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Commemorazione di Piero Borrotzu – Sesta Godano 4 Giugno 2021

a cura di in data 17 Giugno 2021 – 20:22

COMMEMORAZIONE DI PIERO BORROTZU
Sesta Godano 4 giugno 2021
Intervento di Giorgio Pagano
Copresidente del Comitato Unitario della Resistenza

Care cittadini, cari cittadini
Caro Sindaco, Autorità
Come ogni anno la comunità di Sesta Godano e l’antifascismo spezzino ricordano l’eroico sacrificio di Piero Borrotzu, il partigiano “Tenente Piero”, Medaglia d’Oro al Valor Militare. Era il 5 aprile 1944. All’alba Borrotzu, “offertosi volontariamente al nemico per salvare da strage un paese innocente” (come recita la lapide murata a fianco della chiesa di Chiusola), fu ucciso dai nazifascisti. Nella sua tomba a Vezzano Ligure, il paese natio della madre, è scritto: “lottò e morì con la virtù di un cavaliere antico”.
Borrotzu nacque cento anni fa, il 25 aprile 1921, a Orani (Nuoro).
Il 25 aprile scorso, il giorno del centenario, una persona sconosciuta ha pubblicato una pagina a pagamento sui principali quotidiani. Il titolo era “Tenente Piero Borrotzu” e subito dopo, tra virgolette, la frase che Borrotzu era solito affermare, e le parole gridate in punto di morte:
“A tutto ci si può adattare, tranne che alla servitù. Viva l’Italia libera”.
Il testo, dopo una bellissima foto del “Tenente Piero”, così proseguiva:
“Trucidato a 22 anni dagli occupanti nazisti.
Consegna se stesso ai suoi aguzzini, in cambio della vita degli abitanti di Chiusola.
Probabilmente fu un socialista umanitario. Di certo fu umano.
La libertà non ha prezzo, ma qualcuno, spesso, l’ha pagata per noi.
Questa pagina è dedicata a tutti i pensatori brevi che riconoscono la misura del mondo solo quando si esaurisce e le cose indispensabili solo quando svaniscono”.
I pensatori brevi riflettano sulla vita di Piero Borrotzu.
L’8 settembre 1943, ufficiale dell’esercito, era a Milano: indignato per il contegno dei capi militari in fuga, da allora capì che se voleva fare qualcosa non doveva attendere ordini dall’alto. Fuggì con un carico di armi e raggiunse, tramite il parente Antonio Ferrari, il movimento cospirativo legato a “Giustizia e Libertà” che il colonnello Giulio Bottari stava organizzando a Vezzano. Nel gruppo entrarono a far parte anche Franco Coni, nato a Cagliari, che di Borrotzu era stato compagno di Accademia, e un altro sardo, Antonio Mereu. Coni diventerà uno dei comandanti più valorosi della nostra Resistenza. Mereu, presto individuato, dovette passare in Romagna, dove divenne uno dei migliori comandanti di compagnia della 36ma Brigata Garibaldi: morì combattendo il 12 ottobre 1944. Tutti e tre indomiti ribelli, entusiasti e difficili da tenere a freno, ha raccontato il comandante giellista Vero Del Carpio.
Dopo un tradimento, il “gruppo Bottari” si spostò a Torpiana di Zignago. La brigata guidata dal “Tenente Piero” si insediò nella zona di Antessio, Airola e Chiusola, sotto il monte Gottero, e si contraddistinse per azioni valorose. Dopo l’assalto alla caserma fascista di Carro per fare incetta di armi, Borrotzu e i suoi si mossero verso Groppo, inseguiti dai repubblichini. Il fuoco nemico uccise un partigiano barese, Serafino Giovannello, mentre, assediati e ormai sconfitti, si diedero la morte l’aretino Arrigo Scopecchi e Hans, un disertore tedesco che si era unito ai partigiani. Era il 26 marzo 1944: i compagni del “tenente Piero” furono i primi partigiani caduti nel territorio della nostra provincia. Pensate, tra loro c’era anche un disertore tedesco: la prova che la Resistenza italiana ha un significato che trascende l’ambito nazionale. E che si svolse nell’ambito della “guerra popolare europea” contro il nazismo.
Il 3 aprile il comando tedesco spezzino decise “un grande e salutare rastrellamento” in tutta l’Alta Val di Vara.
