A ottant’anni dall’8 settembre 1943 – quarta parte
Storie di raccolta delle armi e delle prime salite ai monti
Città della Spezia 24 settembre 2023
Nel caos in cui l’8 settembre – per responsabilità del tradimento del governo Badoglio e del re – venne condotta l’Italia, si aprì un varco antifascista, prima esistenziale ed emotivo poi sempre più politico. Questo sprigionamento di forze inedite fu un fatto non scontato, dopo vent’anni di adesione maggioritaria al fascismo, o comunque di spoliticizzazione indotta dal regime. L’essere precipitati in un tunnel buio – la guerra fascista era finita ma si era tramutata nell’occupazione tedesca – fu fattore di consapevolezze e scelte nuove per tanti italiani, che si unirono ai vecchi antifascisti, forza inizialmente molto esile. Si riannodarono i fili tra i vinti del 1921-1922 e i giovani che avevano vissuto sempre dentro il regime, avevano creduto al fascismo e ora volevano reagire allo sfascio che li circondava. Una generazione che improvvisamente si trovò senza padri e che non poteva immaginare quale sarebbe stato il futuro fu costretta alla scelta: e a grande maggioranza scelse contro il fascismo.
Nei precedenti articoli dedicati all’ottantesimo dell’8 settembre mi sono soffermato sulla tragedia dell’esercito. Piccoli gruppi di sbandati delle Divisioni Rovigo e Alpi Graie, formati in maggioranza da militari originari del Sud, impediti a tornare a casa dal fronte di guerra che ormai spaccava in due il Paese, si nascosero a Piano di Madrignano, sul Monte Grosso tra Santo Stefano Magra e Aulla, a Zignago. Aiutati dai contadini, erano inattivi. Qualche gruppo si disperse. Alcuni alpini, invece, restarono e furono poi affiancati da giovani locali sotto le armi durante l’armistizio e da vecchi antifascisti. Armi ne avevano poche, la gran parte era stata recuperata dai tedeschi. Ma una piccola parte fu raccolta dai “primi antifascisti”.
IL RACCONTO DI PIETRO BRUZZONE
Tra i primi sintomi di resistenza vi fu la raccolta delle armi: quelle dei reparti dell’Esercito sbandati e quelle delle armerie situate dentro l’Arsenale. I partiti antifascisti furono colti impreparati dall’8 settembre, i primi a muoversi furono i comunisti e i militanti del Partito d’Azione. Lo fecero raccogliendo armi. Così come, spontaneamente, le raccolsero tanti semplici popolani. Non si sapeva ancora bene che cosa farne, ma intanto le si nascondeva e immagazzinava. Successe alla Spezia, a Sarzana, ad Arcola, a Vezzano, a Lerici, a Porto Venere. Anche gli operai delle fabbriche si impegnarono. Tra le tante storie di raccolta delle armi, ne ho scelta una: quella di Pietro Bruzzone, operaio comunista delle officine meccaniche Bargiacchi, nel quartiere di Fossamastra, dove si fabbricavano catapulte per idrovolanti. Bruzzone racconta che anche molti carabinieri si diedero da fare. E, involontariamente, perfino due militari tedeschi! Leggiamo la sua testimonianza, conservata nell’archivio dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza:
“Molti furono i luoghi di recapito clandestini dopo l’8 settembre 1943. Essi avvenivano anche fra gruppi di fabbriche e ricordo che il recapito interessante le officine Bargiacchi, lo iutificio Montecatini ed altre officine della zona di Fossamastra, avveniva periodicamente in casa del compagno (PCI) Perioli Romualdo, residente nella suddetta località.
Presero inoltre vita un sistema di recapiti e di incontri serali, dopo l’uscita dalla fabbrica, che consentirono di mantenere contatti di lavoro e iniziative permanenti tra le officine Bargiacchi, lo iutificio Montecatini, l’Ansaldo Muggiano, allora OTO Muggiano, le officine Motosi ed altre piccole officine della zona.
