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12 Dicembre 2024 – 21:18

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Storie dei ragazzi del Monte Barca – Prima parte

a cura di in data 9 Novembre 2024 – 18:01

Ubaldo Cheirasco, Nino Gerini, Luigi Amedeo Giannetti – Fotografie
tratte dal libro “I fatti di Valmozzola (il gruppo di Monte Barca)” –
Istituto Storico della Resistenza della Spezia – 1974 (riproduzione a
cura del Gruppo Fotografico Obiettivo Spezia).

Città della Spezia, 17 marzo 2024

UBALDO CHEIRASCO
Ubaldo Cheirasco nacque alla Spezia il 31 maggio 1922. Diplomato al Liceo Classico Costa, si iscrisse alla Facoltà di Chimica dell’Università di Pisa. Diventò il capo spirituale e morale dei ragazzi del Monte Barca. Leggiamo la testimonianza di Dario Montarese “Briché”, il commissario politico:
“Verso il 24 febbraio 1944 fui inviato dal CLN di La Spezia a Merizzo [Bagnone] per costituirvi un gruppo di partigiani. Raggiunta la località trovai alcuni partigiani; dopo pochi giorni il gruppo raggiunse il numero di 14, fra i quali il giovane studente Cheirasco Ubaldo della classe 1922.
Rimasi sul posto parecchi giorni, e dalle conversazioni che ebbi con lui si rivelò subito giovane sincero, riflessivo, di carattere fermo e deciso per la lotta partigiana.
Sentiva repulsione per tutto ciò che era ingiusto, e con la sua calma e riflessiva parola sapeva infondere nei suoi giovani compagni dei monti il senso di bontà che sfociava nella sua anima.
[…] Dalle conversazioni che ebbi con lui ne trassi l’impressione che fosse orientato verso il Partito socialista. […] sobrio in tutte le sue manifestazioni, seppe acquistare sui giovani compagni partigiani quell’ascendente e quella simpatia che gli permettevano di confortarli e mantenere viva la visuale della redenzione”.
Cheirasco era uno dei ragazzi arrestati dopo l’agguato fascista della X Mas il 14 marzo sul Monte Barca, nel Bagnonese. Durante la prigionia, nonostante le torture patite, non parlò. Il 17 marzo fu fucilato a Valmozzola, in Val di Taro, insieme ad altri sette compagni. Tre erano già stati uccisi il 14 marzo, al momento dell’agguato.
I nove ragazzi, quando seppero che la fucilazione era prevista alla schiena, si ribellarono e chiesero di essere fucilati al petto, come combattenti. Il capobanda fascista aderì alla richiesta, e anche a quella di salvare Mario Galeazzi, perché – dissero i ragazzi – era stato costretto a forza a entrare nel gruppo. Galeazzi, di Comano, in realtà si era presentato da solo ai monti, perché aveva sentito parlare del gruppo partigiano e intendeva farne parte. Era ancora “sotto osservazione”.
Nella sua testimonianza resa nel dopoguerra Galeazzi scrisse:
“In quel momento tragico, sereno come sempre, il Cheirasco si tolse la sciarpa di lana a quadri di colore rosso e nero che aveva al collo e rivolto verso il picchetto di esecuzione gridò: ‘questa al tiratore che mira dritto’ e porse il petto ai mitragliatori tedeschi. Un grido di ‘Viva l’Italia’ e quindi la scarica ordinata dall’ufficiale”.

