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100 anni+1… La vita e la storia del comandante Facio

a cura di in data 17 Agosto 2021 – 21:06

Parco Fiera Barbarasco
18 luglio 2021
Relazione di GIORGIO PAGANO
Co presidente del Comitato Unitario Provinciale della Resistenza della Spezia

Ringrazio i compagni di ANPI Tresana per aver intitolato la loro Sezione a Dante Castellucci “Facio”. Il ricordo ha bisogno anche di segni: un monumento, come ad Adelano, una targa, come al Lago Santo, una intitolazione… Ancora molto altro dobbiamo fare per “Facio”.
E’ sostanzialmente chiaro -ne ha parlato Luca Madrignani- perché “Facio” fu ucciso dai suoi compagni. Pesò certamente l’ambizione smisurata di Antonio Cabrelli “Salvatore”, ma le motivazioni politico-militari furono le principali: il Comando partigiano di quella che poi sarà la IV Zona operativa doveva essere riorganizzato e, al suo interno, il PCI doveva avere una forte formazione garibaldina. “Facio” -comandante di un Battaglione, il “Picelli”, dipendente da Parma- era un ostacolo a questo disegno.
Così come sono chiare le responsabilità: i comunisti spezzini del comando militare del CLN, Renato Jacopini, Luciano Scotti, Luciano Albertini, oltre a Cabrelli. Un gruppo dirigente palesemente inadeguato a risolvere un problema reale: tant’è che lo fece con un crimine. La sentenza fu emessa in nome del Partito Comunista, nel silenzio di tutti gli altri, che in sostanza lasciarono fare quel gruppo: il cattolico Achille Pellizzari si limitò ad allontanarsi dal luogo del delitto, l’azionista Giulio Bertonelli siglò con il comunista Anelito Barontini, pochi giorni dopo la morte di “Facio”, l’accordo sul nuovo Comando e sulla sua dirigenza (Cabrelli ne divenne il commissario politico).
Ci restano molte cose da fare. Non solo preservare il ricordo. “Facio” vive. Tra pochi giorni saremo come ogni anno in tanti ad Adelano nell’anniversario della morte. “Facio” è, insieme a Piero Borrotzu “tenente Piero”, una della due leggende della Resistenza nella IV Zona. E le leggende non muoiono mai. Dovremo, anche e soprattutto, continuare a chiedere allo Stato la restituzione della falsa medaglia d’argento e l’assegnazione di una nuova medaglia d’oro per “Facio” e gli altri eroi della battaglia del Lago Santo.
La democrazia – e la Resistenza- sono forti se hanno memoria di tutto il loro passato: anche delle ombre, anche delle parti più sgradevoli.
In sostanza quello che ci resta da fare è raccontare testardamente la storia della Resistenza, degli uomini e delle donne che l’hanno vissuta. Come ha scritto la storica Chiara Colombini:

“Alla logica che stipa il discorso pubblico sulla guerra partigiana di crimini e pagine oscure, non basta reagire con quella uguale e contraria che contrappone di volta in volta atti di eroismo e pagine edificanti. […] Forse è più produttivo rifiutare quel terreno di gioco, recuperare complessità, dare profondità storica e concretezza alla distanza che ci separa da quegli anni, riconducendo gli eventi ai problemi di fondo della storia della Resistenza, provando a calarsi nella realtà dura e drammatica ma anche piena di speranza e generosità di quei venti mesi tra il 1943 e il 1945 che tanto hanno significato per la storia di questo Paese.”