In detto periodo gli incaricati delle fabbriche suddette erano i seguenti:
Galantini Oreste Iutificio; Montarese Soresino Muggiano; Bruzzone Pietro Bargiacchi; Corsini Anselmo Motosi. Tutti appartenenti al PCI.
Subito dopo l’8 settembre venivano effettuate riunioni con 3-5 persone, in casa del compagno Perioli, innanzi citato, nelle quali oltre che affrontare i problemi del rafforzamento dell’organizzazione clandestina di partito nelle fabbriche e per la ricerca di contatti con elementi di altre correnti politiche, venivano affrontati i problemi della diffusione della stampa clandestina dentro e fuori delle fabbriche, attraverso la quale veniva incitato il popolo ed i lavoratori ad opporre resistenza ai tedeschi ed ai fascisti.
Successivamente furono date indicazioni per il recupero di armi e altri materiali da inviare alle prime squadre patriottiche in via di formazione.
Gran parte di materiale era stato però opportunamente recuperato nei giorni successivi all’8 settembre e si trovava bene occultato a disposizione delle stesse formazioni.
Nelle zone di recupero, quantitativi notevoli furono recuperati nell’Arsenale M.M di La Spezia fra il 9-10-11 settembre ed in misura meno notevole nei giorni successivi.
In questa azione collaborarono i marinai delle navi dislocate in Arsenale, i quali nel caos indescrivibile preparavano i propri bagagli con l’intento di rientrare alle loro case, si intende quelli residenti nelle zone più a nord del Paese, mentre molti del sud si erano accasati in qualche famiglia, cercando successivamente lavoro. Così pure fecero molti carabinieri che l’8 settembre erano di posto in Arsenale, alcuni dei quali si prodigarono con successo al recupero di armi e munizioni.
Fra questi due carabinieri che conoscevano dove si trovavano ancora nascoste armi quasi nuove – moschetti, ecc. – ne recuperarono un numero notevole. Si trattava di moschetti- mitragliatori Breda da mm 6,5 di mitra Berretta, ecc.
Circa un mese dopo fu dato l’ordine di raccogliere le armi disponibili in determinate zone. Mentre si effettuava il trasporto di alcune casse di esse, con un motofurgoncino Guzzi con sopra il sottoscritto e il compagno Maneschi Ruggero, arrestato ed ucciso successivamente a Bolzano dai tedeschi mentre lo trasportavano in Germania, lungo il tragitto e precisamente in viale Italia, nel tratto Passeggiata Morin ai giardini pubblici, si pararono davanti due marinai tedeschi armati ed equipaggiati di tutto punto che ci intimarono di fermarci.
Restammo calmi e direi rassegnati, ma fummo con gioia sorpresi quando apprendemmo con un italiano quasi incomprensibile che volevano un passaggio, fino verso Migliarina, era proprio la zona dove dovevamo sbarcare le armi, saliti sul furgoncino e sedutisi sopra le casse ci servirono per arrivare indisturbati a destinazione. Scesero salutandoci, uno di loro ci invitò a bere ma rifiutammo dicendo loro che eravamo attesi dai nostri datori di lavoro”.
Bruzzone, Perioli, Galantini (ma Oscar, residente a Fossamastra: è forse lui l’Oreste indicato nella testimonianza), Montarese, Corsini e Maneschi diventarono poi partigiani. Maneschi, il cui nome era Amleto, fu arrestato il 12 agosto 1944 e morì non a Bolzano ma a Mauthausen.
Un’altra testimonianza – anch’essa conservata nell’archivio dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza – ricorda come diventarono preziose le armi dell’Arsenale. Ne è autore Terzo Ballani, dirigente comunista, poi commissario politico della Brigata Centocroci con nome di battaglia “Benedetto”:
“Nei giorni successivi l’8-9-1943 il compito più importante della organizzazione del partito comunista: si preoccupò di mettere in salvo e al sicuro, molto bene ingrassate, una quantità di armi leggere che si trovavano all’interno dell’Arsenale Militare.
