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Centralismo mascherato da federalismo

a cura di in data 12 Marzo 2011 – 10:34

Il  Secolo  XIX – 12 marzo  2011 – I 150 anni dell’unità d’Italia coincidono con un momento cruciale dell’attuazione dell’art. 119 della Costituzione, cioè della legge delega 42 del 2009 sul federalismo fiscale. L’unità nazionale ne verrà lesionata, soprattutto nel suo contenuto più vitale, l’unità di un welfare eguale per tutti i cittadini dalle Alpi alla Sicilia? Oppure il federalismo, perché cooperativo, perequativo e solidale, costituirà un’opportunità di crescita per tutti i territori e avrà una cornice e un’ “anima” nazionali? Come spiega il sociologo Marcello Fedele nel suo libro “ Né uniti né divisi”, l’Italia è stata sempre attraversata da una forte tensione tra centralismo e localismo, e alle spinte legislative autonomiste  sono sempre seguite le opposte tendenze dirigiste. Questa tensione c’è ancora oggi, per cui la risposta alle domande precedenti è, per ora, questa: ci saranno contemporaneamente  più centralismo e più localismo, ma non il federalismo separatista e certamente non quello solidale. In fondo è l’esito voluto da partiti attraversati dalla stessa tensione: partiti leaderisti e centralizzati, che controllano, grazie al “Porcellum” del ministro “federalista” Roberto Calderoli, il processo di selezione dei  parlamentari, ma che lasciano però campo libero nei territori agli incontrollabili “cacicchi “ locali.
La Lega vuole un manifesto propagandistico per le elezioni e lo ottiene da un Silvio Berlusconi a cui interessa solo l’immunità per sé: in questo contesto il merito effettivamente autonomistico delle proposte sfuma, anzi si fanno fare al sistema delle autonomie dei pesanti passi indietro. Mancano le tre condizioni di un serio federalismo. La prima è il federalismo istituzionale, cioè la cornice unitaria di una Camera rappresentativa dei territori, il Senato federale: una riforma che segna il passo, perché a nessun partito interessa avere un Senato che, per i suoi criteri di formazione, potrebbe sottrarsi al controllo dei partiti. Ma il federalismo fiscale non ha senso se nello stesso tempo non esiste anche il federalismo istituzionale. La seconda condizione: il federalismo fiscale può venire solo dopo che sono chiare le funzioni fondamentali delle diverse autonomie locali e i livelli essenziali delle prestazioni da assicurare e finanziare a ciascuna di esse su tutto il territorio nazionale. Ma anche l’allocazione dei compiti a Regioni, Province e Comuni, che deve essere indicata dalla Carta delle autonomie, non è argomento all’ordine del giorno. E dei livelli delle prestazioni si discuterà in un successivo decreto. La terza condizione: i fondi perequativi, anch’essi rinviati sine die. Va aggiunto che, con il solo federalismo fiscale, non si può parlare con cognizione di causa dei costi del federalismo. Per ridotti che saranno, per noi saranno insostenibili. Basti pensare che il decentramento avviato in Francia tra il 1980 e il 2006 ha portato a una quintuplicazione degli oneri statali e a una triplicazione di quelli locali.
Ma allora di cosa si sta discutendo, aldilà della retorica leghista? Per ora del solo federalismo fiscale comunale. Mentre in tutto il mondo l’autonomia impositiva dei Comuni si basa su imposte legate alla proprietà immobiliare, simili all’Ici, da noi la scelta demagogica di eliminare l’Ici sulla prima casa ha portato all’assenza di un razionale disegno per il fisco comunale, finendo per favorire la rendita e per colpire i redditi da lavoro e da impresa. L’Ici, oltre che sulle case dei non residenti, si paga infatti sugli immobili produttivi, mentre crescono le addizionali comunali all’Irpef, imposta pagata all’80% dai redditi da lavoro e da pensione. E’ un “tax design” locale sgangherato, che nel mondo nessuno Stato, federale o no, prevede.
L’intreccio tra il peggior centralismo e il peggior localismo è evidente. Non a caso la nuova epoca “federalista” ha preso corpo con un metodo centralista. La “vocazione maggioritaria” si muove in senso opposto ai processi di decentramento, consegnando le chiavi della rappresentanza a una leadership nazionale molto ristretta, composta da poche decine di persone. Che pensa più a rafforzare l’esecutivo che a promuovere il Senato federale. Che non propone le basi istituzionali per il federalismo e quindi spinge per un inevitabile ritorno del dirigismo statale.
C’è chi propone, per uscire dalle logiche di corto respiro tipiche di un  provvedimento-manifesto, di convocare gli Stati generali delle autonomie locali. Giusto: Regioni e Comuni dovrebbero abbandonare il metodo del rapporto separato con il Governo, ma anche superare la storica contrapposizione italiana tra regionalismo e municipalismo. Obbiettivo possibile solo se al centro del progetto federalista si mettono, perché unici titolari delle funzioni amministrative, i Comuni, ma riorganizzati. La loro debolezza deriva dal fatto che sono troppi (8101, praticamente gli stessi del 1871, 8382) e troppo piccoli: come può esserci l’efficienza dell’azione pubblica senza l’associazionismo comunale, quello che si sta realizzando in Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna e per cui in Italia, invece, c’è così scarsa propensione? Le Regioni hanno invece una funzione legislativa e regolatrice ( il termine “Governatore” per i Presidenti è quindi fuori luogo), troppo spesso sovrapposta a quella dello Stato: altra questione da dirimere. E poi anche le Regioni sono troppe, e mal assortite: per raggiungere la popolazione della Lombardia è necessario mettere insieme una decina di -troppo piccole- Regioni. Anch’esse hanno bisogno, a fini di efficienza, di fondersi tra loro e di creare aggregazioni territoriali più solide, le “macroregioni”. Serve, insomma, una effettiva riforma federalista dello Stato, oltre l’attuale mix micidiale di centralismo e localismo.

Giorgio Pagano
L’autore è presidente di Funzionari senza Frontiere e segretario generale della Rete delle Città Strategiche; alla spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo.

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