le parti devono riconoscere i loro nemici come esseri umani, e cercare di entrare in empatia con il
loro punto di vista, il loro dolore e la loro sofferenza. Gli israeliani devono anche accettare che l’occupazione della Palestina è con questo incompatibile”.
Il movimento pacifista, l’Europa, le Nazioni Unite, devono spingere per una Conferenza internazionale di Pace: intesa anche come occasione di rafforzamento della società civile e di ricostruzione di una nuova classe dirigente in entrambi i popoli. La Conferenza come ri-nascita di Israele e Palestina.
Sarà un’impresa ardua. Vediamo ogni giorno come manchino gli uomini e gli Stati capaci della visione di un futuro in comune. Ci vorranno tutta l’intelligenza e la passione del mondo, a partire da quella di ciascuno di noi. L’alternativa è l’“eternizzazione” della guerra, non solo in Palestina.
Intanto battiamoci per il cessate il fuoco, per interrompere la carneficina. E’ la prima cosa da chiedere. Se la otterremo forse si potrà intravvedere un nuovo futuro.
Giorgio Pagano
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