Nella confusione che si creò l’8-9 furono gettate in mare una notevole quantità di armi di ogni specie e tipo, specie dalle navi da guerra che erano in riparazione, ma si dimenticò tutte le armi leggere che si trovavano nelle varie casermette, che divennero poi le prime armi inviate con notevoli difficoltà ai primi gruppi partigiani”.
CESARE GODANO E GLI ALPINI A PIANO DI MADRIGNANO
Cesare Godano aveva allora ventidue anni, era rientrato fortunosamente a Spezia dopo aver fatto per due anni il sottotenente in Dalmazia. Con la famiglia era sfollato in bassa Val di Vara. Leggiamo il suo racconto, tratto dal libro “Paideia ‘44”:
“Con prudenza cominciai a muovermi con la bicicletta. A due chilometri dalla Pianaccia, al Piano di Madrignano, incontrai il dottor Emilio Del Santo, un medico trentacinquenne originario del luogo, un uomo sanguigno, generoso, estroverso, naturale leader della frazione. […] Con Del Santo non era difficile affrontare discorsi come quelli che allora quasi tutti cercavano di evitare; anzi, ci si arrivava quasi per forza. Ci conoscevamo, sia pure superficialmente, da qualche anno. Così mi parlò dei suoi alpini, di quelli che proteggeva e riforniva, nella pineta sopra la sua casa, a trecento metri dalla carrozzabile per Calice. Mi accompagnò da loro. Si era quasi alla fine di settembre, l’occupazione tedesca era incontrastata. Nella pineta erano piantate delle tende, c’erano una ventina di alpini con due ufficiali e un po’ d’armamento. Ci salutammo e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, essi ci dissero che aspettavano gli anglo-americani e volevano sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Si tenevano pronti a dare una mano contro i tedeschi, quando fosse possibile e necessario. Restammo seduti nel bosco, in circolo, a chiacchierare un po’: per la prima volta mi trovavo a discutere con un nucleo di resistenza armata in territorio occupato dal nemico. Non avevano voluto sbandarsi, e ciò costituiva già un fatto straordinario. Ma per quanto avrebbero potuto resistere in quella clandestinità? Chissà quanta gente sapeva già della loro presenza. Si trovavano perciò esposti al nemico. Pareva abbastanza chiaro che un piccolo nucleo di resistenza avrebbe potuto sussistere e sopravvivere, ed anche passare all’offensiva, solo se fosse riuscito a mantenere l’iniziativa delle azioni e si garantisse la sorpresa. Di fronte invece all’iniziativa del nemico, che si doveva presumere prevalente per numero ed armamento, e che avrebbe scelto quando e come attaccare, l’unico scampo sarebbe stato d’opporre il vuoto: cioè sparire. Che allora non era il caso di quegli alpini. Era già straordinario che non fossero stati ancora scoperti: ciò stava a dimostrare che attorno a loro si era formata una diffusa solidarietà. Ma sarebbe bastato che una sola persona li denunziasse. Perciò alla lunga la loro posizione non poteva non essere scoperta, attaccata e distrutta. Così com’era non pareva sostenibile. Inoltre l’arrivo degli alleati non pareva imminente e sarebbe arrivata presto la cattiva stagione. Si finì per consigliare a tutti gli uomini che non potevano raggiungere le loro case di cercare sistemazioni presso le famiglie contadine della zona: per questo si sarebbe adoperato Del Santo. Questa soluzione, dopo una certa discussione, finì col prevalere, e nel giro di un giorno o due il piccolo campo smobilitò”.
Cesare Godano fu poi dirigente del Partito d’Azione e partigiano, commissario politico della Colonna Giustizia e Libertà, con nome di battaglia “Gatto”.
