Presentazione alla Spezia di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Venerdì 5 aprile ore 17 alla Biblioteca Civica Arzelà di Ponzano Magra
28 Marzo 2024 – 08:58

Presentazione alla Spezia di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiVenerdì 5 aprile ore 17Biblioteca Civica Arzelà – PONZANO MAGRA
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Anniversario del rastrellamento del 29 novembre 1944 – Santo Stefano Magra – 2021

a cura di in data 27 Dicembre 2021 – 23:50

ANNIVERSARIO DEL RASTRELLAMENTO DEL 29 NOVEMBRE 1944
Santo Stefano Magra 29 novembre 2021
Intervento di Giorgio Pagano
Co presidente del Comitato Unitario della Resistenza

Siamo qui, come ogni anno, a ricordare il grande rastrellamento del 29 novembre 1944 in Val di Magra e nel territorio apuano, tra le province della Spezia e di Massa Carrara: una lunga giornata, una resistenza epica. Il disegno nazifascista di annientare le formazioni partigiane della zona fallì, ma i colpi subiti, dai partigiani e dalle popolazioni, furono durissimi.
Nell’autunno del 1944 la ritirata tedesca si era assestata lungo la cosiddetta “Linea Gotica”, che si estendeva lungo l’Appennino da Rimini fino alla provincia di Massa Carrara. Il 13 novembre venne emanato, sulle frequenze di Radio Londra, il “proclama Alexander”, con il quale il generale inglese invitava tutte le formazioni partigiane a sospendere le operazioni per tutta la durata dell’inverno. Gli alleati angloamericani avevano deciso di sospendere l’offensiva sulla “Linea Gotica”. La provincia di Massa Carrara e parte della Garfagnana rimanevano quindi ancora in mano ai nazifascisti, mentre il resto della Toscana era già stato liberato. Le formazioni partigiane e le popolazioni più vicine al fronte aspiravano a un avanzamento degli alleati, e rimasero profondamente deluse. Le aspettava un altro inverno di isolamento e di sofferenze. Ci fu un tentativo di attacco combinato partigiani-alleati -il 27 novembre- ma fallì. Quel giorno, a Monte d’Anima, a sud di Castelnuovo Garfagnana, morì il sarzanese Miro Luperi, della Brigata “Muccini”, medaglia d’oro al valor militare.

I nazi-fascisti approfittarono della situazione per far partire una serie di attacchi mirati alla distruzione delle maggiori brigate, che in quel momento controllavano vaste porzioni del territorio.
All’alba del 29 novembre reparti tedeschi e fascisti si schierarono nel fondovalle del Magra, tra Santo Stefano e il carrarese. L’obiettivo era attaccare i partigiani e costringerli a “sganciarsi” verso la pianura sarzanese, dove altre truppe nazifasciste li avrebbero presi facilmente in trappola. L’unica possibilità di salvezza era rallentare il nemico e tenere aperta la sola via di ritirata, quella di Fosdinovo verso le Apuane e il fronte.
In Val di Magra operava la Brigata “Muccini”. Il vicecomandante, Flavio Bertone “Walter”, fu avvisato alle cinque del mattino, e svegliò il comandante, Piero Galantini “Federico”, che lì per lì non si preoccupò. Ma poi si accorse di quanto fossero vicini i nazifascisti. Per tutta la giornata del 29 novembre i reparti della Brigata difesero le creste collinari tra il Monte Grosso e il paese di Fosdinovo, collaborando con quelli della II Brigata “Lunense”. Al tramonto i rastrellatori interruppero la loro azione senza essere riusciti a raggiungere il crinale. Nel corso della notte i partigiani si nascosero nei boschi a sud di Fosdinovo.

Un ruolo importante lo ebbero i partigiani santostefanesi del Battaglione “Signanini”, che faceva parte della “Muccini” ed era al comando di Primo Battistini “Tullio”. Furono prontamente informati dalle staffette, in gran parte giovani di 13-15 anni. Dalla cima del campanile di Ponzano Superiore prima “Tullio”, poi Italo Orlandini “Wampa” rallentarono l’avanzata nemica con la mitragliatrice. Il resto della “Muccini” si salvò anche grazie ai santostefanesi. Alle Quattro Strade, a sud del Monte Grosso, combatterono eroicamente i partigiani santostefanesi del Distaccamento “Baruzzo” del Battaglione Signanini, al comando di Emilio Battistini “Ken”. Tra loro si distinse Carlino Ferrarini “Crispino”, addetto alla mitragliatrice.

