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L’antifascismo oggi

a cura di in data 26 Settembre 2021 – 21:05

Festa della Sezione ANPI di Pitelli
Falconara 29 agosto 2021
Intervento di Giorgio Pagano, Co-presidente del Comitato Unitario della Resistenza

L’offensiva revisionista in corso dagli anni Ottanta, spinta dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza e dell’antifascismo, ha raccolto ben più di un successo.
Il problema vero, ha scritto recentemente la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”.
Se così è, serve tornare testardamente a raccontare la storia e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato.
Come fa l’Anpi, come fanno in tanti, come faccio anch’io nel mio piccolo ruolo di “narratore di storie e di speranze”. Emerge in questo modo un’esperienza collettiva e di popolo, che vide protagonisti non solo gli eroi della Resistenza armata ma anche quelli della Resistenza civile.

Serve anche tornare a raccontare che cosa fu il fascismo: il fulcro di questo racconto è la violenza.
L’articolo di Giovanni Zibordi sul giornale genovese “Il Lavoro” del 22 dicembre 1921, intitolato “Il bilancio consuntivo del fascismo pel 1921”, insisteva sulla violenza del fascismo come “sistema”:
“La violenza fascista è sistematica e sistematizzata con potente, palese, dichiarata organizzazione; la violenza fascista è programmatica e teorizzata e preparata metodicamente, come un mezzo ordinario di propaganda e di azione”.
La violenza fascista assumerà, nel 1922, un carattere sempre più sistematico, fino alla marcia su Roma e al “ristabilimento dell’ordine”. Ma quale ordine? Aveva già visto tutto, o almeno l’essenziale, Giuseppe Bertelli, in un articolo sul giornale anarchico spezzino “Il libertario” dell’8 febbraio 1921:
“Qual è il fine dei fascisti? ‘La difesa della patria e dell’ordine’, rispondono essi? Ma quale patria: quella di oggi o quella di domani? Quale ordine? Quello del lavoro o quello dei pescicani?”.

Se raccontiamo questa storia, queste storie, ci accorgiamo sì della portata del revisionismo, ma anche dei risultati nonostante tutto raggiunti grazie alla Resistenza: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro. Delle ragioni di quel miracolo lontano ci resta la speranza della partecipazione, la voglia di prendere in mano la nostra vita.
L’antifascismo è dunque una cultura “fondante”, che serve nel mutare dei tempi.

Leggiamo le parole profetiche dello storico Sergio Luzzatto in “La crisi dell’antifascismo” (2004):
“In un giorno non lontano, fuori d’Italia e forse anche dentro il nemico avrà un altro nome e un altro volto. Probabilmente quel nuovo ‘ismo’ ancora da battezzare sarà una miscela di rigurgito patriottico e di anelito mistico, di religione del mercato e di ideologia dello scontro tra civiltà: sarà un ‘totalitarismo democratico’ che pretenderà di far coincidere la globalizzazione economica con l’occidentalizzazione politica e culturale del pianeta, una guerra dopo l’altra, sempre più restringendo e privatizzando le libertà civili. Entro un simile scenario, e mentre la fragilità della democrazia appare evidente persino tra le mura del tempio americano, come non riconoscere che quanto noi italiani intendiamo per antifascismo minaccia di riuscire un patrimonio di cose non solo desuete, ma anche periferiche, marginali?
Insomma, può ben darsi che l’antifascismo giaccia oggi sul suo letto di morte: malato terminale di ritualità, di credibilità, di senilità, e addirittura di eccentricità. Ma può essere che valga la pena di impegnarsi a mantenerlo in vita ancora un po’ -almeno finché non si sia trovato di meglio- senza meritare con questo una denuncia per accanimento terapeutico. E forse il tentativo è tanto più opportuno o addirittura necessario nel contesto della vita politica italiana, dove la morte dell’antifascismo rischia di significare non già una rinascita, ma l’agonia della democrazia”.

E’ così: non c’è democrazia senza antifascismo. Non è vero che l’antifascismo è giunto al tramonto. E’ più attuale che mai, contro quei nuovi “ismi” che prevedeva Luzzatto: sovranismo cioè nazionalismo aggressivo ed escludente. Presente in tutti i Paesi, declinato in tanti sotto “ismi” diversi.
Ancora la Patria, come diceva l’anarchico Bertelli nel 1921… Ancora la Nazione, la Tradizione…
Oggi i leader di questi “ismi” dicono “Prima gli italiani” e cantano “Non passa lo straniero”.
Ma quando gli stranieri erano gli occupanti tedeschi -ha scritto Carlo Greppi- “i loro vassalli fascisti […] li affiancavano -e molto volentieri- nelle stragi dei civili (italiani), nelle cacce all’uomo e nelle deportazioni degli oppositori politici (prevalentemente italiani) ed ebrei (prevalentemente italiani)”.