GIUSEPPE GRANDIS E IL GRUPPO DI ZIGNAGO
Nell’archivio dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza è conservata anche la testimonianza, raccolta da Giulio Mongatti, di Giuseppe Grandis “Gisdippe”, azionista, padre del partigiano di Giustizia e Libertà Ezio, che fu arrestato sul monte Dragnone il 22 gennaio 1945 e fucilato alla Chiappa il 3 febbraio. Leggiamone un brano:
“Nella sera dell’8 settembre un nucleo di 12 soldati ed un tenente, dopo aver tentato invano di resistere ai tedeschi, prendono la via dei monti, raccolti e riforniti da Grandis Giuseppe (Gisdippe): provenivano da un distaccamento d’artiglieria di Brugnato e si accantonarono a Pizzo Grande (Zignago). Dopo una quindicina di giorni, per mancanza di mezzi, si sciolsero e non dettero più notizie. Nella zona rimasero però vari giovani soldati stanziati, nascosti nelle cascine e nelle famiglie dei paesi di montagna”.
Solo nel tardo autunno – alla fine del mese di novembre – a Torpiana di Zignago gli uomini del Partito d’Azione riuscirono a costituire una banda, per volontà degli azionisti genovesi Giulio Bertonelli, che a Zignago era nato, e Antonio Zolesio. La banda raggruppò azionisti spezzini e giovani sbandati e renitenti della zona. Nel suo libro “Canta il gallo” Renato Jacopini – all’inizio in rapporto con gli azionisti, poi partigiano comunista con i nomi di battaglia di “Marcello Moroni” e di “Fumo” – scrisse che “al gruppo di G.L aderirono alcuni ufficiali sbandati, rifugiatisi nella zona montana di Valdurasca e Val di Vara e poi venuti a contatto con noi”.
IL COLONNELLO BOTTARI, DA VEZZANO ALLA VAL DI VARA
Giulio Bottari, tenente colonnello cinquantaduenne della Divisione Alpi Graie, dopo l’8 settembre, dalla sua casa di Vezzano Ligure, si dedicò al recupero delle armi abbandonate. Era in contatto con alcuni esponenti socialisti del gruppo di Vezzano. Bottari intendeva creare un movimento patriottico e apartitico, “squisitamente militare”, come scrisse il suo collaboratore Nino Ferrari in una memoria conservata nell’archivio dell’Istituto spezzino per la storia della Resistenza. Il colonnello non esitò però a prendere contatto con i partiti, principalmente il PdA, e con tutto il CLN. Riuscì a dar vita a una rete di collaboratori in Val di Vara, in cui entrò, alla metà di ottobre, il tenente dell’esercito Piero Borrotzu. In Val di Vara, dopo l’8 settembre, era cominciata un’intensa attività cospirativa e organizzativa anche a Calice, guidata da Daniele Bucchioni. La prima riunione dei calicesi si tenne a Beneduse il 19 settembre. A livello provinciale i contatti furono allacciati con Bottari, “Zio Cesarino”, che venne a Calice nel novembre. La Colonna Giustizia e Libertà trarrà origine dalla rete di Bottari e dal già ricordato gruppo di Torpiana.
Bottari raggiunse Genova nel 1944, dove lavorò nel Comando militare regionale ligure. Arrestato il 12 settembre 1944, fu deportato a Mauthausen, dove venne ucciso.
PRIMO BATTISTINI, DA PONZANO MAGRA AL MONTE GROSSO
Primo Battistini, che fu poi comandante partigiano con nome di battaglia “Tullio”, di famiglia antifascista – il padre era stato Ardito del popolo negli anni precedenti all’avvento del fascismo – fu congedato come indesiderabile dalla Marina Mercantile a fine agosto 1943. Ecco il suo racconto dei giorni immediatamente successivi all’8 settembre, tratto da una memoria inedita che la famiglia mi ha affidato per curarne la pubblicazione:
“A Ponzano Magra, vicino a Villa Pratola, erano accampati i tedeschi e vi erano anche i magazzini degli alpini.