Il 30 novembre i partigiani rimasero nascosti, ma al calar della notte si avviarono verso il monte Sagro. Purtroppo si imbatterono nei tedeschi e si dispersero. Molti passarono le linee e raggiunsero le zone già liberate, come “Federico” e “Tullio” con altri santostefanesi. Una minoranza, guidata da “Walter”, restò in zona, con altri santostefanesi, e ricostituì la Brigata. “Tullio”, grazie agli Alleati, riuscì in seguito a tornare e a combattere in Val di Magra.

Il tributo di sangue del rastrellamento fu doloroso. Tra i partigiani uccisi vi fu, nella vallata tra Gignago e Caprognano, il santostefanese Ferruccio Matelli “Tarzan”, del Distaccamento “Cheirasco” della “Muccini”. E Filippo Battilani, che aveva fatto parte del gruppo di Monte d’Anima, con Miro Luperi. Leggiamo la sua storia nel libro “La lunga estate”, scritto dal partigiano Lido Galletto “Orti”, comandante del “Cheirasco”:
“Dopo le cruente esperienze alle quali avevano partecipato […] il gruppo dei quattro partigiani dei distaccamenti della ‘Ugo Muccini’, fra i quali Filippo Battilani di Santo Stefano Magra del Battaglione ‘Signanini’ di ‘Tullio’, decidevano di non aggregarsi alla maggioranza, che passerà il fronte, ma di rientrare nel territorio. Le vicissitudini a cui parteciperanno, dopo il fallito attacco della notte del 25 novembre 1944, li porterà a trovarsi nella giornata del 29 novembre a Vinca, dove sosteranno. Nella notte tra il 29 e il 30 novembre, con l’aiuto di una guida del paese riescono a raggiungere la zona di Campo Cecina, ed all’alba si incanalano, guidati dai quattro partigiani, verso Bolignano per tornare nella Val d’Isolone e del Calcandola. Mentre transitano nella Val di Bolignano, cantando, ormai felici di essere vicini alla loro terra, ignorando il rastrellamento in corso, un reparto di Alpini Tedeschi, piazzati sulla rocca di Tenerano, li mitraglia dall’alto uccidendo Filippo Battilani, di anni diciannove di Santo Stefano Magra, che cadde sul pianoro in prossimità della baita della famiglia Tonetti e dove lo ritroverà qualche giorno dopo Dino [Dino è nel libro il nome dell’autore, Lido Galletto] quando, solitario, arriverà a Bolignano”.

Tragico ma bellissimo nel suo significato fu l’episodio della morte degli amici fraterni Domenico Diamanti e Guido Gramolazzo, della II Brigata “Lunense”: il primo fu ferito, il secondo lo prese in spalla per cercare di salvarlo, ma furono intercettati e falciati a colpi di mitraglia dai nazifascisti. Il valore dell’amicizia è rivelatore di una Resistenza con un forte tratto di umanità e moralità.

La popolazione civile venne completamente investita dal rastrellamento e costretta a nascondersi in rifugi predisposti da tempo. Molti furono i morti anche tra i civili, mentre coloro che vennero fatti prigionieri furono rinchiusi nell’ex colonia “Italo Balbo” di Marinella, in attesa di essere deportati nel campo di lavoro di Turckheim, vicino a Monaco di Baviera, dove sarebbero diventati la nuova forza lavoro del Terzo Reich. I più fortunati avrebbero fatto ritorno a casa solo dopo la fine della guerra. Altri civili vennero fatti prigionieri e tenuti come ostaggi, pronti per essere utilizzati come vittime sacrificali nelle rappresaglie.

