Per un golfo di pace, lavoro e sostenibilità “Riflettiamo sul progetto Basi Blu” – Sabato 13 aprile ore 17 alla Sala conferenze di Tele Liguria Sud
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Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

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“E’ la mia Europa e la voglio condividere” – Festa dell’Unione Europea 2018 – Castello di Lusuolo, 12 Maggio 2018 – Intervento di Giorgio Pagano

a cura di in data 12 Agosto 2018 – 08:35

Intervento di Giorgio Pagano
Presidente dell’Associazione Culturale Mediterraneo
e dell’Associazione Funzionari senza Frontiere

Lo scrittore spagnolo Javier Cercas, nella sua prolusione al Salone del Libro di Torino, ha detto:
“Non so bene cosa sia l’Europa… so che per molta gente, forse soprattutto per molti giovani, l’Europa si identifica con l’Unione europea, e che oggi l’Unione europea si identifica, nel peggiore dei casi, con un’unione sgranata e improbabile di paesi con tanto passato e scarso futuro, e, nel migliore dei casi, con un ente sovranazionale, freddo, astratto e distante la cui capitale si trova in un posto freddo, astratto e distante chiamato Bruxelles, che non si sa con certezza a cosa serva tranne che a dare lavoro a mucchi di grigi burocrati e a far sì che i politici populisti dell’intero continente gli diano la colpa di tutto ciò che di male accade nei loro rispettivi paesi”.
Non sempre, tuttavia, l’immagine dell’Europa è stata così negativa, o almeno non lo è stata dovunque. Al contrario. Per esempio, nel 2004 il sociologo americano Jeremy Rifkin scriveva “il sogno europeo”: “Mentre il sogno americano languisce, un nuovo sogno europeo vede la luce”.

Cosa è accaduto? Ecco la risposta di Cercas:
“Ciò che è accaduto è la crisi economica più profonda che abbia sofferto l’Europa dal 1929, una crisi che non ha scatenato una guerra mondiale, come aveva fatto quella del 1929, bensì un terremoto politico di prima grandezza e la resurrezione dei peggiori dèmoni europei, a cominciare dal dèmone del nazionalismo, che è il dèmone della discordia e della disunione”.
L’Unione europea è stata una grande impresa della politica: dopo la Seconda Guerra Mondiale Stati nazionali che si erano combattuti per secoli iniziarono a collaborare per costruire una “casa comune”.

Poi c’è stato, nel 2008, il terremoto ricordato da Cercas.
La risposta dell’Unione è stata subalterna alle impostazioni neo liberiste. La crisi, nata negli Stati Uniti per il collasso finanziario e delle banche, conseguenza di una crescita sostenuta dal debito, è stata affrontata con le politiche dell’austerity: tagli allo Stato sociale, precarizzazione del lavoro, aumento di diseguaglianza e povertà, discriminazione di donne e giovani.
Si poteva seguire una via diversa: per esempio Obama negli Usa, sia pure con limiti, ha privilegiato gli investimenti pubblici, lo Stato sociale, il fisco progressivo.
La narrazione neoliberista, invece, in Europa ha avuto pochi ostacoli: è passata nella testa della maggioranza dei cittadini la concezione secondo cui la finanza pubblica è il male e quella privata è la virtù. E secondo cui quindi bisogna quindi tagliare lo Stato sociale.
Ed è passato il disegno di individuare un capro espiatorio: i migranti.
Noi europei abbiamo il dovere di accogliere chi fugge da guerre, carestie, persecuzioni, disastri ambientali (garantendo il diritto d’asilo); e, al di là della quasi impossibile distinzione tra profughi e migranti economici, abbiamo il dovere e anche l’interesse ad accogliere anche i migranti economici (lo richiedono l’andamento demografico, l’economia e il mantenimento degli standard raggiunti nella previdenza) e a sviluppare una politica di cooperazione equa con l’Africa.
È passata l’idea opposta: lo dimostrano gli accordi tra Germania e Turchia e tra Italia e Libia e Italia e Niger. In sostanza: vi paghiamo per tenere i migranti, non importa come e dove. Ma per bloccare i flussi non possiamo rinchiudere centinaia di migliaia di persone nei campi libici o costringere i migranti, come stiamo facendo in Niger, a viaggi più lunghi, pericolosi e costosi, nelle mani di trafficanti ancora più spietati. I morti nel Mediterraneo si vedono in tv e si contano. I morti nei campi libici e nel deserto subsahariano non si vedono e non si contano. Ma sono tanti, troppi morti.
Ecco i dèmoni di cui parla Cercas.
L’Unione europea è quindi molto fragile.

