Disarmare il nostro Paese, l’Europa e il mondo – Stop Rearm Europe
18 Giugno 2025 – 15:19

Comunicato del comitato organizzatore del 21 giugno Stop Rearm Europe – con invito alla diffusione
Abbiamo superato le 440 adesioni al corteo che il 21 giugno partirà da Piazzale Ostiense alle 14:00 per finire al Colosseo. …

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L’addio a Francesco Vaccarone. Ricordi e riflessioni sull’arte, la vita, la politica – Seconda parte

a cura di in data 1 Giugno 2025 – 11:02

La Spezia, mostra delle opere di Francesco al Vaccarone al CAMeC
(2011) (foto di Enrico Amici)

Città della Spezia, 9 maggio 2024

ALLA DOMENICA MATTINA, IN VIA CHIODO
Il mio primo incontro con Francesco Vaccarone potrebbe essere avvenuto nella libreria di Aldo Rescio in via Galilei o nelle panchine di via Chiodo, tra una “vasca” e l’altra, o a qualche manifestazione, o nella sede del PCI in piazza Mentana… Dopo il Sessantotto, tra fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, le possibilità di aggregazione erano infinite, c’era un’atmosfera di festa, un grande fervore, il piacere di stare insieme. Non serviva darci appuntamento, era un incontro continuo. Noi ragazzi conoscemmo così anche i più “grandi”. Ricordo le “vasche” con Gianluigi Burrafato, socialista e futuro sindaco, che era un giovane “proffe” che discuteva a lungo con noi che avevamo sedici anni, e le tante ore passate con i “vecchi gruppettari della prima ora”, da Augusto Caffaz a Franco Pisano… Uno dei miei amici più cari, con cui uscivo quasi tutte le sere – sarà ricordato sabato prossimo in uno spettacolo teatrale – aveva cinque anni più di me, studiava già all’Università. Si chiamava Fabrizio Ferrazzi, era un cattolico, davvero un “rivoluzionario gentile”.
Certamente conobbi meglio Franco – così lo chiamavamo tutti – quando cominciai a diffondere “L’Unità” alla domenica mattina, per la sezione Centro del PCI, alla quale entrambi eravamo iscritti. Io ero un giovane diffusore, Franco no. A lui la portavo nel suo studio, in via Chiodo. Sul tardi, lui era l’ultimo del giro. Così chiacchieravamo un po’. La sezione Centro era quella detta “degli intellettuali”, ma allora in centro città abitavano anche i ceti popolari, molto più di oggi. Nel mio giro partivo dalla sezione in via Da Passano, andavo in via Manzoni dal grande giornalista e scrittore Gino Patroni, salivo poi per via Prione, in casa di grandi pittori come Angelo Prini e Enzo Bartolozzi, e poi di operai, professionisti, pensionati… Fino alla zona della Stazione: qui, in via Paleocapa, mi riceveva in vestaglia un’altra grande “penna”, Rino Capellazzi. Con lui, giornalista sportivo, discutevo sempre della partita dello Spezia che si sarebbe giocata al pomeriggio. Tornato indietro, facevo il giro al Poggio, quartiere degradato, distrutto nel dopoguerra e poi abbandonato dalla proprietà: lì c’erano i “casini” con le “donnine”, le ultime, parecchio su con gli anni ma sempre attive. Portavo il giornale anche a loro, ovviamente a fine giro, perché sapevo che avevano “lavorato” fino a tardi. Spesso le svegliavo, ma erano molto gentili e mi offrivano sempre il caffè. Infine, prima di rientrare in sezione, andavo da Franco. A lui piaceva dormire la domenica mattina, ma poi andava sempre in studio. Ricordo le discussioni che facevamo, mentre mi muovevo tra tele e pennelli: su politica, arte, filosofia, su tutto… Anche sulle “donnine” del Poggio: Franco le aveva ritratte già alla fine degli anni Cinquanta. La sua pittura denunciava la prostituzione di ragazze spesso provenienti da famiglie povere e guardava alla donna come a una forza della società, senza rinunciare alla sensualità che è sempre fonte di emancipazione e liberazione. Franco era intelligente, colto, spiritoso, gentile, generoso. Questo suo savoir faire era – e sarebbe stato in seguito – elemento importante del suo successo. Ma in questo desiderio di piacere c’era una componente genuina di interesse verso l’altro. Con lui si stava volentieri a parlare. In seguito, cominciammo a vederci anche in altre occasioni, nel tardo pomeriggio, con più tempo per discutere. Non fumai mai i suoi sigari, ma ogni tanto assaggiavo il suo whisky.

