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“Insegnare al principe di Danimarca” di Carla Melazzini

a cura di in data 1 Gennaio 2011 – 11:00

In quartieri popolari e popolosi di Napoli «l’apprendistato di un gruppo di insegnanti di media cultura ed umanità per conoscere le periferie della città e le periferie dell’animo degli adolescenti, cercando di stabilire con loro un dialogo educativo e di vita».

A cura di Cesare Moreno

Era dal tempo della Lettera a una professoressa che non leggevamo pagine così emozionanti. Come allora, si parla di ragazzi che frequentano una scuola speciale, e di chi se ne prende cura. Non siamo nell’esilio di una canonica del Mugello, qui, ma in quartieri popolari e popolosi di Napoli dov’è in vigore il Sistema; alle cronache piace chiamarli «il triangolo della morte».L’autrice, Carla Melazzini, è, nella scrittura come nella vita, del tutto aliena dalla retorica e dall’indulgenza facile. Così, commozione, intelligenza e poesia stanno in questo libro con la asciutta naturalezza con cui può sbucare un fiore meraviglioso dalla crepa di un muro in rovina. Senza compiacersi dell’idea che la rovina sia necessaria ai fiori, e ne venga riscattata.Ne troverete di fiori in queste pagine, e di ragazzini fiorai, e anche di rovine. Uno lo anticipiamo qui, è un tulipano finto, così come l’ha raccontato – salvo qualche errore di scrittura – una bambina che era stata bocciata in seconda elementare: «C’era una volta un fiore che non voleva essere un fiore, allora la fata dei fiori disse: “Se tu vuoi diventare un essere umano io ti accontenterò ma se non ti piace, ti dovrai rassegnare perché non potrai più essere un fiore”. Il fiore accettò e la fata lo toccò con la bacchetta e lo trasformò in un essere umano. Il fiore si rese conto che la vita era difficile. La fata allora lo fece diventare un tulipano finto, per non farlo morire, poi scomparì per sempre». Carla ha chiesto a un compagno di classe: «Secondo te che cosa ha voluto dire Concetta con il suo racconto?». «Che il fiore non voleva morire e così la fata lo ha fatto diventare immortale». «Però l’ha trasformato in un tulipano finto! È meglio essere una persona umana e morire o essere un fiore finto e non morire mai?». «È meglio morire».

Fonte: http://www.sellerio.it/it/catalogo/Insegnare-Al-Principe-Danimarca/Melazzini/4725

Carla Melazzini. Insegnare al principe di Danimarca
Andrea Giardina

Carla Melazzini è nata in Valtellina nel 1944, ha studiato a Pisa alla fine degli anni ’60, ha vissuto a Napoli. È morta il 14 dicembre 2009.

Capita talvolta di imbattersi in libri che costringono a modificare lo sguardo sulle cose. Alla categoria appartiene a pieno titolo Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio). Carla Melazzini, l’autrice, è stata una delle “maestre di strada” che dal 1998, per undici anni, ha portato avanti il “progetto Chance”, destinato ad offrire ai “ragazzi difficili” dei quartieri periferici di Napoli (Ponticelli, in particolare), la possibilità di terminare la scuola dell’obbligo. La memoria di questa esperienza si è trasformata in un libro assolutamente straordinario, che è uscito ad un anno e mezzo dalla morte di Melazzini, la cui personalità ricca e difficile viene ricostruita in appendice con commossa sobrietà da Cesare Moreno, suo compagno nella vita.

Non si esagera dicendo che la protagonista di Insegnare al principe di Danimarca è la scuola nella sua complessità. L’esperienza di Chance (di cui rimane traccia anche nel film Pesci combattenti) infatti diventa l’occasione per riflettere sul valore dell’insegnamento in una realtà attraversata da profondissimi cambiamenti, di fronte ai quali è evidente che non sia più possibile agire con criteri tradizionali. Anticipando le conclusioni, possiamo dire che il libro è un invito rivolto agli insegnanti (tutti) affinché compiano una vera rivoluzione copernicana, rinunciando all’atteggiamento mentale con cui abitualmente si pensano e pensano al proprio lavoro e andando al di là di qualsiasi impostazione prefissata in partenza, di qualsiasi disperante ed irrealistica (lo sanno bene quelli che alla scuola ancora credono) “didattica per obiettivi” e, ancora, di ogni presunzione di “onnipotenza pedagogica”.