Dobbiamo dunque raccontare senza reticenze la storia di “Facio” e di chi lo uccise. Ricordando che anche i partigiani erano umani, e che nell’uomo c’è anche il male, c’è anche la spietatezza. Ribadendo che tra i partigiani e nella Resistenza prevalgono di gran lunga le luci. E che, grazie ai partigiani e alla Resistenza, abbiamo conquistato la democrazia, la Repubblica, la Costituzione: le nostre risorse nell’Italia e nel mondo difficile di oggi.
Sapendo, tuttavia, che la storia si fa anche con i se. Che la sostanza sperimentale e aperta del ricercare e dell’interpretare storiografico sta nella capacità di collocarsi dentro la trama di eventi storici sempre indecisi, ancorché apparentemente definiti; e di fotografare, anche in negativo, quello che veramente è accaduto “nella realtà dura e drammatica” di quei venti mesi confrontandolo con le ulteriori possibilità che non si sono verificate. Per nuove congetture fondate, mai dando per scontato o per fatale l’accaduto. Sapendo che c’è una memoria dei vinti che ci parla ancora.
Dobbiamo domandarci: se “Facio” non fosse stato vinto, ucciso, la Resistenza sarebbe stata migliore e più forte?
La risposta è netta: sarebbe stata migliore e più forte, perché avrebbe avuto più marcato il segno della fratellanza.
La fratellanza è un concetto chiave nei momenti cruciali della storia. Nasce da un’esperienza personale di responsabilità e ci conduce alla comunità. E’ la sintesi tra la libertà e l’eguaglianza.
Anche i comunisti più “ortodossi”, in fondo, lo riconoscevano. Leggiamo il bellissimo discorso di Giorgio Amendola al funerale di una partigiana tanto legata a “Facio”, Lucia Sarzi:

“C’è tutto un collegamento di ricordi politici, familiari e umani in questa nostra grande famiglia, in cui l’incontro politico non è mai soltanto incontro politico. E’ incontro tra uomini e donne che sentono che c’è una solidarietà umana, in cui si creano valori, si crea fraternità”.

Che cosa fu la fratellanza nel “Picelli”?
Leggiamo due testimonianze raccolte nel mio libro “Eppur bisogna ardir”.

La prima è di Nello Quartieri, “Italiano”, che racconta l’incontro, mentre saliva ai monti, a Cervara e da lì alle cascine di Nola, con il primo partigiano, Luciano Gianello, uno degli eroi della battaglia del Lago Santo: “bevve del vino dal nostro fiasco, ma si pentì subito per non averlo diviso con i suoi compagni”. Gianello lo condusse nel Picelli”. “Italiano” ricorda la povertà dell’equipaggiamento e dell’armamento della formazione, ma anche il clima di fraternità che si viveva al suo interno. “Facio” era il garante dell’assoluta eguaglianza di condizione tra tutti i partigiani: “tutto veniva diviso in parti eguali, dal cibo alle sigarette, dal vino agli abiti”.

La seconda è di un altro partigiano del “Picelli”, Umberto Bellavigna “William”:

“Dopo le azioni militari, la sera, quando possibile, ci si riuniva tutti intorno al fuoco e iniziavamo a cantare canzoni partigiane, mentre a turno uno di noi faceva la guardia. Avevamo un bravissimo cuoco: una volta spezzatino di pecora, una volta pattona, e a volte si saltava proprio. In quelle serate i nostri comandanti ci mettevano a conoscenza dei fatti e ci parlavano dei nostri doveri e impegni per il dopoguerra. ‘Facio’ ci addestrò alle nozioni fondamentali della guerriglia, a dare l’esempio, a portare rispetto agli uomini, ad avere cura delle cose della montagna. ‘Italiano’ e ‘Facio’ dividevano tutto con noi, eravamo tutti eguali”.

Così un altro compagno di “Facio”, Luigi Sau, ha raccontato, in un suo memoriale, la vita nel “Picelli”:

“Essa era qualcosa che si avvicinava alla misticità, qualcosa che sapeva di un ordine religioso, ricca di cose spirituali, misera di cose materiali. Tutto si svolgeva cronometricamente; tutto in essa aveva quella sfumatura che faceva pensare alle cose organizzate. Ed era così bello il sentirsi nell’ambito di una vera e propria famiglia, dove ogni ambizione interessata cessava di esistere, per lasciar adito ai provvedimenti di carattere collettivo, per il bene di tutti, in generale, che non è possibile la possa dimenticare chi l’ha vissuta da vicino. Tutto in essa bisognava dividere, le fatiche, i disagi, il giaciglio, il cibo, le gioie, i dolori, le pene ed i pericoli. Il motto: ‘Tutti per uno e uno per tutti’ era sacro’”.