Dopo aver collaborato con Gianardi Ugo, noto antifascista di Ponzano Magra, un giorno, probabilmente perché segnalato dai fascisti, fui inseguito dai tedeschi. Fuggii e decisi di darmi alla macchia assieme al Gianardi Ugo. In precedenza avevamo avuto contatti col tenente degli alpini Sabatini di Bologna e con un gruppo di suoi alpini.
Con costoro (una ventina di uomini circa) ci portammo sul Monte Grosso dove, pochi giorni appresso, ci raggiunse Ottorino Schiasselloni di Caprigliola.
In questa prima fase non avemmo nessun contatto col gruppo sarzanese dislocato non molto lontano da noi, verso Canepari.
Io, Schiasselloni e gli altri ci spacciavamo per ‘badogliani’ ed eravamo vestiti alla militare. In quei primi tempi la nostra principale attività consisteva nella raccolta delle armi, delle munizioni e dei muli (questi ultimi rubati ai tedeschi a Santo Stefano Magra).
Con le frazioni montane, specie con Vecchietto, si ebbero all’inizio rapporti diversi. Non trovammo gente disposta a fare la vita del ‘ribelle’ ma soltanto a collaborare; e questo era già importante. Collaborarono con noi in quei tempi Battistini vulgo ‘Cicalin’ [Giuseppe Domenico Battistini] di Ponzano Superiore, Sergiampietri Cesarino e Poletti di S. Stefano Magra, un certo “Biondo” di Vecchietto, Cucchi Cesare e Remoaldo [Romualdo Vivaldi] del Monte di Caprigliola, Tanzi Dante con tutta la famiglia, anche loro di Caprigliola e tanti altri. Particolare aiuto avemmo dal prestito di asini da parte del sunnominato ‘Cicalin’ per il trasporto delle armi.
In quel periodo dormivo in tenda col tenente Sabatini. Ebbi così modo di conoscere che egli aveva subito arresti durante la vita militare, perché si era rifiutato di imporre ai suoi soldati determinati metodi di disciplina. Il Sabatini si era fatta una fidanzata a Ponzano Superiore.
[…] Una delle prime imprese fu quella di portarmi a Fornola, vestito da contadino, a recuperare le armi che gli alpini avevano abbandonato l’8 settembre. Le avevo caricate sopra un mulo e nascoste in mezzo ai fasci di stipa (legna). In questa impresa mi fu di aiuto Conti Ugo di Arcola.
La situazione andava però facendosi pericolosa. Stimai necessario imporre il coprifuoco al paese di Caprigliola dopo le ore 18, per impedire che qualcuno nell’imbrunire e nella notte ci sorprendesse. Durante la giornata facevamo scoppiare delle bombe anticarro a mano, potenziate con altro esplosivo, per dare l’impressione di essere molto numerosi e di essere in possesso di cannoni.
Fu in questo periodo che ci giunse all’orecchio la voce secondo la quale un certo Cinquanta di Caprigliola era andato dal maresciallo, comandante la stazione carabinieri di Albiano Magra, ed al comando tedesco di Albiano e gli aveva promesso che avrebbe condotto prigioniero in caserma almeno un ‘ribelle’.
Decidemmo di agire.
Di notte bloccammo l’intero paese; e questo non era difficile perché era completamente cinto dalle antiche mura. Avevamo lasciato i muli nei pressi del cimitero sovrastante il paese. Erano con me, vestito con una camicia grigioverde da alpino, il tenente Sabatini, pure in divisa, Gianardi Ugo, Ottorino e Lino Schiasselloni [lo zio di Ottorino]. Imponemmo che nessuno potesse entrare o uscire dal paese.
