Presentazione alla Spezia di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Venerdì 5 aprile ore 17 alla Biblioteca Civica Arzelà di Ponzano Magra
28 Marzo 2024 – 08:58

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Il congresso PD cominci dall’autocritica

a cura di in data 22 Settembre 2009 – 11:10

Il Secolo XIX    22 settembre 2009 – Il congresso del Pd non è solo il “votificio” denunciato dall’assessore genovese Andrea Ranieri, o quello delle risse tra “capi” a Sarzana o dei litigi di Sestri Ponente. E’ anche un luogo di partecipazione vera. Ma ha ragione Vannino Chiti, vicepresidente del Senato, quando descrive un congresso che “non discute di proposte politiche né di quello che serve al Paese”. Insomma, tutte le energie del principale partito dell’opposizione sono concentrate sul nome del prossimo segretario. Molti osservatori si preoccupano, dal punto di vista del funzionamento della democrazia, per un panorama politico monopolizzato dal duello interno al Pdl tra Berlusconi e Fini o dallo scontro tra Pdl e Lega, con un’opposizione silente o fiacca. E perché importanti ceti sociali del Paese, dagli operai ai precari della scuola, sembrano non avere più rappresentanti politici, tanto da essere costretti a salire su una gru o a sfilare in mutande.
Per “ricreare quell’entusiasmo e quella voglia di esserci” delle primarie per Prodi e per Veltroni, come ha auspicato sul Secolo XIX Carlo Rognoni, il Pd deve dimostrarsi capace di un’autocritica vera e di un progetto convincente per il Paese. Il berlusconismo non è caduto dal cielo: si suscita partecipazione criticandolo e criticando nel contempo il preberlusconismo che non l’ha contrastato.
Il tema del congresso lo ha posto con chiarezza Romano Prodi sul Messaggero del 15 agosto: un’autocritica radicale dell’esperienza dei suoi governi e dell’operato della sinistra europea in questi anni. Questo il ragionamento dell’ex premier: ci siamo limitati a “imitare le politiche dei conservatori inseguendone i contenuti”, a gestire l’esistente con l’arma del “buon governo” senza misurarsi con i nodi del dominio dei mercati, della crescente disuguaglianza sociale, della presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale. Una perdita di visione autonoma: “il riformismo ha perso la fiducia in se stesso e preferisce inseguire le piattaforme e i programmi degli altri”.
Prodi ha ragione: la tragica caduta di fiducia in una politica riformista ha le radici nella subalternità. E’ questa la responsabilità più grave dei gruppi dirigenti del centrosinistra nell’ultimo ventennio, ed è il vero problema da cui partire nella discussione di un congresso che dovrebbe essere fondativo: perché è la causa anche del mancato decollo del Pd.
Il congresso dovrebbe discutere dell’autocritica di Prodi, cioè di cultura, dell’anima culturale senza la quale la politica ha il respiro corto. Il Pd è marginale perché la sua classe dirigente nell’ultimo ventennio, non solo negli ultimi due anni, ha fatto politica senza cultura: lettura della società, valori, identità.
Al primo posto va messo il valore dell’uguaglianza: come congiungere la battaglia per ridurre le disuguaglianze sociali con quella per allargare le opportunità e riconoscere il merito individuale? L’altro punto chiave è quello della regolazione dei mercati: quali regole? Come superare la subalternità al mercatismo senza ricadere nel vecchio statalismo, ma recuperando semmai il socialismo liberale? Ancora: chi rappresentare? Come recuperare il rapporto con gli operai e i precari senza rinunciare ad essere “a vocazione maggioritaria” nella società, e quindi interlocutori credibili di altre forze dinamiche  e produttive?
Se si guarda all’impianto culturale delle mozioni congressuali, siamo ancora all’inizio della discussione su questi temi. Confesso che, appena eletto, avevo apprezzato Dario Franceschini per la volontà di “riposizionare” il Pd  e per lo slancio con cui si era gettato sul tema dei valori, in discontinuità con la mitologia neoliberale del Veltroni del Lingotto. Ma oggi la sua mozione è troppo intrisa di veltronismo, ed è, per me, un passo indietro.
La mozione di Ignazio Marino colpisce per la freschezza, e perché si muove  a tutto campo: non è, come temevo, “monotematica” sulla laicità. Ma, con il suo “occorrismo”, sembra un libro dei desideri.
E’ nella mozione di Pierluigi Bersani che ho trovato più solidità, quel “centro” che non emerge nelle altre due. Il “centro”, che Bersani chiama “senso”, sta nella ricostruzione del filo che lega il Pd  alle sue culture fondative, socialista e popolare: non è un arroccamento nostalgico, ma la mossa decisiva per ritrovare un’identità e rinnovarla. Per riprendere nei tempi nuovi il filo di un riformismo dell’avanzamento sociale come quello di inizio secolo o del dopoguerra, e iniziare così a dare risposte ai temi dell’autocritica di Prodi. La mozione bersaniana è certamente monca di molte cose, come del resto l’articolo di Prodi, assai generico nella fase propositiva. Il compito è difficile, con molte macerie sul cammino. E con il politicismo, il genericismo, il nuovismo sempre in agguato.
Lo storico Giuseppe Berta ha scritto sul Riformista: “Nessun segnale mi sembra  al momento indicare la possibilità di una ripresa culturale del Pd, che mi sembra avviato a celebrare la sua scomparsa nel modo peggiore, vale a dire con rivalità e contrasti difficili da percepire… è in atto una partita che non pare avere un retroterra culturale consistente.” Sta ai protagonisti dimostrare che non è così, non sprecare anche questa occasione, cambiare lo scenario e convincere così milioni di cittadini di sinistra a partecipare alle primarie del 25 ottobre.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)

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