Fondamentale fu il ruolo delle donne, che affrontarono coraggiosamente il nemico. Leggiamo un testo della trasmissione “Un popolo alla macchia. 29 novembre 1944-2004” andata in onda su Contatto Radio Popolare Network il 25 aprile 2005, a cura di Archivi della Resistenza:
“Costretti a scappare dalle truppe occupanti o a nascondersi in sicuri rifugi, gli uomini in forza e in età di leva obbligatoria abbandonarono le proprie case lasciando spesso le donne da sole. Nei racconti sul rastrellamento del 29 novembre le donne affrontano coraggiosamente il nemico che viola la propria casa ricorrendo ai più svariati stratagemmi e alle tecniche di dissuasione tipiche della creatività di genere: dal fingersi affette da malattie infettive (ben sapendo della paura che i tedeschi avevano delle malattie) a cucinare per i nemici, mantenendo la calma e fingendosi disinteressate della sorte di mariti, fratelli e compagni fuggiti ai monti. Molte madri incuranti del fuoco tedesco raggiunsero i luoghi dello scontro pur di rassicurarsi sulle condizioni dei propri figli”.
Ecco alcune testimonianze raccolte nel libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Sebben che siamo donne”:
“Aldemara Gianrossi, di Caprognano di Fosdinovo, ebbe la casa invasa dai tedeschi. Videro alla parete una fotografia del suocero scomparso, lei disse: ‘E’ morto di Tbc”. E poi: ‘Qui partigiani non ce n’è’. Loro non salirono, un po’ per paura della malattia, un po’ perché si fidarono, e gli uomini in soffitta si salvarono. Maria Carlini, di Ca¬stelnuovo, era nei campi a fare l’erba, sentì gli spari che arrivavano dalla Querciola e fece appena in tempo a ripararsi in casa. Arrivarono i tedeschi: ‘Aprite, ci sono i partigiani?’. Mentre il padre non voleva aprire, la madre fu abile, aprì e disse loro: ‘Volete mangiare qualco¬sa?’. Maria racconta: ‘Li fece sedere, offrì frittelle, sgabei, pane fatto in casa… loro si calmarono’. Lo stesso stratagemma di Diomira Corsi, della Colombiera di Castelnuovo. Nella Lazzini, di Caprognano, vide salire al mattino i nazifascisti, preparò tutto il giorno frittelle con la farina per i partigiani che ripiegavano. Due partigiani bussarono alla porta della casa di Elia Masetti, nella valle d’Isolone: ‘Mia madre fece le frittelle… Poi fuori vedemmo il corpo di un partigiano ucciso, e una ventina di prigionieri rastrellati’. Gli uomini si nascosero dappertut¬to: gallerie, tane, soffitte, cantine… Le donne portavano la polenta in questi rifugi. Nando Franceschini della Bradia di Sarzana si chiuse in una botte, la moglie Esterina gli dava da mangiare quando poteva”.

Riprendiamo la lettura di “Un popolo alla macchia. 29 novembre 1944-2004” con un testo dedicato all’accanimento sui corpi:
“La guerra alle bande messa in pratica dagli eserciti occupanti conobbe spesso un particolare accanimento sui corpi dei partigiani. I nazifascisti impedirono quasi sistematicamente che le vittime delle loro rappresaglie venissero seppellite minacciando la popolazione civile di ulteriori punizioni. Raccogliendo testimonianze è frequente imbattersi in racconti di funerali clandestini fatti in gran segreto, a volte celebrati dai compagni di battaglia tenendo all’oscuro persino la famiglia del defunto per evitare ritorsioni da parte delle camicie nere. Molti dei partigiani caduti in combattimento saranno sepolti in montagna e riportati a valle soltanto a Liberazione avvenuta. Altri sepolti di notte al cimitero trasportando la salma attraverso i boschi”.
Molte donne si dimostrarono incapaci di negare un gesto di pietà nei confronti dei partigiani uccisi e a rischio della propria vita si preoccuparono di recuperare i cadaveri e di organizzare i funerali.
Sul tema della cura dei corpi ecco alcune testimonianze raccolte in “Sebben che siamo donne”:
“Gemma Tenerani, della piana di Castelnuovo, ricorda la morte del fratello Rufinengo e di altri due partigiani del Distaccamento ‘Ubaldo Cheirasco’: ‘L’ultima volta che lo vidi mi salutò cantando ‘Fischia il vento’ con altri partigiani… I loro corpi furono ritrovati da un pa¬store ventidue giorni dopo, fummo noi donne a organizzare il tra¬sporto ai cimiteri dei nostri cari’. Armanda Marchi, di Castelnuovo, vide i morti accatastati in un carretto: ‘Prendemmo un mazzo di fiori e lo posammo sul carretto… Le donne venivano a portar via i loro morti’.

L’inverno del 1944 fu davvero il momento più duro per la Resistenza in Val di Magra e in tutta l’Italia settentrionale. Privati del sostegno degli alleati, i partigiani si trovarono ben presto senza armi. Le rigide condizioni climatiche, inoltre, determinarono enormi difficoltà dal punto di vista alimentare per tutta la popolazione civile, e di rimando per le formazioni partigiane che da essa erano sostenute. Le truppe occupanti, con lo scopo di “pulire” e rendere sicure le zone d’operazione, emanavano ordini di sfollamento, costringendo migliaia di persone ad abbandonare le proprie case e i propri paesi. Moltissime brigate partigiane accusarono il colpo e si smembrarono, riuscendo a riorganizzarsi solo nella primavera del 1945, in vista dell’attacco finale. Molte, però, furono le formazioni che, seppur decimate, continuarono le operazioni di attacco all’esercito occupante. Una pagina di epopea ed eroismo fu scritta da coloro che ebbero la forza e la volontà di restare nel territorio.