Entrammo nel ‘dopolavoro’ che era in sostanza un’osteria, gridammo ‘Mani in alto!’ e perquisimmo tutti, armi alla mano, dopo aver posato una mitragliatrice su un tavolo in mezzo alla sala.
Era, a quei tempi, gestore un certo Papavero al quale chiedemmo se conoscesse un certo Cinquanta. Alla sua risposta affermativa lo mandai via assieme con Gianardi, con l’ordine di trovare Cinquanta, al quale appena giunto dissi: ‘Tu pensavi di prendere uno di noi e noi, invece, abbiamo pensato di prendere te’.
Detto ciò portammo via con noi il Cinquanta, un certo Paolino che lavorava alla ceramica Vaccari di Ponzano Magra (sospettato, come il Cinquanta, di relazioni coi carabinieri ed i fascisti), dopo aver minacciato i presenti nell’osteria, a scopo precauzionale, di girare le bocche dei cannoni (che non avevamo) e di spianare il paese, se qualcuno avesse osato dire o fare cose che venissero a scapito del movimento patriottico.
Lungo la strada demmo qualche ceffone ai due.
Mentre arrivavamo sopra il cimitero, dove avevamo lasciati i muli, giunse un mio uomo, ‘Cicalin’ (che avevo mandato in missione a Pallerone tre giorni prima e per il quale nutrivo ormai seri timori a causa del ritardo). Approfittando della confusione momentanea il Paolino scappò. Per intimorirlo sparammo alcune raffiche. Allora riaccompagnammo alle porte del paese il Cinquanta, ingiungendogli di attraversare tutto il paese, perché tutti si rendessero conto che era stato rilasciato.
Il mattino seguente il maresciallo di Albiano Magra si preoccupò di far visitare il Cinquanta cui furono dati 15 giorni di referto e di chiedere un intervento al comandante dei carabinieri di Massa. Costui, secondo le voci che poi giunsero ai nostri orecchi, avrebbe detto, dopo aver visitato il paese: ‘Tacete su quanto è successo. Se i ‘ribelli’ vengono ancora in paese e non danno disturbo, lasciateli pur fare, altrimenti qualche giorno vi spianeranno il paese coi cannoni’”.
Fu la prima ‘impresa’ partigiana nella nostra zona, compiuta tra la fine di settembre e i primi di novembre. Insieme a Primo Battistini c’erano alcuni alpini, tra cui Sabatini, e Schiasselloni.
Quest’ultimo, che sarà poi meglio conosciuto con i nomi di battaglia di “Maggiore, “Renzo”, “Pinzo” ed altri, si era congiunto al gruppo il 19 settembre: proprio quel giorno aveva avuto uno scontro a fuoco a Caprigliola con i carabinieri di Albiano Magra, che lo ricercavano per avere con altri saccheggiato la sede locale del Partito Nazionale Fascista ed essersi impadronito di alcuni cavalli dell’Esercito.
L’attività del gruppo andò via via riducendosi. Sabatini ed altri alpini abbandonarono ben presto – novembre – la vita di stenti nel mezzo dei boschi. Sui monti rimasero, per qualche tempo, in pochi: alla fine, con Primo Battistini, rimasero soltanto Bruno Belloni ed Ennio Casale, tutti di Ponzano Magra. Prima del Natale Primo Battistini era solo, “rifugiato nella casetta di un certo Musetti di Falcinello, sotto la Casa Bianca, alle Prade di Falcinello”. Ma lo fu solamente per pochi giorni, poi la banda si ricostituì. Spostatosi nel Parmense, il gruppo di Battistini si unì alla banda Betti a Valmozzola: l’assalto al treno del 12 marzo 1944 fu la prima azione eclatante della Resistenza dei nostri monti.
