“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 21 novembre ore 17 a Borgotaro
15 Novembre 2025 – 16:30

“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”
di Dino Grassi
Venerdì 21 novembre ore 17
Borgotaro
Il libro di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” sarà presentato …

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La lunga marcia del liberismo sulle macerie della sinistra

a cura di in data 6 Agosto 2025 – 21:25

Critica Sociale luglio-agosto 2024

Pubblichiamo l’intervento di Giorgio Pagano al convegno “Per una moderna critica del capitalismo. La sinistra è ancora liberista?”, organizzato dall’Associazione “Compagno è il mondo” il 22 giugno 2024 alla Spezia

Svolgerò alcune considerazioni sulla base della mia esperienza di dirigente politico della sinistra, di attivista, di storico.
Sono diventato funzionario del PCI il primo gennaio 1979: quando era ormai chiara la sconfitta. Si sentiva sulla pelle: la solidarietà nazionale e il compromesso storico erano falliti, gli operai e i giovani ci voltavano le spalle. E’ un nodo su cui tornare. Fu un’esperienza segnata da una tragica debolezza culturale e politica, all’insegna di quello che Leonardo Paggi definì “riformismo liberista”, antitetico al più avanzato riformismo socialdemocratico europeo di quegli anni e molto meno “radicale” rispetto ad esso. Certamente negli anni Settanta il PCI scelse le ricette liberiste di Franco Modigliani e non quelle “programmatorie” di Carlo Augusto Graziani.
Secondo alcuni studiosi, come per esempio Paul Ginsborg, la politica economica del PCI era stata subalterna al liberismo già nell’esperienza di governo dell’immediato dopoguerra. In ogni caso la crisi della sinistra ha radici lunghe, e la sua sconfitta di oggi è un dramma che può essere compreso solo se inserito in un vasto orizzonte.
Il 1989 è una data chiave: si perse ogni lettura di classe. Nacque un partito sostanzialmente neoliberale. Quel passaggio avrebbe richiesto un lavoro culturale di portata storica per reinventare un pensiero critico – perché anche la tradizione socialista, in cui il PCI avrebbe dovuto riconoscersi senza esitazioni, era entrata in crisi e aveva bisogno di un rinnovamento profondo – ma non fu così. Il partito si ritrovò senza uno straccio di arma ideologica per fronteggiare il neoliberismo.
Seguì l’occasione mancata – per tutta la sinistra europea – del 2001, quando il riformismo avrebbe potuto nutrirsi della cultura alterglobalista, contro l’idea dominante della globalizzazione neoliberista, ma scelse invece il blairismo.
Nel 2008 nacque il Pd: un non-partito del leader, con un’idea aconflittuale della società degli individui, che abbandonava il mondo del lavoro.
Eppure nel 1996, nonostante questa storia costellata di errori, gli eredi del vecchio PCI ebbero 11 milioni di voti, il 30%.
Ma il mancato affinamento di un’identità socialista comportò la collocazione definitiva del Pd di Veltroni in uno spazio liberaldemocratico. Fu distrutta ogni traccia di identità. Le idee degli avversari si consolidarono dentro il Pd: non lo Stato ma il privato, non il lavoro ma l’impresa, non la complessità ma la semplificazione, non la partecipazione ma la decisione…
Nel 2023 ci fu una gestione scellerata, in un momento in cui era chiaro che, con la vittoria della Meloni, sarebbe entrato in crisi il fondamento culturale della Repubblica. Eppure il Pd demolì l’argine del governo Conte – il cui impianto sociale era molto avanzato – e scelse l’agenda Draghi e il solipsismo. Fu un disastro: i cittadini volevano il ritorno della politica, non la continuità della tecnocrazia. E scelsero l’unica offerta politica credibile, quella della destra.
Poi la Schlein è stata imposta al partito dalle persone di sinistra come l’ultimo treno prima della notte.
Tra debolezze e contraddizioni, la nuova segretaria ha riposizionato il Pd a sinistra.
Ora serve la coerenza per andare avanti, molto avanti.
La questione identitaria è proprio quella della collocazione rispetto al neoliberismo, che va contestato credibilmente con una proposta alternativa. Centrale è la questione del fisco: la lotta al fisco di classe di questo governo (e non solo di questo).
Ma il problema del Pd è anche e soprattutto quello del rapporto con l’Europa: non solo perché l’Europa è ancora per molti aspetti neoliberista, nonostante il Next Generation Eu, e lo sarà ancora, con il voto del Pd. Spero non con quello della Meloni – in ogni caso la Von der Leyen condivide molte delle idee della Meloni e viceversa. Ma anche perché le forze dominanti in Europa stanno sì correggendo il neoliberismo iniettando forti dosi di interventismo e di investimenti pubblici: soprattutto, però, nel settore militare. Il punto è se la rinuncia a una quota di liberismo economico avviene in nome della giustizia sociale e ambientale e della pace oppure per difendere le diseguaglianze e spingere verso il riarmo. Questo è il bivio a cui sono di fronte tutte le forze politiche europee: liberali, popolari, socialisti, verdi.