NINO GERINI
Nino Gerini, nato a San Terenzo il 15 luglio 1926, risiedeva a Lerici. Di sentimenti antifascisti e confusamente comunisti, fu uno dei primi giovani spezzini a salire ai monti, a diciassette anni. Faceva parte della banda del Trambacco, una località in mezzo ai boschi nel territorio del Comune di Tresana, a breve distanza da quelli dei Comuni di Bolano e di Podenzana. Il gruppo era composto, tra gli altri, dai santostefanesi Primo Battistini “Tullio” – che allora si faceva chiamare “Tenente” o “Tenente medico” – e Angelo Tasso, dai sarzanesi Dario Montarese “Briché”, Arturo Emilio Bacinelli, Guglielmo Vesco, Ernesto Parducci “Giovanni”, Paolino Ranieri “Andrea”, Flavio Bertone “Walter”, Anelito Barontini, dagli spezzini Giovanni Albertini “Luciano” e Anselmo Corsini “Ambrosio”. Era il dicembre 1943. Il gruppo del Trambacco fece alcune azioni a Sarzana, ma a lungo non poteva resistere in sicurezza in una località troppo facilmente raggiungibile dai fascisti. Il gruppo si divise allora in due. Quello con gli antifascisti sarzanesi si recò, poco oltre la metà del gennaio 1944, a Zerla, vicino alle Cento Croci. C’era anche Gerini. Coraggioso e passionale, sparò a una presunta spia fascista, e fu rimproverato dai “vecchi”. Ranieri era nella bottega del barbiere ad Albareto e sentì i colpi. Poi disse a “Briché”: “Guardo fuori, e… è quel matto di Gerini!”. I fascisti sarzanesi si erano messi sulle loro tracce, e il gruppo dovette spostarsi a Popetto di Tresana.
Gerini raggiunse l’altro gruppo, guidato da “Tullio”, che dal Trambacco era salito alle Prede Bianche, sul confine dei Comuni di Tresana e Calice al Cornoviglio. C’erano anche due giovani spezzini, Luigi Amedeo Giannetti e Luciano Righi. Il 30 gennaio 1944 il gruppo fu sorpreso di notte da una cinquantina di fascisti e di tedeschi. Seminudi, all’aperto, guardati da cinque tedeschi armati, sarebbero stati fucilati all’alba. Ma “Tullio”, che non si arrendeva mai facilmente, propose ai compagni di colpire a testate i tedeschi e di fuggire. Ce la fecero tutti, tranne un polacco rimasto senza nome, subito ucciso: il primo caduto della Resistenza armata sui nostri monti, se si escludono i due paracadutisti inglesi dell’Operazione Speedwell, che non erano partigiani ma soldati alleati in missione. Tre del gruppo furono ripresi e incarcerati, due saranno uccisi per rappresaglia il 19 maggio al Passo del Turchino, l’altro tornerà tra i partigiani e cadrà nel rastrellamento dell’8 ottobre 1944.
Era comunque ormai chiaro che le colline della Val di Magra mal si prestavano alla lotta delle bande. IL PCI, il partito più organizzato, e il CLN, che riuniva i partiti antifascisti, decisero di inviare i giovani spezzini sui monti dell’Appennino, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1944. Il caso volle che le località prescelte fossero Valmozzola, nel Parmense, e il Bagnonese. Nella prima operava una banda diretta da Mario Devoti “Betti” – ex militare coraggioso e generoso, anche se personalista e stravagante – composta da giovani della zona, che era entrata casualmente in contatto con il PCI e il CLN spezzini. Nella seconda esisteva un punto di riferimento: Edoardo Bassignani “Ebio”, di Merizzo, comunista ex confinato politico. “Tullio” fu inviato a Valmozzola, dove organizzò l’assalto al treno. A Nino toccò la sorte del Monte Barca.
Al comando, che aveva sede in un essiccatoio, il 14 marzo c’era il più esperto ed “anziano”: Ernesto Parducci “Giovanni”, comunista sarzanese. Aveva 26 anni. Gli altri erano tutti giovanissimi. Parducci, ferito, si salvò. I sopravvissuti vennero rinchiusi nel Seminario Vescovile di Pontremoli, che era stato occupato dalla X Mas, poi portati a Villa Andreini alla Spezia, quindi nuovamente a Pontremoli, infine a Valmozzola.
Nel luglio 1944 il sarzanese Werther Bianchini, comunista del Fronte della Gioventù, fu sbattuto in una cella a Villa Andreini. Sulle pareti bianche vide dei segni scalfiti: erano le frasi lasciate il 16 marzo da Nino Gerini:
“Stamani, all’alba, sarò fucilato insieme ad altri sette compagni, rei di avere combattuto per la libertà d’Italia. Uno di noi, cento di loro. Mamma non piangere se mi fucilano perché ho gridato viva Lenin, questa altra volta griderò più forte: viva la Russia, viva Stalin. Nino Gerini”.
Nino nulla sapeva dei crimini di Stalin. Ma sapeva che la Russia aveva sconfitto i nazisti a Stalingrado, al prezzo di venti milioni di morti. Nel mondo sorse la speranza. Nino e molti giovani furono attratti dallo stalinismo per questo. La democrazia borghese non era l’antidoto del fascismo – così pensavano – poiché era proprio da essa che il fascismo era nato. Il comunismo sovietico era considerato l’antidoto del fascismo. Il vero conflitto sembrava quello che opponeva i due titani del secolo. Ecco perché durante la Resistenza tanti giovani come Nino si sentivano, confusamente, comunisti.
Il sentimento di attrazione per Stalin, del resto, coinvolgeva anche chi non era comunista. Come ha raccontato un partigiano del CIL, il Corpo di Liberazione composto da militari, che combatteva insieme agli alleati: “In una battaglia che stavamo facendo, in cui ci stavamo prendendo un mucchio di botte dai tedeschi, e stavamo lì lì per scappare, l’ufficiale aveva strillato per tre volte ‘Avanti Savoia!’ e nessuno si muoveva. S’alzò in piedi un compagno – repubblicano – dice: ‘Avanti Stalin!’. Si spostò tutta la compagnia”.

