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Valeriano, la verità sulla morte del soldato tedesco

a cura di in data 3 Luglio 2020 – 08:26

Il Secolo XIX, 1° luglio 2020 – Nell’articolo sul Secolo XIX del 26 giugno “Ucciso 75 anni fa a Vezzano, ora cercate i resti di quel soldato”, “un gruppo di appassionati di storia di guerra” propone di ritrovare un fante tedesco, “per riconsegnare le spoglie ai familiari”. Si sostiene che il nazista “sia stato lasciato nel suo cappotto, com’era, per rispetto” e sepolto vicino al cimitero di Valeriano; e che “una quarantina di anni fa la sua famiglia sia scesa dalla Germania a Vezzano per cercarlo, senza riuscirci”.
Le testimonianze di due partigiani di Valeriano del Battaglione “Zignago” della Colonna Giustizia e Libertà -ancora in vita, da me ben conosciuti- consentono di ricostruire la vicenda in ogni dettaglio.
Il 23 aprile, mentre le SAP (Squadre di Azione Patriottica) prendevano pacificamente il controllo della città, abbandonata da nazisti e fascisti in fuga, i partigiani dello “Zignago”, guidati dal comandante Amelio Guerrieri, scesero da Valeriano per occupare Migliarina e il porto. Le altre Brigate scesero dalla Foce per occupare l’Arsenale. Lo “Zignago” da Follo giunse a Bastremoli e da lì a Valeriano. Amelio si recò a Montalbano per piazzare alcuni mitragliatori. A Valeriano, vicino al cimitero, comparve un gruppo di tedeschi in fuga, guidato da un soldato con un drappo bianco in mano in segno di resa. Quando il tedesco si avvicinò cominciò a sparare. Un partigiano, in risposta, sparò e lo uccise. Gli altri tedeschi si dileguarono, “il traditore” fu sepolto vicino al luogo della morte. Dopo la Liberazione i familiari vennero a raccogliere la salma per portarla in Germania.

Il comportamento del tedesco non è facilmente spiegabile: era del tutto inutile. Gli angloamericani stavano arrivando a Spezia, già controllata dai partigiani; i sovietici erano già a Berlino. Eppure non mancarono episodi di segno analogo, come la battaglia di San Benedetto il 24 aprile, voluta dai tedeschi, che ebbero molte vittime. Un testimone mi ha raccontato che alcuni superstiti, la mattina dopo, scesero verso la Foce per consegnarsi. Camminavano con le mani alzate e i fucili a tracolla. Incontrarono i partigiani diretti a Spezia. Cinque tedeschi deposero le armi, uno ci ripensò, stava per sparare. I partigiani reagirono e li uccisero. Furono poi sepolti nel cimitero di Marinasco e portati in Germania dai parenti, a guerra finita.
Sono storie in cui l’esercizio della violenza appare come lo sbocco di un’accumulazione di lunga data. Ha ragione Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”: l’oppressore e la vittima “sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e l’ha fatta scattare”. Anche chi non ritiene la violenza un valore e anzi la ripudia, può trovare gli argomenti per giustificare -di fronte all’aggressione nazista e fascista, alle stragi, ai campi di sterminio- una pratica che smentisce il suo pensiero. Il cattolici democratico Alcide De Gasperi argomentò che la violenza a volte è legittima, come quella di Renzo contro don Rodrigo.

Italo Calvino, ne “Il sentiero dei nidi di ragno” scrisse: “Da noi, dai partigiani, niente va perduto, nessun gesto, nessun sparo va perduto. Tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire una umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”. La violenza di quegli anni preparò il passaggio a una riconsiderazione dei limiti del ricorso a essa e della possibilità di un suo uso contingente per renderla nel futuro impossibile. Amelio Guerrieri, grande comandante e grande uomo, mi diceva sempre: “La bontà è il motore della storia, che è lotta per la libertà”.

Giorgio Pagano
copresidente del Comitato Unitario della Resistenza,
autore di “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945”

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