L’avversario è chiaro: il mix neoliberismo – neoautoritarismo – bellicismo. Neoautoritarismo, certo. Come ha scritto Andrea Morniroli, co- coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità:
“Quarant’anni di neoliberismo non hanno solo prodotto uno scenario che non può promettere futuri giusti ma hanno favorito che il governo di tale scenario avvenga con strumenti autoritari e con la riduzione dei meccanismi democratici. In Italia gli effetti sono evidenti: dal rifiuto del dialogo sociale alla costruzione di una scuola sempre più normalizzata e punitiva, dalla colpevolizzazione del disagio sociale alla repressione delle manifestazioni di piazza fino all’attacco ai diritti delle persone, primi fra tutti quelli di donne e persone Lgbtqia+. Oggi appare chiaro che dalla crisi della democrazia possiamo uscirne in due modi: con un sistema che fa della ‘decisione dall’alto’ e della difesa dello status quo neoliberista una risposta a un mondo sempre più complesso e che genera paure oppure con un surplus di partecipazione e con politiche in grado di garantire una maggiore ripartizione delle risorse e un maggiore equilibrio dei poteri”.
Una sinistra antiliberista deve porsi il tema della rappresentanza del lavoro. Facendo i conti con “il non voto di classe”. Anche l’astensionismo riflette infatti le diseguaglianze sociali: esprime la protesta dei perdenti e la loro disillusione. Gli operai spezzini protagonisti dell’Autunno caldo testimoni in “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” non votano per il Pd: qualcuno vota più a sinistra, qualcuno Cinque Stelle, tanti si astengono. Espressione quasi antropologica di un mondo in dissoluzione, che si è sentito abbandonato.
Una sinistra antiliberista deve essere antiautoritaria: ampliare la democrazia, ricercare la partecipazione, offrire spazi per contare.
Una sinistra antiliberista deve essere antibellicista e pacifista: invocare con forza l’intervento della diplomazia per arrivare presto a una tregua sia in Ucraina che a Gaza, combattere l’accettazione della guerra, la cultura della guerra, la logica del riarmo collettivo.
Una sinistra antiliberista deve chiamare per nome gli avversari: le grandi concentrazioni di ricchezza, la grande rendita improduttiva, i grandi evasori, chi si arricchisce con il lavoro sottopagato o schiavo, il complesso militare-industriale.
Per andare avanti, molto avanti, conta anche l’organizzazione: il partito del leader solitario al centro e dei signori locali nei territori non ce la può fare. L’iniziativa di oggi è benemerita anche perché veniamo, alla Spezia come altrove, da anni di assenza di vita politico-culturale nei livelli locali dei partiti.
Per costruire la visione alternativa occorre coinvolgere i sindacati, i saperi e le opinioni, le esperienze e le competenze, il tessuto associativo della società civile, gli spazi di speranza, le pratiche creative. E il processo democratico e inclusivo deve coinvolgere le altre forze di una coalizione sociale e politica di centrosinistra tutta da costruire, che non può non comprendere il M5S. Non dobbiamo autoingannarci: il voto ad AVS è un voto per i diritti civili, di cui le candidature Salis e Lucano erano i simboli, non è un voto dei ceti popolari. Questo voto va in buona parte al M5S e, quando abbandona il M5S, si riversa nell’astensione. La prospettiva del M5S non può che essere quella indicata dal compianto Domenico De Masi: la costituzione di una forza socialdemocratica attenta alla pace, all’ambiente, alla legalità, alla democrazia partecipativa.
La questione di fondo è per tutta la sinistra quella dell’identità. La destra ha un’identità forte, feroce – sul fisco, sui migranti… – che può essere sconfitta solo da un’altra identità forte: il socialismo – o laburismo – per proteggere chi ha paura e rappresentare il lavoro.
In una forza socialista c’è un grande ruolo per il cattolicesimo sociale. Papa Francesco è un punto di riferimento per la giustizia sociale e ambientale e per la pace. Lo è anche quando ci spiega che occorre partire dai margini, “toccare” gli altri, le miserie degli altri. Sono radicalmente antiliberista anche perché ho “toccato”, ho capito fino in fondo in Africa, nella melma della vita, che cos’è la globalizzazione neoliberista.
Dobbiamo “toccare”: a Latina come alla Spezia.