LUIGI AMEDEO GIANNETTI
Luigi Amedeo Giannetti, nato il 10 novembre 1923 ad Aulla, risiedeva alla Spezia. Come abbiamo visto, fece parte del gruppo di Trambacco, e poi di “Tullio”. Con “Tullio”, Gerini e altri si salvò dall’agguato tedesco alla Prede Bianche. Rotolarono per balze e canaloni, fino a Fontanedo (Tresana). Erano pieni di ferite, irriconoscibili.
Il 12 febbraio 1944 gli uomini di “Tullio” furono avvertiti che stavano avvicinandosi al villaggio due ufficiali e un civile. Dichiararono di essere patrioti e di venire per conto del CLN spezzino, per proporre di compiere insieme un attentato al ponte ferroviario di Fornola. “Tullio” e i suoi non si fidarono: alle Prede Bianche erano stati traditi da un finto partigiano portato da Giovanni Albertini. Il gruppo fu fatto prigioniero. Giannetti fu incaricato di recarsi a Migliarina per incontrare Mario Portonato “Claudio” e assumere informazioni. I tre erano veramente partigiani: il tenente Piero Borrotzu e il maresciallo Luigi Dallara, appartenenti al gruppo partigiano vezzanese del colonnello Bottari, accompagnati da un aullese. Ma un’altra spiata impedì l’azione comune.
In quella fase Giannetti fu il partigiano più vicino a “Tullio”, anche nel confronto con il CLN, che criticò “Tullio” per scarsa vigilanza.
Era comunque ormai chiaro che le colline della Val di Magra mal si prestavano alla lotta delle bande. Il PCI e il CLN decisero, come detto, di inviare i giovani spezzini a Valmozzola e nel Bagnonese, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1944. “Tullio” andò a Valmozzola, Luigi fu invece inviato a Merizzo, “per andare – scrisse “Tullio” nelle sue memorie inedite – sul Monte Barca incontro al suo tragico destino”. Come Ubaldo Cheirasco e Nino Gerini.
Il russo Victor Ivanov – un insegnante di Mosca – e Giannetti furono le prime due vittime, il 14 marzo, del rastrellamento della X Mas il 14 marzo. I russi del gruppo erano tre: ex prigionieri, erano stati nascosti da “Ebio” in attesa di poter costituire la banda.