C’è un “fascismo eterno”.
Ha scritto Umberto Eco (1995): “Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia”.
Caratteristiche tipiche del “fascismo eterno”, secondo Eco, sono il culto della tradizione, il culto dell’azione per l’azione e il sospetto verso il mondo intellettuale, la paura della differenza e il razzismo, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto e la xenofobia, la concezione della vita come una guerra permanente, l’elitismo e il disprezzo per i deboli, il culto della morte, il machismo, il populismo e il disprezzo per il Parlamento.
E c’è un “antifascismo eterno”.
Ha scritto Giovanni De Luna (1995):
“Ci si può riferire all’antifascismo come a una forma particolare della concezione della politica totalmente svincolata dal canonico ambito cronologico del ventennio fascista e definita attraverso elementi che appartengono drammaticamente alla realtà del nostro tempo: la tolleranza, la libertà, i diritti degli uomini, l’uguaglianza, la giustizia, il rispetto delle regole e della convivenza civile”.

Dobbiamo aggiungere: la pace, una rinnovata coesistenza pacifica.
Riflettiamo sull’invasione dell’Afghanistan: iniziata vent’anni fa spodestando l’emirato islamico afghano, cioè il governo dei talebani, e avviando un’occupazione militare assurda e tragica, si conclude, davanti alla dissoluzione delle strutture di uno Stato fantoccio, con la restaurazione dell’emirato. Si tratta di una storica sconfitta politica e militare.
Si chiude così un conflitto durato più del doppio della somma dei periodi delle due guerre mondiali, con costi giganteschi, 241mila morti (di cui oltre 70mila civili) secondo il (prudente) report del Watson Institute, un’inflazione galoppante, una produzione di oppio mai vista in passato, una corruzione dilagante a cominciare dalle più alte autorità di governo, l’inesistenza di una campagna di vaccinazione anti Covid, una quantità di investimenti nel settore civile irrisoria rispetto alle spese militari. Chi ha guadagnato cifre colossali sono state la lobby delle armi e le agenzie di contractor, cioè di mercenari, che hanno partecipato alla guerra con più di 100mila uomini.
Non è la fine dell’Occidente, ma il segno che l’Occidente non può da solo governare il mondo: la popolazione occidentale è solo l’8% del mondo.
E’ la prova che la democrazia non si esporta con l’inganno delle “guerre umanitarie”, ma si costruisce con la cooperazione e con gli interventi civili, come ci ha insegnato un grande antifascista: Gino Strada.

“Antifascismo eterno” significa, per ognuno di noi, non farsi tagliare fuori dalla storia, reagire all’impotenza, riscoprirsi soggetti e non solo sudditi plaudenti. Come fu per i partigiani e per i resistenti. La Liberazione come risultato della Resistenza è l’effetto di un impegno e di una convinzione. La convinzione, dice Giacomo Ulivi nel libro più bello, “Le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”, che “il nostro interesse e quello della ‘cosa pubblica’ finiscono per coincidere”. Un’adesione che nasce da un’urgenza e dà all’incombere di un tempo presente deciso da altri l’orizzonte progettuale del futuro: “Come vorremmo vivere, domani?”. Una domanda che è un risveglio e non concede ritirate o scappatoie. “Non dite -prosegue Ulivi- di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!”.
Prendere in mano il proprio tempo a costo di sacrificare la vita. Ritrovare il coraggio e mettere a soqquadro certezze, consuetudini, credenze: “gli uomini della Resistenza” -scrive Giacomo Noventa- “avevano combattuto, prima ancora che contro il fascismo, contro se stessi. Avevano dovuto mettere un segno interrogativo o negativo a tutto ciò che avevano pensato essi stessi, rompere tutti gli schemi, sconvolgere le proprie abitudini di ragazzi o di uomini, i propri rapporti familiari, sentimentali e sociali, in una parola tutto il proprio pensiero e la propria vita”. E questo vale ancor più per le ragazze e per le donne, il cui ruolo nella Resistenza fu decisivo.
La Liberazione è la scossa che spalanca la possibilità di un’alternativa, l’atto che inaugura un nuovo rapporto con se stessi e prelude alla libertà. Di questa scossa abbiamo bisogno per un rinnovato antifascismo.

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