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“Siberiana” di Luciana Castellina

a cura di in data 30 Marzo 2012 – 09:20

C’è il massiccio degli Urali che sorveglia oriente e occidente, ci sono mondi lontanissimi che si sfiorano, chilometri di terre senza fine, e un treno che le taglia di traverso, fino ai limiti più estremi. Ci sono un mucchio di libere associazioni che vengono in mente quando pensi alla Russia, se ancora pensi alla Russia, e non sei ottenebrato dal bau bau dell’impero del male: Dostoevskij, Pasternak ,“i domani che cantano” di un verso di Aragon, la rivoluzione d’ottobre, la piazza rossa, l’armata rossa (anche nel senso della squadra di calcio), il sol dell’avvenire, le contadine rubizze e le ragazze dall’incarnato abbacinante, e poi – di nuovo – i binari di una linea ferroviaria che corre all’infinito, la tratta più lunga del mondo, quella che da Mosca arriva al Mar del Giappone, quella della Transiberiana. Un filo rosso che unisce e che allontana di volta in volta, storie di storie, distanze siderali, persone, civiltà.

In occasione della Fiera del libro di Mosca, una delegazione italiana di scrittori e giornalisti compie il viaggio (iniziatico?) attraverso i mutamenti della nuova Russia: da Mosca a Novgorood, da Kazan a Ekaterimburg, e ancora molto più in là, di tappa in tappa, di paesaggio in paesaggio, di città in città, fino alle gelide città siberiane, ai confini dell’ex impero: cinque fusi orari e seimila chilometri dalla Capitale, anni luce di distanza da Mosca. Del drappello di viaggiatori Luciana Castellina è quella più adusa ai climi della Russia: comunista non ortodossa – tra i giornalisti fondatori del “Manifesto” – nell’Unione Sovietica prima e nella Russia del dopo PCUS è stata più volte: per dovere, amore, curiosità, lavoro, e per chissà quanti altri motivi, noti e meno noti. Il suo “Siberiana” (Nottetempo, 2012) è molto più che un libro di viaggio. “Siberiana” è un’articolata elegia, mai nostalgica e forse nemmeno voluta, su uno stato-nazione che è stato tutto/niente, bene/male, neo-prussiano, monolitico, faro ideologico, e comunque anche oggi – nell’evo no future che ha soppiantato quello dell’ideologia e di fatto lo ha sgretolato – imprescindibile. Non si pensi dunque a un’apologia filosovietica (la storia politica-culturale di Luciana Castellina è, in tal senso, al di sopra di ogni sospetto), “Siberiana” è soprattutto una corposa indagine storica e di costume, trasversale e policroma, adeguata alla varietà delle vedute che corrono attraverso i finestrini del treno, alle case, ai monumenti, alle piazze visitate: dai fitti boschi di betulle all’immenso lago Bajkal. Gli appunti di viaggio della Castellina rimandano alla stupefazione del viaggio spazio-temporale, attraverso i multiformi strati che la geografia siberiana rivela. Alla constatazione agrodolce di un presente contraddittorio (ma quanti negozi Max Mara e filiali di Banche Intesa ci sono oggi a Mosca?) si alternano i ricordi personali di una testimone del tempo e le microstorie del crogiolo di razze come soltanto in Russia se ne possono incontrare: storie piccole e grandi, personaggi e fantasmi emersi tra le anse di un passato da storicizzare, e a dispetto dei luoghi comuni non soltanto in negativo.

“Poiché l’Urss era tanto russa, la Russia assomiglia ancora tanto all’Urss. – scrive la Castellina nel suo incipit – E cosí, quando arrivo – dopo diciotto anni dal mio ultimo viaggio in questo paese (…) mi sembra che nella sostanza sia cambiato poco (oltre al look): abbondanza di caffè (prima inesistenti), blue jeans, minigonne e una massiccia, pervasiva pubblicità che oscura palazzi e natura. (Ricordo che quando venni in Unione Sovietica la prima volta, nel ’57, all’inizio non mi capacitavo che Mosca fosse cosí diversa dal resto del mondo. Poi capii: non c’era nemmeno un cartellone pubblicitario!). L’ultima visita era stata nell’autunno del ’93, quando la città era già trasformata. Non era più l’austera capitale sovietica, la pubblicità aveva già cominciato a occupare l’orizzonte e, di conseguenza, i negozi si erano riempiti di beni di consumo (…) Alle prese con gli esordi di un capitalismo selvaggio (…) il vecchio welfare cancellato (case bruttissime ma gratuite, sanità, pensioni decenti, lavoro sicuro che (…) non era neppure tanto male), i vantaggi del nuovo sistema ancora non manifesti, inflazione al 500%, vecchi senza tetto e bambini abbandonati alla strada”.
Per la pur disincantata Castellina (e per il lettore con lei) ne conseguono un groppone in gola grande così, un senso di saudade alla Russa, e il “rovello che ti lascia una società difficile da capire. E infatti, poi, non si smette di cercare”.

Uno dei più convincenti reportage sulla Russia passata e presente: un libro narrato con l’immediatezza della giornalista e la profondità della grande scrittrice. Da non perdere.

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