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Tullio, eroe e fuorilegge

a cura di in data 24 Giugno 2015 – 08:12
Ponzano Superiore  (2008)  (foto Giorgio Pagano)

Ponzano Superiore
(2008) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 21 giugno 2015 – Il settantesimo della Liberazione deve essere l’occasione, a mio parere, anche per riflettere sulla figura di Primo Battistini “Tullio”, il comandante partigiano al contempo più lodato (dai suoi uomini) e più criticato (dagli uomini delle altre formazioni). Insomma, la personalità più controversa della Resistenza spezzina. A Liberazione avvenuta, nell’agosto 1945, la relazione del Comitato Federale del Pci spezzino, a proposito della situazione politica e organizzativa delle formazioni partigiane dopo il rastrellamento del 3 agosto 1944, recita: “Unica macchia nera, la presenza del comandante Tullio che, già messo fuori legge, fu, per un errore di valutazione personale del compagno Perpiglia, reintegrato nel comando di un distaccamento, che poi divenne battaglione”. Grazie all’amico Mario “Celè” Grassi, che è stato il mio intermediario con i figli di “Tullio”, ho potuto leggere le sue memorie. Un testo avvincente come un romanzo, che meriterebbe di essere pubblicato. Le ultime righe fanno esplicito riferimento alla relazione del Comitato Federale del Pci: “Qui finisce la storia di Battistini Primo ‘Tullio’, l’unica macchia nera (le due parole sono sottolineate nel testo, ndr) della Resistenza spezzina, come qualcuno molto opportunamente ha amato definirmi. E’ certo comunque che se errori ho compiuto, questi non sono da addebitarsi alla mia vita di partigiano, di convinto antifascista; saranno semmai errori che ho fatto in seguito e per i quali, penso, già sin troppo ho pagato”. “Tullio” si riferisce alle rapine di cui fu protagonista nel dopoguerra, per cui trascorse diversi anni in carcere. Le memorie proseguono e si concludono così: “Non ho parole di rancore verso i miei vecchi nemici: certo è che tra me e chi, nel passato regime, ha oppresso, sfruttato e seviziato il popolo italiano, non vi potrà mai essere dialogo di alcun tipo. Non ho rancore per coloro che si sono voluti attribuire azioni che solo la originaria ‘Brigata Vanni’, il ‘Battaglione Signanini’ e il gruppo sabotatori ‘Special Force’ hanno compiuto; e sono tanti. Non ho, infine, rancore neanche per coloro che, ex partigiani, hanno voluto diffamare la mia persona come comandante partigiano. Con tutti costoro so, come partigiano, di avere la coscienza a posto; come a posto hanno la coscienza…”. Seguono i nomi di battaglia di decine di partigiani che gli furono sempre fedeli.