Enrico Gatti “Musiari”, ispettore della XII Brigata Garibaldi parmense, così relazionò, il 7 maggio 1944, sul distaccamento “Picelli”:

“Profondo spirito d’osservazione, acutezza d’ingegno, intelligenza brillante, coraggio permettono al ‘Facio’ di essere un ottimo comandante militare. Egli infatti pondera la situazione e ne osserva minutamente i particolari in modo celere e ne trae conseguenze che gli permettono di preparare piani ottimi. Gode la stima di tutti gli uomini ed è ottimo e buon compagno con tutti gli elementi del distaccamento e nello stesso tempo è capace di far sentire la disciplina. […] La popolazione della zona. per quel poco che io ho potuto accertare, trema ed è felice all’udire pronunciare il nome ‘Facio’ e lo riguarda quasi come un eroe di leggenda”.

Il quadro delineato dai compagni di “Facio” ci è stato restituito anche da Spartaco Capogreco e da Luca Madrignani nei loro libri recenti. E, ancor prima, da Giulivo Ricci e da Giacomo Vietti nei loro libri pionieristici (rispettivamente del 1978 e del 1980). Scrisse Ricci:

“La morte di ‘Facio’ fu il prezzo pagato [alla creazione di un comando di Zona e all’unificazione delle formazioni partigiane spezzine], ma quella morte fu pianta da molti degli uomini suoi, quelli a lui più affezionati; fu vista con raccapriccio e sgomento dagli altri. Di altri, quasi tutti giovanissimi ancora, scavò, come una lama, nel fondo della coscienza, facendo riemergere la consapevolezza della perdurante condizione primitiva dell’uomo. Anche nell’impresa più santa, da condursi insieme a compimento, l’irriducibile individualità umana, indispensabile contributo di ogni opera comune, aveva lasciato la sua orma.
A distanza, purificatesi le passioni, gli amori come gli odi, nel filtro del tempo, la figura di Dante Castellucci ‘Facio’, medaglia d’argento al valor militare, s’impone come quella di un comandante partigiano capace, leale, profondamente impegnato nella lotta antifascista, valoroso, audace, amato dalla maggioranza dei suoi uomini e dalle popolazioni.
Molti di coloro che gli furono più vicini, nel comando dei distaccamenti e nelle squadre, ritengono sia ormai giunto il tempo di affermare che, a proposito del processo a ‘Facio’, non soltanto di una ‘sentenza giacobina’ si deve parlare, ma di un grave errore politico e di un giudizio profondamente errato, che se hanno portato alla morte di un uomo, non impediscono di fissarne l’immagine nel quadro degli eroi della Resistenza”.

Leggiamo un passo del libro di Vietti:

“Certamente nella figura di ‘Facio’ si racchiudono le caratteristiche dell’epoca eroica che ha vissuto: quella del ribellismo. Nei brevi mesi in cui emerge la sua figura tragica di eroe popolare, proprio la sua prontezza, la sua vivacità che gli fa sfuggire quattro volte la morte, è quella che genera sospetti. Il suo coraggio, la sua generosità, la sia innocenza sarà quello che lo perderà, suscitando invidie e gelosie fino ad avvolgerlo ina una torbida trama”.

E’ nota la critica del gruppo dirigente del PCI in città, a firma del Segretario della Federazione Antonio Borgatti “Silvio”, a quello in montagna per l’uccisione di “Facio”. Qualche giorno dopo, in una lettera del 1° agosto 1944, Borgatti rincarò la dose:

“[…] Fare sparire tutte le grane, tutti gli antagonismi, esibizionisti, educare le formazioni alla lotta e l’esempio deve venire dai Capi, da coloro che avendo funzioni di comando e di guida devono dimostrare che la fiducia a loro accordata è pienamente maturata.
Vi lamentate della mancanza di quadri [il riferimento è a una lettera di Antonio Cabrelli]. Ma questi si formano nella lotta ed emergono nelle battaglie. Sono le stesse formazioni che li devono eleggere così che il più meritevole avrà il posto che gli compete.
Questa è vera democrazia. I compagni, i partigiani nominati ad una funzione di comando devono restare attaccati alla loro formazione, viverne la vita, spezzare il pane con loro e il pezzo più piccolo dovrà essere sempre di chi comanda. Non si fumano le sigarette senza prima averle spartite e non si invitano nemmeno per ischerzo i partigiani ad andare a raccogliere le cicche sotto la tavola. Qui mi riattacco alla lettera di Salvatore per quel che riguarda il luogo di mensa al Comando di Divisione.
Gli eserciti borghesi fascisti, sia pure a scopo demagogico, hanno introdotto il rancio unico come già esisteva in Russia fin dalla nascita dell’Esercito Rosso e questo per avvicinare quanto più è possibile il semplice combattente a chi ha funzioni di comando.
Ora è evidente che in un esercito di volontari dove tutti gli aderenti si trovano di fronte al CLN che li rappresentano politicamente nella più completa parità di diritti e doveri, l’esistenza di mense staccate è paradossale, è un assurdo inconcepibile, possibile soltanto in un ambiente quale quello della I Divisione Liguria, dove la maggior parte dei comandanti si sono autoproclamati tali o sono stati inviati dai CLN dove lo spirito partigiano è poco sentito anche dalle formazioni per mancanza di educazione politica in conseguenza del ventennio di dominazione fascista, per il mancato funzionamento dei nostri nuclei di partito perché in sostanza i partigiani sanissimi nel loro insieme mancano di quella coesione sociale che solo il senso di una larga democrazia può dare.
E’ chiaro che se nelle formazioni si avesse il senso di cui sopra si manderebbe a quel paese tutti i comandi grossi e piccini per sostituirli con gente delle formazioni forse meno qualificate, certamente meno titolate ma sicuramente più vicine al popolo perché parte integrante di esso.
Condizioni particolari consigliano ecc. ecc. una mensa separata e sia, però sarebbe opportuno che il Comando di Divisione non fosse prossimo ad altre formazioni e che a dette mense partecipasse tutto il personale del Comando, dai piantoni, al Comitato di Liberazione Nazionale, dai porta ordini al comandante di Divisione, e sarebbe necessario che fra il rancio del Comando e quello delle formazioni non ci fosse divario e che questa uguaglianza del rancio fosse risaputa da tutti. Se fosse possibile indirizzare la questione mensa in questa direzione sarebbe molto bene e la coesione delle formazioni ne avrebbe grande vantaggio. Democratizzare tutto e soprattutto l’esercito della democrazia”.

La critica di Borgatti, un “ortodosso” che certo non può essere tacciato di ribellismo, al gruppo dirigente del PCI ai monti è dura e sferzante, ed è all’insegna di uno spirito partigiano molto vicino a quello di “Facio”. Davvero poteva “andare diversamente”.
Leggendo la storia di “Facio” vengono in mente i fratelli Cervi. Viene in mente Aldo Cervi “Gino”, a cui “Facio” fu strettamente legato, in quella Reggio in cui ebbe la sua prima condanna a morte da parte dei compagni.
C’è, nello spirito originario contadino dei Cervi, un’anima insieme libertaria e socialista. L’intreccio tra il loro bisogno di terra e di libertà e la Rivoluzione d’ottobre. Il socialismo o comunismo dal basso e non dall’alto.
E’ la stessa anima di “Facio”. Fu vinta -anche se ne furono in qualche modo partecipi, come abbiamo visto, esponenti del comunismo “ortodosso”-, ma se avesse prevalso la Resistenza sarebbe stata ancora più forte.
E, forse e in generale, il socialismo e il comunismo, se non avessero perduto quest’anima, non sarebbero scomparsi dalla storia.
Un altro tema accomuna Dante Castellucci e Aldo Cervi: l’ineluttabilità del sacrificio.
Aldo diceva che bisognava essere pronti al sacrificio supremo. I Cervi, emarginati dal partito, sembravano quasi non fare nulla o quasi per scongiurare il pericolo che correvano, e di cui erano consapevoli.
Dante accettò il sacrificio.
Leggiamo il racconto di Laura Seghettini, la sua compagna:

“Sono arrivata ad Adelano nel cuore della notte, mentre lo stavano processando. Lui non si difendeva, sembrava vivere uno stato d’animo a metà tra la fierezza, la dignità e la depressione. Non aveva paura. Forse aveva già deciso di accettare la morte”.

E’ anche questa tragicità che ci parla ancora.
Fratellanza, libertà ed eguaglianza, tragicità del sacrificio: la memoria del passato è una spinta vitale e creativa all’impegno e alla lotta.
Grazie comandante “Facio”. Ora e sempre Resistenza!

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