Insegnare al principe di Danimarca suggerisce che fare scuola significa – comunque, anche nelle algide atmosfere liceali – calarsi in un contesto vivo, fondato sulla relazione con gli studenti, sullo scambio di emozioni, sulla reciprocità, nella convinzione però che talvolta “esistono ostacoli psichici interiori e relazioni insane più forti della conoscenza del mondo esterno, e finché non si opera un cambiamento di contesto è difficile il cambiamento individuale”. A queste considerazioni Melazzini giunge passando attraverso la complicata necessità di aiutare – gettando un “ponte su un abisso” – i ragazzi disadattati, affettivamente deprivati, abituati a vivere in situazioni familiari disastrose, spesso legate alla complicata galassia del mondo criminale. Confrontandosi con loro ha capito che fare l’insegnante vuol dire “dare significato alla parola”, perché è sullo scambio di parole che si fonda l’attività educativa. Ne consegue la necessità di saper “accogliere i silenzi, i veti, ma anche gli indizi, i suggerimenti, gli orientamenti da parte degli alunni, pena la perdita, appunto, della significanza”. La relazione buona, infatti, è quella in cui, non creandosi un rapporto di dipendenza (è il limite di tante azioni di volontariato sociale), “tu espliciti che stai ricevendo molto”.

Chance, su questi presupposti, ha mandato a gambe all’aria tante abitudini della scuola, a partire dall’atteggiamento sadico con cui si falciano le classi piene di studenti refrattari alla cultura, non rinunciando però all’idea che educare significhi comunque dare un ordine, un’organizzazione alla vita degli allievi. Venuto a cadere l’abituale steccato tra le diverse discipline, accentuata l’attenzione verso l’attività pratica ed artistica (vero linguaggio alternativo a quello verbale, capace di dare voce ad emozioni altrimenti inespresse), dato progressivamente spazio alle discussioni comuni e alle uscite di gruppo in città, introdotto pure la pratica della “paghetta”, Chance si è trasformata nella “casa”, lo spazio dove i ragazzi imparano non solo i “contenuti”, ma soprattutto le regole della convivenza civile, riuscendo finalmente (se non tutti, almeno alcuni) ad elaborare dei “progetti di vita” che possano sganciarli dal cortocircuito esistenziale nel quale sono congelati da generazioni.

Andando oltre ogni “retorica del diverso”, Melazzini ci descrive così le fisionomie spigolose dei ragazzi difficili, da Nunzia, con la sua doppia personalità, ora cauta e studiosa, ora insopportabilmente aggressiva; a Gennaro, il ragazzo obeso su cui la madre punta per ottenere una pensione di invalidità utile all’economia familiare, ad Enrico, il cui padre viene ucciso dalla camorra appena uscito dal carcere. Ne emergono soprattutto le tempestose ed imprevedibili paure di questi giovani, su tutte quella di allontanarsi dal luogo dove sono nati e cresciuti, perdendo così i propri deformi e abituali punti di riferimento. Averli portati al diploma di terza media ha assunto così un valore ben più ampio di quello a cui si può distrattamente pensare. Ha voluto dire che esistono modalità di esistenza opposte a quelle fondate sul welfare statale e camorristico, dove passivamente attendi che ti venga dato aiuto (e solo lo stato non pretende nulla in cambio). Esiste una vita oltre le mura del ghetto, oltre la logica del radicamento coatto e sterile.

Fonte: http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/carla-melazzini-insegnare-al-principe-di-danimarca

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