DA CAPRIGLIOLA AD ADELANO

Primo Battistini era di Ponzano Magra, di famiglia operaia. Il padre Amedeo, “Ardito del Popolo” e difensore di Sarzana nel luglio 1921, fu dirigente della sezione anarchica di Sarzana. Durante il fascismo si recava al lavoro alla Ceramica Vaccari accompagnato dalla cugina, che nascondeva nel seno una pistola che gli consegnava non appena entrato in fabbrica, in caso di sorprese da parte dei fascisti. Cito questo particolare perché fa subito capire in quale ambiente crebbe Primo Battistini. Fin da ragazzo rifiutò di aderire al fascismo, fu ferito a una gamba da un colpo di pistola, e dovette, impossibilitato a trovare lavoro per l’ostilità dei fascisti, imbarcarsi come mozzo, e poi come cuoco, nella marina mercantile. Per il suo senso di giustizia e la sua indisponibilità ai compromessi, fu congedato come elemento pericoloso e indesiderabile. Era l’agosto 1943. Subito dopo l’8 settembre Battistini, con un gruppo di santostefanesi, diede vita a una delle prime bande della Resistenza spezzina, sul monte Grosso, sopra Caprigliola. Qui incontrò gli antifascisti “politici”, i comunisti sarzanesi che erano stati al confino e in carcere durante il fascismo, da Anelito Barontini “Rolando” a Paolino Ranieri “Andrea”. Nel gennaio del ’44 i fascisti misero una taglia sulla testa di Battistini, che aveva ferito a morte un fascista a Ponzano Superiore; ci fu un rastrellamento e la banda si spostò a Cà Trambacco, in Comune di Tresana. I sarzanesi si spostarono verso il parmense, i santostefanesi rimasero in zona, ed elessero Battistini, che allora aveva come nome di battaglia “Tenente” o “Tenente Medico”, loro comandante. Da Cà Trambacco si trasferirono poi alle Prede Bianche, nel Calicese. Per una spiata il gruppo fu fatto prigioniero dai fascisti e dai tedeschi. Il racconto di come Battistini scampò la morte spiega bene il suo coraggio: “Quasi tre ore rimanemmo con le mani in alto, fermi, in mezzo alla nebbia e al freddo pungente. Nella mia mente cercavo una via di scampo. Ad un tratto mi ricordai che mi era rimasta in tasca una sigaretta. Chiesi all’ufficiale più vicino se ci permetteva di fumarla: egli acconsentì e me la accese. Avevo vicino Angelo Tasso, che avvertii del mio piano: mentre ci si passava la sigaretta veniva contemporaneamente trasmesso il piano d’azione. Quando mi ripassano la sigaretta per l’ultima tirata, secondo quanto stabilito, colpisco con tutte le mie forze, col capo, il tedesco che mi sta di fronte e lo faccio ruzzolare a terra… Mentre tutti cercavamo di scappare, i tedeschi si riebbero e lanciarono le bombe a mano”. Un partigiano fu ucciso sul colpo, tre furono subito ripresi e uccisi poi in carcere a Genova, Primo e altri tre riuscirono a mettersi in salvo. Qualche giorno dopo Primo fece prigioniera la spia e la uccise nello stesso luogo dove erano stati catturati. Battistini conobbe anche Piero Borrotzu e il gruppo vezzanese, fino all’ordine del Cln di trasferirsi a Valmozzola, nella formazione di Mario Betti, nella quale fu eletto comandante. Battistini, che da questo momento assunse come nome di battaglia “Tullio”, ideò il famoso “assalto al treno”, che rappresentò un momento di grande importanza per il movimento partigiano parmense e spezzino. Nel testo racconta anche come morì Mario Betti e perché i partigiani non poterono raccogliere il suo corpo (“Tullio” fu sospettato anche per la morte di Betti). E come furono uccisi dai partigiani i nove fascisti fatti prigionieri: “Arrivati vicino al Taro mi rivolsi ai nove, dicendo loro che da quel momento dovevano proseguire la strada da soli, avendo noi altre incombenze. Li invitai a salutarci col pugno chiuso e gridando ‘Viva il comunismo e i partigiani!’. Mentre ci salutavano in tal modo, senza che avessero modo di accorgersene, furono uccisi. A causa dell’assalto al treno e del successivo rastrellamento non dormivo da quattro o cinque giorni…”. La banda si spostò poi a Bardi, con Enzo Saccani, che era stato con i fratelli Cervi, commissario politico, fino a quando Battistini fu contattato dal Cln spezzino perché si spostasse a Bolano, per comandare una formazione. Nel frattempo, racconta, Ranieri propose di dividere in due il gruppo, uno al comando di Flavio Bertone “Walter”, uno al comando di “Tullio”. I rapporti con i sarzanesi, si capisce dal testo, furono sempre tesi. Giulivo Ricci, nella sua “Storia della Brigata garibaldina Ugo Muccini”, servendosi delle testimonianze dei sarzanesi e dello stesso “Tullio”, descrive bene queste tensioni, su cui “Tullio”, nelle memorie, a volte sorvola (per esempio Ricci scrive che, per una fase, Saccani fu nominato comandante al posto di “Tullio”). Comunque “Tullio”, come detto, doveva spostarsi a Bolano; da lì, dopo aver prelevato soldi e beni alimentari prima a un podestà e poi a un oste fascisti, giunse ad Adelano di Zeri, per comandare il Battaglione “Signanini”, poi chiamato “Vanni”, composto in poco tempo da 400 uomini, divisi in sette distaccamenti, e da 40 muli. Erano i primi di giugno del ’44.