Nella “Muccini” il comandante Piero Galantini “Federico” passò le linee. Flavio Bertone “Walter” e Paolino Ranieri “Andrea” rimasero invece nascosti nei boschi della zona per occuparsi dei feriti. “Andrea” cadde in un’imboscata il 14 dicembre proprio mentre era in cerca di medicinali, fu ferito, arrestato e incarcerato al XXI Reggimento a Spezia, dove rimase prigioniero, nonostante i tanti tentativi di liberarlo, fino al 23 aprile 1945. “Walter” riuscì, il 16 dicembre, a ricostituire formalmente la “Muccini”, con sei Distaccamenti. La “Muccini” di “Walter”, pur numericamente esigua e senza aiuti da nessuno, fu molto attiva. Il 2 aprile morì in combattimento la prima donna: Amanda Lidia Lalli “Kira”, figlia di un esponente socialista, che era entrata nella Brigata, inizialmente, come infermiera. Le brigate nere sarzanesi effettuarono una feroce rappresaglia il 10 aprile, fucilando otto antifascisti. Nella notte “Walter”, con dodici uomini, scese a Sarzana e fece saltare con la dinamite la caserma fortificata delle brigate nere: quelle superstiti, prese dal panico, abbandonarono la città. La “Muccini” ebbe anche una forte capacità di stabilire buoni rapporti con la popolazione: per esempio provvide, tramite un muratore, al restauro della scuola di Canepari, già sede della Brigata, e poi alla ripresa delle lezioni con il pagamento dello stipendio all’insegnante. “Walter” e i suoi uomini furono protagonisti, infine, della liberazione di Fosdinovo e di Sarzana, il 23 aprile, prima degli Alleati. La “Muccini” fu raggiunta dai partigiani che avevano passato il fronte: nella piazza di Sarzana ci fu l’abbraccio tra Bertone e Galantini, che sanzionava l’impegno comune degli antifascisti sarzanesi.

A Santo Stefano Magra, il 25 aprile, arrivarono i partigiani e gli Alleati. Il “Gruppo ‘Tullio’”, nell’imminenza della Liberazione, aveva combattuto contro i tedeschi nei pressi di Podenzana. “Tullio”, che era tornato in Val di Magra con la “Special Force” alleata, aveva ucciso spie fasciste. Gli Alleati lo avevano criticato e gli avevano chiesto di rientrare a Firenze. Leggiamo la “Storia della Brigata garibaldina ‘Ugo Muccini’” di Giulivo Ricci:
“Erano i giorni della Liberazione.
‘Tullio’ si recò a S. Stefano, suo paese, e vi trovò il maggiore Mac Intosh della ‘Special Force’ con un’autoblindo.
La popolazione in festa salutava i partigiani.
Mac Intosh non obiettò nulla alle affermazioni di ‘Tullio’ di essere pronto a subire un processo, per non aver obbedito all’ordine della ‘Special force’ di rientrare a Firenze, purché fatto alla presenza dei suoi uomini, che ben conoscevano com’egli avesse agito e in quali condizioni vivesse la sua famiglia.
‘Tullio’, al termine della sua attività partigiana, non fece proposte di decorazione né per sé né per i suoi uomini e, negli anni successivi, ammise di aver commesso errori ma ritenne di aver, per essi, sufficientemente pagato”.