DA SARZANA AL MONTE NEBBIONE
Gli antifascisti sarzanesi cercarono, senza successo, di far sì che il comandante militare della zona compisse il suo dovere contro i tedeschi che stavano occupando il Paese. Lo racconta, nella testimonianza “Scampoli di vita partigiana”, conservata nell’archivio dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza, Guido Bottiglioni “Baffo”:
“I rappresentanti più qualificati dell’antifascismo locale, alle prime avvisaglie del terrificante fenomeno, si precipitarono dal colonnello comandante del Distretto, scongiurandolo di distribuire al popolo le armi custodite nei magazzini militari: tutti si sarebbero posti sotto i suoi ordini per una gagliarda azione contro i tedeschi e la città avrebbe reagito con la dovuta energia; quel valoroso ufficiale rifiutò la generosa offerta fattagli con le lacrime agli occhi, affermando con strafottenza che aveva forze sufficienti per far fronte a qualunque situazione militare. La sera stessa quel codardo coglione fuggiva da Sarzana in abiti borghesi, mentre i tedeschi, occupata la sua caserma senza sparare un solo colpo di fucile, predavano i magazzini dell’equipaggiamento e delle armi ivi trovate in grande abbondanza”.
I tedeschi ammucchiarono le armi al cinema-teatro Impavidi. Gli antifascisti, i comunisti in particolare, si adoperarono per recuperarle. Usarono i carri da fieno messi a disposizione dai contadini e pure un triciclo, riuscendo così a sfuggire alla vigilanza tedesca. La connivenza di uno spazzino comunale fu decisiva.
Sarzana e Santo Stefano Magra furono le uniche due zone da cui gruppi di antifascisti salirono ai monti subito dopo l’8 settembre. Giorgio Bocca, in “Storia dell’Italia partigiana”, chiamò il gruppo sarzanese “il gruppo di Monte Nebbione”, la collina più alta (appena 691 metri) della zona. Leggiamo un brano della testimonianza di Guido Ambrosini, tratta dal libro “Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana”:
“In Sarzana, immediatamente dopo l’8 settembre 1943, un gruppo sparuto di elementi locali si diedero alla macchia; originariamente in otto, ben presto arrivarono al numero di trenta. Alcuni erano stati processati e condannati dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, durante il regime; altri erano politicamente sospetti di antifascismo. Mantennero contatti diretti con la cellula del PCI (Sezione di Sarzana), dalla quale dipendevano. Responsabile per la questione organizzativa e militare ne era Bacinelli Emilio, mentre Commissario Politico era Paolino Ranieri (nome di battaglia ‘Andrea’). Ecco i nomi di alcuni sarzanesi componenti quel primo gruppo: Baccinelli Emilio [in questo caso il cognome è scritto con due “c”], Ranieri Paolino, Forcieri Alfio, Forcieri Vittorio, Perugi Turiddo, Perugi Pilade, Vesco Guglielmo, Luciani Goliardo, Podestà Giuseppe, Rocca Bruno, Gilardi Oriano, Badiale Nunzio, Boccardi Ugo (vulgo ‘Ramella’).
[…] Il territorio in cui essi dovevano operare era compreso nei tratti Falcinello-Canepari; parte erano acquartierati sopra Castelnuovo Magra, in località Vallecchia; parte sopra Falcinello, ed alcuni infine in località Ghiaia di Giucano, e precisamente nella casa di Ambrosini Benvenuto (vulgo ‘Venù’).
Altri antifascisti sarzanesi vanno ricordati per il loro impegno fin da subito. Qui mi limito a ricordare i punti di riferimento principali del gruppo: i comunisti Anelito Barontini e Dario Montarese. Anche questa banda raggruppò, secondo lo storico Maurizio Fiorillo, alcuni “alpini sbandati”. Azioni ai monti nel 1943, però, non ve ne furono. Dal novembre il gruppo sarzanese si attivò, invece, per compiere attentati in città ai fascisti più in vista. Il primo fu compiuto davanti al Municipio, il 13 dicembre.
DOBBIAMO CREDERE IN QUALCOSA
Leggiamo ancora Renato Jacopini in “Canta il gallo”:
“Noi, sia comunisti che giellisti, non avevamo ancora idee molto chiare”.