La sera del 4 aprile Borrotzu si recò a Chiusola per informarsi su quanto stava accadendo e dormì, contro ogni sua abitudine, in paese. Chiusola, all’alba del 5 aprile, si svegliò tra le urla e i mitra spianati dei militari tedeschi, che, probabilmente a seguito di una delazione, agirono insieme ad alcuni fascisti repubblichini e della famigerata Decima Mas, i quali tradussero alla popolazione terrorizzata gli ordini. La gente, ancora assonnata, fu portata via dalle case e radunata sul piazzale della chiesa di San Michele: lo scopo era quello di compiere una rappresaglia, comminando una punizione esemplare a chi appoggiava i “ribelli”. Borrotzu non venne scoperto e avrebbe potuto sicuramente salvarsi, se lo avesse voluto, saltando dalla finestra sul retro della casa che lo ospitava, facendosi strada con una mitraglietta francese che aveva con sé per eliminare i due-tre tedeschi vicini all’abitazione, fuggendo poi nel bosco. Invece si vestì e, per evitare il massacro di persone innocenti, si presentò spontaneamente ai nemici. Spinto dentro una casa, dove venne percosso duramente, fu poi condotto, sanguinante e con il volto tumefatto, sul piazzale della chiesa: qui l’ufficiale tedesco responsabile dell’azione liberò gran parte dei settanta prigionieri, tranne che cinque uomini i quali, portati via, solo per un caso riuscirono a loro volta a salvarsi, e diede l’ordine, eseguito da un plotone fascista, di fucilare Borrotzu. Fu in questo frangente che, secondo i testimoni, nonostante la precaria condizione fisica per le percosse subite, egli scattò sull’attenti e gridò “Viva l’Italia libera”.
Forse il “Tenente Piero” era un socialista umanitario -socialiste erano le radici della famiglia materna-, forse era un “badogliano”, un monarchico. Certamente era umano.
Aveva tutte le doti per essere definito un vero capo partigiano: la dedizione alla causa della libertà; il contegno irreprensibile verso i civili e gli uomini da lui comandati; il carisma, tant’è che un tedesco disertò per combattere con lui; la generosità e la lealtà, forse troppa, verso il nemico: lo studioso Giulio Mongatti ha scritto, sulla base di testimonianze raccolte, che ai “fascisti catturati a Castello di Carro non torse un capello, e persino rimborsò a uno mille lire, che asseriva essergli state sottratte”.
Un amico storico mi ha chiesto recentemente quali sono le figure carismatiche e leggendarie della nostra Resistenza. Gli ho risposto che i comandanti carismatici furono molti, e molti gli eroi. Ma che l’aggettivo “leggendario” forse si attaglia solo a due figure, davvero entrate nella leggenda, che ogni anno vengono ricordate nell’anniversario della morte dalla gente delle valli e delle montagne: Piero Borrotzu “Tenente Piero” e Dante Castellucci “Facio”. Guido di Canaverbone, l’ultimo pastore del Gottero, che accompagnò Borrotzu a Chiusola la sera del 4 aprile 1944 e che subito seppe della tragica morte di “Facio” il 22 luglio 1944 ad Adelano di Zeri, è uno dei testimoni ancora in vita che trasmette la memoria popolare della Val di Vara e dello Zerasco. La memoria che dice: “Piero salvò Chiusola, ‘Facio’ ci avrebbe salvato dal rastrellamento del 3-4 agosto”.
Sempre il 5 aprile altri tre uomini della banda del “Tenente Piero” e della banda Beretta, il parmense Elio Pavesi, il ragusano Giovanni Salice e il cosentino Salvatore Icones, catturati dai tedeschi a Pian di Mezzo, vennero condotti a Sesta Godano e, di fronte alla gente costretta ad assistere, fucilati in questa piazza. Altri due partigiani furono uccisi dopo un feroce interrogatorio e i loro corpi abbandonati vicino al passo di Cento Croci.
Tra l’aprile del 1944 e l’aprile del 1945 ci furono altre, inaudite, sofferenze. Pensiamo, sul Monte Gottero, al rastrellamento del 3-4 agosto 1944 e poi al rastrellamento ancora più grande e terribile: quello del 20 gennaio 1945. Ma i partigiani non si arresero mai. Venne il 25 aprile. I partigiani scesero dalle valli e dalle montagne e liberarono Spezia.
Come poté accadere? Accadde perché la Resistenza, e la nostra in particolare, fu un grande moto popolare. Tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche ai contadini. E decisive furono le donne. Se gli operai, a partire dal grande sciopero del marzo 1944, diedero alla Resistenza il tratto della lotta di classe, le manifestazioni di assistenza che videro protagonista il mondo contadino introdussero nella nostra vicenda resistenziale un tratto più ampio di quello della lotta di classe. Tutti gli strati sociali parteciparono: non è vero che il popolo fu scoraggiato e silente. La Resistenza fu una guerra popolare perché il popolo -anche le donne, che sono coloro che più aborrono le guerre- ne comprese il significato e diede tutto se stesso nella lotta per la sopravvivenza, perché anche di questo si trattò, e per la vittoria. I partigiani dei nostri monti sopravvissero nei durissimi inverni 1943-1944 e 1944-1945 soprattutto grazie alle famiglie contadine e alle coraggiose donne di queste valli e di queste montagne, che li ospitarono e li sfamarono per mesi. Oggi ricordiamo dunque non solo lo scontro bellico ma anche la corposità e l’intensità della Resistenza non armata; non solo l’eroe Piero Borrotzu, ma anche le donne, gli operai, i contadini, i ragazzi, i sacerdoti.