Tra chi restò in Val di Magra ci fu anche chi continuò una guerra individuale, fino alla Liberazione, come Nello Masetti “Carlin”, che aveva fatto parte del Distaccamento “Cheirasco”. Morì il 21 aprile 1945, pochi giorni prima della Liberazione.
Leggiamo la pagina dedicata a “Carlin” da Lido Galletto in “La lunga estate”:
“Nei giorni e nei mesi successivi, fino alla fine della guerra, ‘Carlin’ e ‘Nino’, Bruno Brizzi, i due ‘Ribelli’, restano nella Val d’Isolone a continuare la guerra partigiana, superano, con lo slancio della fede nella riscossa, difficoltà infinite, affrontano in solitudine l’arroganza fascista nel territorio ormai sgombro da formazioni partigiane, combattono i tedeschi che transitano nella zona.
Una notte, nei primi giorni del mese di aprile, ‘Carlin’ attacca da solo un intero plotone di truppe tedesche in transito sul greto dell’Isolone, fra il Mulino di Pippo e la sua casa, rafficando con il suo inseparabile mitra la colonna che aveva osato calpestare la sua terra.
Nella fase finale della guerra e con il fronte già in movimento, attacca postazioni tedesche nella bassa Val d’Isolone, uccide chi non si arrende, come una furia vendicatrice.
Il 20 aprile, ‘Carlin’ e il cognato Renato Rossi prendono prigionieri sei soldati tedeschi, consegnandoli agli americani.
Nella mattina del 21 aprile trascina due soldati tedeschi, presi prigionieri, nella sede del comando in una compagnia della 92a divisione della 5a armata americana, installata in un casolare della Colombiera.
In questa circostanza gli ufficiali americani gli chiedono di guidare una loro pattuglia per snidare i tedeschi che ancora resistono a Paterna, sulle colline tra Sarzanello e Caniparola.
E proprio in questo ultimo attacco resterà ucciso da una raffica di ‘Mauser’, in pieno petto.
Unitamente a ‘Carlin’, in quel combattimento, vennero uccisi alcuni soldati americani.
I corpi dei caduti rimasero sul terreno i giorni 21 e 22 aprile; la mattina del 23, gli americani bombardarono con i mortai intensamente la zona, distruggendo le postazioni tedesche.
‘Carlin’ il ribelle sarà l’ultimo a morire del gruppo partigiano nato in Val d’Isolone. Dodici suoi compagni lo avevano preceduto.
Le sue lunghe gambe continuano nella notte e nel silenzio del giorno a percorrere sentieri, a scavalcare dossi, a lambire i torrenti della Val d’Isolone, la sua terra che ha tanto amato”.

Tra il novembre del ’44 e l’aprile del ’45 ci furono dunque altre, inaudite, sofferenze. Pensiamo, sul Monte Gottero, al rastrellamento più grande e terribile: quello del 20 gennaio 1945. Ma i partigiani non si arresero mai. Venne il 25 aprile. I partigiani scesero dalle valli e liberarono le città e i paesi. A Spezia, a Sarzana, a Santo Stefano.
Come poté accadere? Accadde perché la Resistenza, e la nostra in particolare, fu un grande moto popolare. Tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche ai contadini delle valli. E decisive furono le donne. Se gli operai, a partire dal grande sciopero del marzo 1944, diedero alla Resistenza il tratto della lotta di classe, le manifestazioni di assistenza che videro protagonista il mondo delle campagne introdussero nella nostra vicenda resistenziale un tratto più ampio di quello della lotta di classe. Tutti gli strati sociali parteciparono: non è vero che il popolo fu scoraggiato e silente. La Resistenza fu una guerra popolare perché il popolo -anche le donne, che sono coloro che più aborrono le guerre- ne comprese il significato e diede tutto se stesso nella lotta per la sopravvivenza -perché anche di questo si trattò- e per la vittoria. I partigiani dei nostri monti sopravvissero nei durissimi inverni 1943-44 e 1944-45 soprattutto grazie alle famiglie contadine e alle coraggiose donne di queste valli, che li ospitarono e li sfamarono per mesi. Ecco perché in questa giornata dobbiamo ricordare non solo lo scontro bellico ma anche la corposità e l’intensità della Resistenza non armata; non solo i partigiani in armi, ma anche le donne, gli operai, i contadini, i ragazzi.
Alla radice di tutta la Resistenza, armata e civile, c’è la scelta morale: per il bene contro il male, per la vita intesa come cammino non solo individuale ma anche collettivo, per la libertà contro la dittatura.
E’ una scelta che ci spetta ancora oggi, in un mondo così diverso da quello di allora.
Siamo di fronte alla reinvenzione di un fatto vecchio, dunque modernissimo e insidioso: il fascismo è passato all’azione. Ma sa sempre di se stesso: di violenza e di intimidazione. Il fascismo si nutre sempre delle stesse cose: della superficialità dei complici, della pavidità dei guardiani, dell’indifferenza di tutti gli altri. Dobbiamo opporgli una barriera civile, pacifica, democratica. Il prossimo anno sarà il centenario del fascismo. Battiamoci perché sia l’anno della sua definitiva espulsione da ogni dimensione legittima del nostro Paese.

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