In “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” Dino Grassi ricorda il 1932, quando “si innamorò” degli operai :
“Poco dopo il ‘fischio’ veniva snodandosi su per la salita che da Muggiano porta a Pozzuolo – e quindi Pugliola, Lerici, Sarzana, ecc. – un corteo di uomini lavati e riordinati negli abiti, a piedi molti, in bicicletta parecchi, che vociavano tra loro delle cose più diverse”.
Oggi, nel cantiere del Muggiano dove Grassi ha lavorato e ha conquistato diritti per quarant’anni, l’80% del valore della nave è realizzato da ditte esterne, per tagliare i costi. Chi paga i conti è il lavoro vivo, in gran parte precario, in gran parte migrante. Sono bengalesi: non escono “lavati e riordinati” come nel 1932. Non hanno docce e stipetti. Salgono puzzolenti sugli autobus, scansati da tutti. Vige il sistema della paga globale: tutto è conglobato in una paga oraria individualizzata contrattata tra il lavoratore e l’impresa appaltatrice. Un sistema retributivo illegale. E’ lavoro schiavo. La sinistra o si batte per la dignità e la libertà del lavoro o non è. Servono le denunce e la mobilitazione quotidiana. Servono le Brigate del Lavoro: girare ogni campo, girare ogni fabbrica, coinvolgere i nuovi schiavi, renderli protagonisti.
Dobbiamo partire dai margini e connetterli ai punti di forza. Chi “tocca” i giovani ingegneri assunti nelle nostre fabbriche? I piccoli imprenditori creativi che non sfruttano gli schiavi?
Si dice: “dobbiamo uscire dal Novecento”. Ma ha vinto il partito più novecentesco che c’è! Il Novecento non è stato solo violenza, è stato anche altro: speranze di riscatto, infinite possibilità positive.
Non dobbiamo apparire degli zombie ma nemmeno essere immemori. C’è un racconto dei vinti che è un patrimonio immenso, che va tramandato. Ecco il motivo del mio impegno di storico. Viviamo un’epoca in cui domina il presentismo assoluto, privo di memoria e di speranza. Un’epoca in cui la vita è racchiusa nel presente è un’epoca smemorata e disperata. E’ bene, allora, far parlare alcune tracce della trama della storia. E’ indubbiamente necessario un nuovo pensiero del cambiamento, sia personale che sociale. Ma resta la consapevolezza delle potenzialità di una parte del passato. Le speranze dei vinti possono ancora essere utili perché nascano le utopie realistiche del ventunesimo secolo: è il mestiere, suggerito da Walter Benjamin, di “riattizzare nel passato la scintilla della speranza”.
E’ un mestiere indispensabile anche per evitare una fascinazione dei più deboli verso la deriva autoritaria.
Dobbiamo tenere vivi i valori della Costituzione. Siamo onesti: il bipartitismo ha aiutato la Schlein ma anche la Meloni. Ma in gioco, con la predominanza di FdI nella destra, è il fondamento culturale della Repubblica: FdI vuole un cambio di regime. Il premierato vuole aprire una fase nuova, per un’egemonia di lungo periodo sulla maggioranza degli italiani. Il punto, allora, è la coalizione costituzionale, a cui non dovranno sottrarsi le forze moderate, senza più quei due sciagurati che cercano di rappresentarli.
Ho vissuto l’esperienza della battaglia per il no nel referendum costituzionale del 2016: vincemmo perché con noi c’erano i ceti popolari. Ricordo la festa finale in piazza. Mi diedero un microfono e, vedendo quei volti, dissi: “Hanno vinto quelli che non comandano”.
Servono una grande forza socialista e una coalizione costituzionale. Per coniugare diritti democratici e diritti del lavoro. Per mobilitare la società e diffondere il più possibile il potere. Per far tornare la partecipazione e riportare al voto il “non voto di classe”.
Oggi sono emerse voci più o meno pessimiste. Io sono convinto che la comunità di lotta può sempre risorgere. Chi chi sta sotto può sempre dire “Io non ci sto”. Dopo la rivoluzione francese Hippolyte Taine, il teorico della controrivoluzione, scrisse che per conservare l’ordine occorreva innalzare tra le masse e il potere un muro così smisuratamente alto da espungere persino dai sogni notturni delle masse la possibilità di superarlo. Ma basta una crepa nel muro per tornare a sognare, e alimentare nuove speranze. Non dobbiamo aspettare i vertici costituiti. Molto dipende da noi. Qualche mese fa i lavoratori della Fincantieri, al Muggiano, hanno scioperato per la morte sul lavoro di un operaio del cantiere di Palermo. Gli operai bengalesi, dipendenti non della Fincantieri ma delle ditte d’appalto, hanno scioperato anche loro. Chi è oppresso e sfruttato prima o poi si ribella. Come diceva Carlo Rosselli: “Il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura”.

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