Manifestazione a Valmozzola – 16 marzo 2024 (foto Giorgio Pagano)

IL DIFFICILE RAPPORTO CON I CONTADINI DEL BAGNONESE
Il rapporto di collaborazione tra partigiani e contadini a Valmozzola era buono. Nel Bagnonese no: c’era ancora diffidenza. L’arrivo di Galeazzi aveva dimostrato che l’esistenza del gruppo era conosciuta.
Il rastrellamento fu assai probabilmente chiesto da un abitante della zona. Nel suo diario don Primo Gallorini, parroco di Gabbiana, scrisse:
“Un individuo di Collesino (che ora non nominiamo) accusandoli ingiustamente di un furto di una pecora e di un agnello, la domenica precedente al fattaccio [12 marzo] aveva detto a una donna di Collesino, sposata a Pieve di Bagnone, e abitante in località Castagno Grosso, che entro due giorni quei tredici giovani, da lui chiamati ribelli, sarebbero scomparsi”.
Un altro parroco della zona, don Pietro Necchi, di Pieve di Bagnone, in una pubblicazione del 1948 scrisse:
[…] circolava in paese la voce che sui nostri monti dimoravano partigiani. Nessuno di loro erano ancora scesi in paese, e si recavano di notte a luoghi convenuti a prendere il magro cibo di cui vivevano”.
E aggiunse:
“Chi fu la spia che condusse il San Marco [battaglione della X Mas] al posto sicuro? E’ sempre all’oscuro, e dinanzi agli uomini vi rimarrà ormai per sempre”.
La reazione fascista e nazista all’assalto al treno a Valmozzola fu immediata e feroce.
Il 13 marzo Franz Turchi, Prefetto della Spezia, scrisse al Ministero dell’Interno informando che:
“seguito assalto treno da parte ribelli in provincia Parma et uccisione alcuni ufficiali et militari sono stati inviati 300 uomini Decima Flottmas in detta Provincia et in quella di Apuania at seguito sollecitazione ricevuta”.
Il rastrellamento fu ad ampio raggio, nel Parmense e in Apuania, cioè Massa-Carrara. Perché i ragazzi del Monte Barca furono colpiti più di ogni altro gruppo? La risposta è: erano troppo isolati. Una preda troppo facile.

LA DOMANDA DI ENIO A RICCARDO
Nel romanzo storico sulla resistenza nel Bagnonese “La collina rossa” di Riccardo Vinciguerra, il giovane partigiano Enio dice a Riccardo: “A volte penso se vale proprio la pena di fare tutti questi sacrifici, poi morire e rimanere dimenticati per sempre da tutti e forse seppelliti in qualche angolo degli appennini senza nome e senza una croce che ci circondi”.
Sta a noi far sì che il ricordo sia durevole, che i partigiani non restino dimenticati.
A loro dobbiamo la libertà, e il nostro bene più prezioso: la Costituzione.
Ieri a Valmozzola, a ricordare i caduti, eravamo davvero in tanti. Se un’esperienza durata venti mesi – un nulla nella Storia – ottant’anni dopo ci parla ancora, ho detto ai convenuti, vuol dire che è stata davvero importante: la cosa migliore che abbiamo avuto, e che abbiamo.

Post scriptum
Rimando all’articolo scritto su Patria Indipendente il 14 marzo 2024:
https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/storia/lassalto-al-treno-in-valmozzola-pietra-miliare-della-resistenza/
Sulle vicende e le persone citate nell’articolo odierno rimando al Dizionario online della Resistenza spezzina e lunigianese, che comprende anche tutti gli articoli scritti per questa rubrica:
https://www.associazioneculturalemediterraneo.com/sp/dizionario-online-della-resistenza-spezzina-e-lunigianese/
Le fotografie di Ubaldo Cheirasco, Nino Gerini e Luigi Amedeo Giannetti sono tratte dal libro “I fatti di Valmozzola (il gruppo di Monte Barca)” edito nel 1974 dall’Istituto Storico della Resistenza. La riproduzione è stata realizzata dal Gruppo Fotografico Obiettivo Spezia.
La fotografia in basso è stata scattata a Valmozzola il 16 marzo 2024.

lucidellacitta2011@gmail.com

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