Ricordiamo, con il “Tenente Piero”, anche gli uomini del Sud: se è vero che l’esercito del Regno del Sud non partecipò, sostanzialmente, alla guerra antitedesca, è anche vero, però, che molti meridionali diventarono partigiani al Nord. Nella Resistenza spezzina, oltre a Borrotzu e a molti suoi uomini, che ho ricordato, altri due nomi per tutti: il calabrese Dante Castellucci “Facio”, comandante del Battaglione “Picelli”, e il siciliano Antonio Siligato “Nino”, eroe della Brigata “Cento Croci”.
Il sacrificio di Piero Borrotzu ci fa capire che cosa fu alla radice di tutta la Resistenza, armata e civile: la scelta morale. La scelta per il bene contro il male, per la libertà contro la dittatura, per la vita intesa come cammino non solo individuale ma anche collettivo, per gli altri e con gli altri. La vita intesa come farsi carico della sofferenza degli altri.
Una scelta rivoluzionaria, l’unica capace di cambiare il mondo. L’apertura incondizionata verso l’altro è la cultura di cui abbiamo bisogno. E’ la riflessione di don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa”: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. L’immedesimarsi nell’altro per cercare tutti insieme di liberare, di autogovernare, di rendere degne le nostre vite: ecco la lezione perenne di Piero Borrotzu.
E’ vero, ci sono i “pensatori brevi”. L’offensiva revisionista in corso dagli anni Ottanta, animata dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza, ha raccolto ben più di un successo. Il problema vero, ha scritto la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”. Se così è, serve tornare testardamente a raccontare la storia della Resistenza e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato. Oggi, ricordando Piero Borrotzu, abbiamo raccontato la storia, contro i “pensatori brevi” e la memoria “drogata e deformata”.
A 75 anni dal 2 giugno 1946 e dalla conquista della Repubblica siamo consapevoli della portata del revisionismo, ma anche dei risultati nonostante tutto raggiunti grazie alla Resistenza: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura fascista, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro. Delle ragioni di quel miracolo lontano ci resta la speranza della partecipazione, la voglia di prendere in mano la nostra vita.
Concludo con le parole che dedico sempre a ogni partigiano di “Giustizia e Libertà”. Sono i versi del canto della Colonna, ripresi da una canzone creata nel marzo 1944 da alcuni partigiani garibaldini dell’Appennino ligure-piemontese nella zona del monte Tobbio. Ha per titolo “Siamo i ribelli della montagna”:

“Di giustizia è la nostra disciplina
libertà è l’idea che si avvicina…
Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell’avvenir”

Si sente vibrare, in questi versi, la tensione utopica e la grande carica di idealità civile e politica che animò la stagione partigiana. Qualche settimana dopo la composizione di questo inno, sull’altopiano del Tobbio si abbatté un uragano di ferro e di fuoco e molti di quei coraggiosi “ribelli della montagna” furono fucilati alla Benedicta o al passo del Turchino. Con i sopravvissuti sopravvisse anche il canto, che accompagnò il movimento di liberazione ligure fino alla vittoria finale. Il commissario politico della Colonna Cesare Godano “Gatto” in un suo libro lo ricorda cantato dai compagni della Terza Compagnia, quella di Amelio Guerrieri “Amelio”, come sottofondo ottimistico ai suoi pensieri dubbiosi di allora sul futuro dell’Italia dopo la Resistenza. I fatti gli daranno in buona parte ragione. Eppure, in questi tempi difficili, non si può che tornare ai valori di allora, agli anticorpi mai andati perduti. Tutto deve ripartire da lì: dalla giustizia, dalla libertà, dalla fede come speranza.
Grazie “Tenente Piero” per il tuo sacrificio.
Ora e sempre Resistenza!

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