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Pasolini. Il suo sguardo sul Sessantotto degli inizi. Rivolta come ricerca del senso della vita

a cura di in data 27 Aprile 2022 – 15:51

Il Secolo XIX, nazionale 24 marzo 2022

Nel 1961 Pier Paolo Pasolini raccontò di sé ventenne in Friuli: “io allora non avevo ancora letto Marx, ed ero liberale, con tendenza al Partito d’Azione”. La cultura azionista fu presto abbandonata, ma permane nella concezione pasoliniana della “mancata rottura storica” nel 1945. In effetti l’Italia era sì profondamente cambiata, ma dietro quella nuova realtà, ed anzi intrecciato con essa, era rimasto il sottofondo di una vecchia Italia – provinciale, conservatrice, visceralmente ostile ad ogni idea di un rinnovamento radicale e conseguente – che si era rivelata dura a morire.
La “rottura storica” avvenne nel Sessantotto. Nel settembre di quell’anno Pasolini scrisse:
“La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”.
Il poeta aveva fino ad allora aspramente combattuto quello che definiva “regime poliziesco parlamentare” e il suo cemento ideologico, il cattolicesimo reazionario. Non poteva, quindi, non dare un giudizio positivo su un movimento anticonformista come il Sessantotto.
E tuttavia il suo rapporto con il movimento non fu semplice. Nella poesia “Il PCI ai giovani!”, nel giugno 1968, il poeta aveva definito gli studenti “figli di papà” dalle tante “prerogative piccolo borghesi”, ma più che dalla parte dei poliziotti di Valle Giulia – definiti “pagliacci” nei versi successivi – egli stava dalla parte degli operai e del PCI, con cui gli studenti avrebbero dovuto allearsi: “quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il PCI e verso gli operai”, ha scritto Giovanni De Luna.
Pasolini aveva ragione? Sì e no. Valle Giulia segnò l’inizio della crisi del “Sessantotto degli inizi”, quello del Maggio francese, i cui protagonisti avevano preso le distanze dalle idee correnti di rivoluzione: “La rivoluzione borghese è stata giuridica, la rivoluzione proletaria è stata economica. La nostra sarà sociale e culturale. Perché l’uomo possa diventare se stesso”. Fu, secondo Edgar Morin, un movimento “sovra e infra-politico e totalmente libertario, ma sempre con l’idea di fraternità onnipresente”. Una rivolta morale, che non riuscì a diventare progetto politico compiuto e perse la sua vitalità dopo il Maggio, quando tornò alle vecchie dottrine e ai vecchi schemi organizzativi.
Pasolini aveva ragione perché dopo Valle Giulia e il Maggio quella generazione venne spezzata e, parte di essa, abbandonò la democrazia per una scelta “rivoluzionaria” e violenta. Ma aveva torto perché “il rinnovamento della vita” del “Sessantotto degli inizi” non era certo dalla parte dei poliziotti, ma nemmeno da quella del PCI. Che, pur tra aperture e travagli, non operò la ridefinizione teorica necessaria sui due grandi temi posti dal movimento: la “questione intellettuale” – la riforma del sapere e degli apparati di egemonia -, e la “riforma intellettuale e morale” – il rinnovamento delle forme di vita, la libertà di ciascun individuo nel decidere la forma della propria vita. Nulla di più lontano dal marxismo strutturalista e dall’ideologia classista-operaista.
Il vecchio classismo comunista – così come il nuovo operaismo dei gruppi della sinistra extraparlamentare – non capì che non bastava il punto di vista di classe per tentare una reazione culturale umanista all’avvento di un mondo consumista, tecnologizzato, disumanizzato.
Negli anni successivi, di fronte alla crisi, che colse tra i primi, della centralità operaia, al trionfo della “religione delle merci” e allo scandalo per quella che nel 1983 definì “l’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei”, Pasolini reagì fino a pensare che il sacro potesse mutare funzione e divenire un luogo di resistenza ai nuovi codici del consumismo.
Ma questo ricollocava Pasolini nel “Sessantotto degli inizi”, rivolta morale anticonsumista alla ricerca di un nuovo senso della vita: cioè del “sacro” inteso come trasgressione per una modernizzazione senza secolarizzazione. Una secolarizzazione da combattere più con il sentimento che in una forma definita: “La rivoluzione non è più che un sentimento”, recitava un verso di “Progetto di opere future”, poesia di Pasolini del 1963. Ancora: “Non bisogna avere più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore”. Ma il “Sessantotto degli inizi” era proprio questo: amore radicale e ricerca di un nuovo modo di vivere.

Giorgio Pagano


alla spezia
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