I CLOCHARD
Tra i quadri di Franco ricordo un bellissimo “Omaggio a Hegel”, che regalò alla sezione Centro. La sede era una sorta di piccola pinacoteca. Mi auguro che quel quadro, e tutti gli altri, non siano andati perduti. “Omaggio a Hegel” fu per noi l’occasione di tante discussioni sulla filosofia. Non ho la competenza per parlare dell’arte di Vaccarone, ma posso dire che le sue opere a me più care sono quelle degli anni Settanta. In particolare i quadri dei Clochard. Mentre scrivo ne ho uno davanti a me, che mi accompagna di casa in casa da tanti anni. Me lo regalò per il mio matrimonio, al quale non venne solo perché fu per pochissimi intimi. Valerio Cremolini ha scritto parole molto belle su questo “umanissimo ciclo dei Clochard, creature senza voce, incapaci di reagire e pertanto rassegnate alla più umiliante emarginazione”. “’Scandalo della povertà’ – ha aggiunto – potrebbe essere il sottotitolo della sequenza di dipinti che denunciano lo stato di degrado fisico e morale delle frange più deboli della società”. Secondo me quella dei Clochard fu l’intuizione artistica più potente, ma veramente potente, di Franco: sia sul piano formale – le massicce pareti geometriche, le tonalità severe dei colori – che soprattutto per quello che essa significava, per il sottinteso etico e politico cui rimandava.

LA SCONFITTA DI UNA GENERAZIONE E CIO’ CHE RESTA DI QUEGLI ANNI
Ma la questione vera è che in quei primi anni Settanta eravamo già stati sconfitti, anche se non lo sapevamo ancora. Come ho scritto nella prima parte di questo articolo, quando ho raccontato il Sessantotto di Vaccarone e degli artisti, “quella storia così ricca finì però molto presto”. Scrivo questo articolo al ritorno da un incontro con i ragazzi di una scuola superiore sulla storia della Resistenza. La scuola è ancora popolata da insegnanti che credono nella loro funzione. Sono la fortuna di uno studente perché suscitano in lui la passione per la cultura, l’interesse per le cose del mondo. Un tempo questi insegnanti erano quasi la norma. Oggi sono sempre più soli, si muovono in direzione ostinata e contraria. Anche i giovani che aspirano a cambiare il mondo non sono pochi, ma sono soli, non hanno più padri, e i profeti della liberazione sono stati tutti smentiti. Mentre ero a scuola pensavo: bisogna risalire al momento in cui tutto è deragliato, agli anni Settanta. La svolta degli anni Ottanta, preparata nei Settanta, avvenne nel nome della cancellazione dei Sessanta e del Sessantotto. Quando la sinistra cominciò a muoversi in direzione opposta rispetto a ciò in cui aveva creduto. Poi è stata una china senza fondo.
Franco ha vissuto una lunga gioventù, ha covato la “speranza in un mondo nuovo” per tutto il decennio dei Sessanta. Per la mia generazione questo tipo di gioventù è stato molto più breve. Se guardo al “mestiere” dell’artista colgo come a partire dai Settanta i sogni forse troppo arditi non si siano tradotti in realtà, che la dimensione collettiva dell’azione artistica è andata scomparendo, che le polemiche tra gli artisti sono diventate meno creative. E colgo che la cultura non ha più incontrato la politica, come succedeva nel PCI ma anche in altri partiti. Tuttavia qualcosa, come un fiume carsico, è rimasto nelle persone che hanno vissuto quegli anni: l’abitudine a immaginare il meglio e ad erogare generosamente energie per gli altri. Ho pensato a Franco e mi sono detto: del periodo dagli Ottanta in poi amo le sue tempere delle Cinque Terre – un altro suo dono – e poi le opere sulla musica, perché le ho sentite legate alla vita. Non a caso i suoi figli sono musicisti, ho pensato. Ma forse il risultato più duraturo del suo lavoro è quello che non si vede, è la passione per i laboratori nelle scuole. La ricerca di un senso diverso e più socialmente responsabile del mestiere di artista si intravede soprattutto in questa passione.