Al cuore c’è la mancanza di una vera democrazia: un federalismo giuridico privo di un governo politico federale democratico non è a lungo sostenibile. Questo è il grande vizio d’origine: la creazione di un’unione giuridica ed economica prima dell’unione politica. Ma senza una sovranità politica europea c’è la sovranità dei mercati, ai cui dettami la politica europea è stata ed è subordinata.
Ci sono Paesi che interpretano l’esistenza dell’Unione come semplice mercato economico-finanziario comune, mortificando ogni ipotesi di realizzazione di una democrazia politica sovranazionale. E’ stato così, sempre, per il Regno Unito. Anche Francia e Germania hanno avuto atteggiamenti contraddittori. L’Italia è molto debole politicamente. Il salto di qualità negativo è stato determinato dai Paesi dell’Est, che vedono nell’Unione un’opportunità economica ma cercano di ostacolarne in ogni modo la dimensione politica e culturale di “casa comune”.
In alcuni di questi Paesi c’è un aspetto inquietante: i regimi autoritari, in Ungheria ma anche in Polonia.
Ma il pluralismo è una ricchezza solo in un sistema unitario. La diversità culturale va conciliata con l’unità politica e la condivisione dei principi, come dice Cercas.
E allora: se l’Ungheria non rispetta i principi dell’Unione, o cambia o non può votare e non può ricevere risorse.
Ora pesano gli Stati nazionali: l’esatto contrario della prospettiva federalista.
La strada per cambiare parte dalla cooperazione rafforzata (chi è disponibile va avanti) e arriva agli Stati Uniti d’Europa, con l’elezione diretta del Presidente dell’Unione, la trasformazione della Commissione in Governo federale, la piena assunzione del ruolo di Parlamento da parte del Parlamento europeo.
Contemporaneamente la strada del cambiamento passa per il superamento dell’austerity (a cominciare dal Fiscal Compact) e delle politiche verso i migranti contrarie ai principi europei.
L’obbiettivo è una rifondazione dell’Europa.
Ma come rifondare l’Europa? Secondo alcuni una ripresa del potere democratico si può determinare, innanzitutto, tornando alla sovranità nazionale, ai vecchi Stati. Io credo invece che noi non dobbiamo smettere di essere europei, che non dobbiamo accettare questa minaccia incombente di dissoluzione dell’orizzonte europeo. Il problema dell’Unione europea non è il recupero della sovranità nazionale, ormai puramente mitica, ma il recupero della democrazia.
Ciò comporta una ricostruzione innovativa di tutte le forze politiche europee, di sinistra e di destra.

Solo un movimento di cittadini dal basso può rivitalizzare l’Unione europea agonizzante e ricostruire le forze politiche. Il sociologo Alain Touraine ha detto: “Quello che manca è una vera iniziativa della società civile per creare un’Europa davvero democratica… La democrazia non è solo un fatto istituzionale, senza i movimenti, senza i conflitti, senza i soggetti, non c’è democrazia… Senza Europa, anche se un’Europa diversa, di fronte a noi c’è solo l’isolamento, l’irrilevanza, il regresso umano e civile. E certamente le élites globali dell’economia e della finanza sarebbero meno danneggiate dalla fine dell’Europa di quanto non lo sarebbero le classi medie e i ceti popolari”.

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