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Un referendum contro l’austerity e le parole che non creano posti di lavoro

a cura di in data 3 Luglio 2014 – 12:12
Lunigiana, il fiume Magra a Filattiera (2014) (foto Giorgio Pagano)

Lunigiana, il fiume Magra a Filattiera (2014)
(foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 29 Giugno 2014 – Le elezioni europee hanno sancito il fallimento dell’austerity, che ha fatto aumentare i disoccupati e ha prodotto nuovi poveri alimentando rabbia e disperazione nella maggior parte dei Paesi dell’Euro. L’Europa liberal-conservatrice classica, quella del Partito Popolare Europeo, ha subito una sconfitta generalizzata: è evidente che applicando le sterili ricette rigoriste di questi anni si arretra. Ma anche i partiti del Partito Socialista Europeo sono stati sconfitti, in modo particolare dove governano (Francia, Paesi Bassi, Danimarca, Finlandia, Austria), perché appiattiti sulla politica dell’austerity e incapaci di imprimere un mutamento degno della propria funzione storica. Emblematico il tracollo di Francoise Hollande in Francia: avrebbe potuto fare infinitamente di più, non averlo fatto lo ha ridotto al 14%, a guardare il Front National svettare a primo partito. Le forze nazionaliste e populiste di destra sono infatti molto cresciute (sono prime anche in Danimarca e governano in Norvegia), anche se al di sotto delle clamorose previsioni della vigilia. Sono cresciuti, inoltre, i gruppi fortemente critici dell’austerity favorevoli a un’altra Europa federale e solidale (Sinistra Europea e Verdi). Nell’ambito del Partito Socialista Europeo una sola forza ha avuto successo: il Pd di Matteo Renzi. E’ un risultato che consegna al Pd di Matteo Renzi (lo chiamo così perché il “vecchio” Pd non esiste più, è ormai nata una “cosa” del tutto nuova) un ruolo: dato che è l’unico partito della “grande intesa” tra Pse e Ppe ad aver vinto, non può sfuggire alla necessità di cambiare le politiche europee di austerity, che sono state sconfitte dal voto. L’Europa si trova davanti a un bivio: o diventa uno Stato realmente federale e adotta politiche espansive con l’obiettivo della piena occupazione, oppure le forze antieuropeiste sono destinate a crescere, mettendo a rischio la sopravvivenza della moneta unica. In questo momento così importante e drammatico Renzi, se lo volesse, avrebbe il capitale politico per dare una sterzata, o quantomeno per provarci.

Va detto, invece, che le vicende di questi giorni sono state molto deludenti. Il Consiglio Europeo ha infatti nominato Presidente della Commissione il popolare Jean-Claude Junker, e le politiche messe in campo sono purtroppo in continuità con quelle degli anni recenti. L’austerity non è stata battuta, e Angela Merkel continua a dettare l’agenda. La frase “il buon uso della flessibilità”, inserita nel documento finale del vertice europeo, appare soltanto come una cura omeopatica e non indica una ricetta alternativa, davvero orientata al “lavoro” e alla “crescita”. Le parole “lavoro” e “crescita” occupano oggi una posizione dominante nel dibattito pubblico europeo, ma si tratta solo di una “riverniciata”: nulla di nuovo appare sul tavolo. L’architettura monetaria e fiscale iper-restrittiva tenuta finora non è messa in discussione. La ricetta è la solita di sempre: competitività, riduzione dei costi del lavoro, flessibilità del lavoro. Quella che conosciamo da oltre vent’anni e che i posti di lavoro li ha ridotti, non creati.

Come stiano davvero le cose lo ha rivelato Federico Fubini su Repubblica del 28 giugno: “i documenti ufficiali dicono che sul proprio specifico piano di finanza pubblica il Governo Renzi non ha ottenuto la flessibilità che chiedeva”. Il Ministro Pier Carlo Padoan ha chiesto che l’Italia rallentasse il piano di risanamento di bilancio, raggiungendo il pareggio nel 2016, anziché, come concordato in precedenza in Europa, nel 2015. Non è un dettaglio: con lo slittamento di un anno la manovra governativa d’autunno potrebbe essere meno pesante. Senza, “la manovra rischia di profilarsi come un’operazione da circa 25 miliardi”. Ma, spiega Fubini, la proposta del Governo è stata per ora respinta: “addirittura i leader, incluso Renzi, hanno dato la loro approvazione a un documento ufficiale che raccomanda all’Italia di fare l’opposto di ciò che aveva chiesto: il pareggio già l’anno prossimo, non nel 2016”. Nessun passo in avanti, quindi. Il sentiero di Renzi è iniziato in salita, e non sarà facile ribaltare gli equilibri.

Anche perché la sterzata di cui c’è bisogno dovrebbe rimettere in discussione le regole su cui si fonda il regime di austerity, non solo i tempi della loro applicazione. Finora Renzi, invece, ha aderito a queste regole, proponendo solo interventi di natura cosmetica, senza il necessario ripensamento radicale di tutta l’architettura dell’unione monetaria. A parole afferma che bisogna battere i sacerdoti dell’austerity per ridare speranza e futuro all’Europa: ma non è conseguente, perché non dice che bisogna rivedere i Trattati europei, partendo dal cuore del problema: il Fiscal Compact, che obbliga al pareggio di bilancio. Ecco, allora, la necessità di un impegno dal basso, dei cittadini. Un folto gruppo di docenti universitari ed economisti ha individuato una strada: quattro referendum per eliminare le disposizioni che obbligano Governo e Parlamento a fissare obbiettivi di bilancio gravosissimi. La campagna, riassunta nello slogan “Stop all’austerità. Sì alla crescita, sì all’Europa del lavoro e di un nuovo sviluppo”, prevede tra il 3 luglio e il 30 settembre la raccolta delle 500.000 firme necessarie per celebrare il voto popolare nella primavera 2015 (sui quesiti referendari, le sue ragioni e sui promotori: http://www.riccardorealfonzo.it/2014/06/referendum-stop-allausterita-conferenza.html).

Lunigiana, il fiume Magra a Filattiera (2014) (foto Giorgio Pagano)

Lunigiana, il fiume Magra a Filattiera (2014)
(foto Giorgio Pagano)

Più che le parole ci servono atti come il referendum, e proposte come il New Deal europeo, ovvero un grande piano per investimenti per lo sviluppo sostenibile. Se le risorse, in attesa del superamento del Fiscal Compact, non ci sono ancora a livello nazionale, a livello europeo ci sono già. Il New Deal dovrebbe tenersi alla larga dalle grandi opere, per concentrarsi invece su infrastrutture urbane e interurbane, dalle strade ai trasporti urbani e regionali, sulla riconversione ecologica degli edifici, sul riassetto idrogeologico, sull’istruzione e la ricerca. Si creerebbero milioni di posti di lavoro, si aumenterebbe la capacità di domanda dei consumatori, si rilancerebbero anche gli investimenti privati. E’ un’idea che necessita di grande coraggio, ma che è più realistica dell’idea che la ripresa dell’economia europea possa realizzarsi rosicchiando alcuni margini su bilanci spompati.

lucidellacitta2011@gmail.com

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