Ma tutto nacque da quei gruppi, di comunisti, di giellisti e di sbandati, come scrisse Cesare Godano in una testimonianza conservata nell’archivio dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza:
“Questi gruppi, attraverso sbandamenti, sostituzioni, rotazioni degli uomini, costituiscono l’origine dei futuri reparti partigiani. Essi sono infatti avvicinati da uomini che cercano di rafforzare quello spontaneo, istintivo, moto di ribellione, con un significato più profondo, di lotta politica contro un regime, contro un invasore, contro un passato di orrori e di rovine.
Questo fu un carattere tipico della Resistenza, un istintivo spirito di rinnovamento e di ribellione, che si unisce e si fonde sempre più con una presa di coscienza di valori propriamente politici: è così che dalla lotta armata si arriverà alla Costituzione ed ai valori che essa esprime”
Non dimentichiamo, non rinneghiamo questa storia. Dobbiamo impedire che accada quel che teme lo storico Emilio Gentile:
“Ho la stessa età della repubblica, dunque le mie preoccupazioni non riguardano me, ma le generazioni cui appartengono i miei nipoti. Temo una democrazia senza più valori, puro recipiente o espediente recitativo, dove chi vince governa, ma quasi metà della popolazione non vota. Come se non fosse più possibile credere in qualcosa, e costruire insieme una democrazia migliore”.
Post scriptum
Dedico l’articolo odierno a Silvano Cerri, partigiano delle Sap, Squadre di Azione Patriottica, nome di battaglia “Primo”, scomparso nei giorni scorsi. Negli anni Cinquanta fu giornalista pubblicista e direttore responsabile dei giornali di fabbrica dello Spezzino: “La spola” dei lavoratori dello Jutificio Montecatini, “lo scalo” dei lavoratori del Muggiano, “Unità Aziendale” dei lavoratori della FIOM. Ho raccontato la sua storia nella pubblicazione di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”, da me curata.
Le foto di oggi sono dei partigiani Primo Battistini “Tullio” e Renato Jacopini “Marcello Moroni” o “Fumo” e appartengono agli archivi delle rispettive famiglie.
Sul 1943 rimando a questi articoli:
“Marzo 1943. Gli scioperi che scossero il fascismo”, Il Secolo XIX nazionale, 19 marzo 2023, anche in www.associazioneculturalemediterraneo.com
“Gli scioperi del marzo-aprile 1943, come il malcontento divenne politico”, www.patriaindipendente.it, 20 marzo 2023
“25 luglio 1943, non fu solo un’illusione”, Città della Spezia, 25 luglio 2023
“25 luglio 1943. Cade il fascismo stremato, ma la tragedia non è finita”, Il Secolo XIX nazionale, 25 luglio 2023
“In quei quarantacinque giorni di Badoglio cominciò il riscatto. E partì dal basso”, www.patriaindipendente.it, 20 agosto 2023
“Lo sciopero degli operai dell’OTO Melara, i calzolai e una lezione contro l’odio”, Città della Spezia, 26 agosto 2023
“Come Spezia fu occupata dai tedeschi”, Città della Spezia, 3 settembre 2023
“L’epopea dell’8 settembre”, “La Nazione”, 6 settembre 2023
“La disfatta e il riscatto”, Il Secolo XIX nazionale, 9 settembre 2023
“Un unico sopravvissuto all’affondamento della corazzata ‘Roma’”, www.patriaindipendente.it, 12 settembre 2023
“Storie di fratellanza. I soldati inglesi sconosciuti e il ragazzo di Sarzana”, 17 settembre 2023
“Operazione Speedwell. La resistenza internazionale”, Il Secolo XIX nazionale, 21 settembre 2023
“Dall’operazione Speedwell al Battaglione Internazionale”, www.patriaindipendente.it, 21 settembre 2023
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