La Spezia, mostra delle opere di Francesco al Vaccarone al CAMeC
(2011) (foto di Enrico Amici)

LA FEDELTA’ AI VALORI CONTRO L’ANGOSCIA QUOTIDIANA
L’ultima intervista di Franco, quella a Chiara Tenca su “La Nazione” del novembre scorso, è un documento importante. E’ diventato, purtroppo, il suo “testamento”. Nelle sue parole mi sono riconosciuto a pieno. Franco si definisce militante della sinistra, deluso dalla politica. Consapevole dell’importanza della storia, mette nel suo pantheon Marx, Cristo, Lenin, Pasolini. La Resistenza e la Costituzione sono i valori di fondo. E la lotta al maschilismo, con cui l’intervista si conclude. Io toglierei Lenin per Gramsci, ma lasciamo pure Lenin. E metterei anche Pietro Nenni, cosa che nel Sessantotto avrebbe scandalizzato entrambi. Una volta Enzo Biagi gli chiese chi fosse per lui un socialista e Nenni rispose: “Un socialista è un uomo nato per portare avanti quelli che sono nati indietro”. C’è in Franco l’urgenza drammatica del tema della pace, l’orrore per la guerra, la coscienza del fallimento dell’Europa. Dal 24 febbraio 2022 non riusciva più a dipingere: Il fervore bellico uccide l’arte e la politica. C’è poi la critica al mercato che ha distrutto la creatività. Chiede la riattivazione della cultura, e si domanda: dove espongono i giovani artisti? Per Spezia chiede la restituzione del mare ai cittadini e dice no a una città di camerieri. Coglie come l’ipertrofia del turismo mordi e fuggi e del centro storico ridotto a “mangiatoia” produca la desertificazione culturale.
Si sente, nell’intervista, il bisogno di coerenza, anche personale. Tutti vorremmo, arrivati a un certo punto della vita, ritrovare la suggestione di quella frase dell’apostolo Paolo là dove scrive: “E’ giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia. Ho terminato la mia corsa. Ho conservato la fede”. Franco richiama i valori della sua gioventù. E’ ciò che gli serve contro “l’angoscia quotidiana”.
Leggendo l’intervista si capisce che la cultura non può non contenere intrinsecamente i germi del politico, poiché si fonda su idee, pensieri e scelte. La cultura deve essere politica e non dipendere da essa. È la cultura che produce uomini adatti alla politica e non la politica che decide se la cultura può o non può occupare un posto nella società. Il grande equivoco dei tempi moderni è pensare che esista politica senza cultura. La politica impaurita e insicura non vuole avere a che fare con gli intellettuali critici, che restano inascoltati. Invece non deve avere paura di farsi dire in faccia quello che gli intellettuali critici pensano, e dialogare con loro: altrimenti non ha alcun futuro.
A dicembre incontrai Franco per caso, in via Chiodo, e gli dissi che avevo trovato l’intervista bellissima. Si commosse. Purtroppo non abbiamo avuto il tempo di riparlarne. Ma ricorderò sempre Franco Vaccarone con il sorriso di quella sera. Ogni ricordo precedente del suo volto è ormai lontano, quasi cancellato. Invece il volto di quella sera è con me, vivissimo.

Le fotografie di oggi sono state scattate da Enrico Amici nel 2011, alla mostra di opere di Francesco Vaccarone al CAMeC.

lucidellacitta2011@gmail.com

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