IL GIUDIZIO DEGLI SPEZZINI E DEI SARZANESI SU “TULLIO”

Prima di andare avanti nella nostra storia, è bene cercare di fare luce sulle tensioni tra “Tullio” e il gruppo dei comunisti spezzini e sarzanesi. Ricci, riferendosi al periodo autunno ’43-inverno ’44, tratteggia un contesto in cui si desta la “perplessità” degli spezzini e dei sarzanesi, o almeno di una parte di essi, verso “Tullio”. Battistini, scrive Ricci, era “senz’altro un uomo di coraggio, dotato di intuito e di astuzia, ma incline -così almeno sembrava- per la sua formazione e il suo temperamento, a prendere decisioni personali, ad assentarsi dal gruppo senza darne conto agli uomini, ad assumere atteggiamenti talora altezzosi, ad indossare indumenti e calzature talora più vistosi di quelli degli altri compagni” (sul vestito “Tullio” si fregiava dell’emblema vistoso della falce e del martello, ndr). Ricci così prosegue: “Quello di ‘Tullio’ era un temperamento istintivo, così come istintivo era il suo antifascismo. Tutta la sua vita precedente di ribelle e di insofferente, la sua formazione anarcoide e protestataria, derivatagli da un ambiente familiare e locale antifascista ma non evolutosi in forme culturali e organizzative, il suo carattere ombroso e sospettoso, quasi un sentimento di rancore che gli ribolliva dentro per le ingiustizie patite da lui e dalla sua famiglia nel passato più lontano e in quello più recente, e nel presente; tutto ciò, insomma, lo portava a una condotta piuttosto individualistica della lotta, a una severità estrema verso chiunque fosse sospettato di essere compromesso col regime fascista, a una sottovalutazione dei problemi ideologici, civili e politici, all’esaltazione del lato militare della guerriglia, soprattutto negli aspetti specifici del colpo di mano e del sabotaggio, al di là di un disegno generale entro il quale inquadrare momenti, forme, strutture, rapporti e obbiettivi, civili, politici, guerreschi della formazione. La sua figura appariva, così, piena di ascendente a chi riteneva che dovesse essere privilegiato il momento militare puro, quasi un’avventura pericolosa e meravigliosa a un tempo; e questo spiega il fascino e l’ascendente indubbiamente esercitati da ‘Tullio’ almeno fino al 3 agosto 1944 o, anche, al 29 novembre 1944, sui giovani, specie su quelli, pure generosi e schietti, che non possedevano, come i più, preparazione politica, né erano inclini a perseguirla. Per converso, i più adulti, e i giovani più politicamente orientati, ovvero più sensibili ai problemi sociali e ideologici, pur apprezzando i lati positivi della personalità di lui, non apparivano disposti a condividere un giudizio completamente favorevole sopra la sua condotta di comandante”. Il problema, a inizio ’44, era solo embrionale. Vediamo di capire perché esplose in seguito. Anche se abbiamo, per molti episodi, due “verità”: quella raccontata da “Tullio” e quella raccontata da altri testimoni.

Ponzano superiore   (2015)  (foto Giorgio Pagano)

Ponzano superiore
(2015) (foto Giorgio Pagano)

“TULLIO” E “FACIO”

Nella zona del Battaglione “Signanini”, poi “Vanni”, operavano anche la formazione giellista comandata da Vero Del Carpio “il Boia”, la garibaldina “Gramsci” comandata da Silvio Mari “Silvio” e la garibaldina “Picelli” comandata da Dante Castellucci “Facio”. C’era il Comando di Divisione, con il colonnello Fontana. E i dirigenti comunisti, tra cui Giovanni Albertini “Luciano”, che divenne il commissario politico della brigata di “Tullio”. I rapporti tra “Tullio” e il Comando precipitarono subito. Battistini racconta che un giorno venne a sapere che “tutti quei comandanti e commissari, fatta eccezione per ‘Facio’, ‘Silvio’ e ‘il Boia’, si erano organizzati nella loro mensa, ricca ogni giorno di ogni ben di Dio. Io non ne sapevo nulla, di questa mensa per comandanti, e rimasi sorpreso e irritato, pensando a quanta fame noi pativamo, mentre quelli se la spassavano… Entrai con il mitra in braccio mentre stavano cominciando a mangiare l’antipasto. ‘Buon appetito!’, dissi ironicamente e aggiunsi: ‘Noi ci sfamiamo a fatica con qualche patata, cercando di risparmiare al massimo anche per non gravare sulla popolazione, e voi fate pranzi da gran signori!’. Così dicendo, con un gesto di rabbia e di disprezzo strappai la tovaglia dal tavolo e feci cadere tutto per terra. Apostrofai anche qualcuno di loro con queste parole: ‘Bravo! Questo è il Comunismo!”; poi, rivolto a tutti: ‘E ora, tutti su al mio Comando di Brigata, all’assemblea. Dieci capisquadra e cinque comandanti di distaccamento ci stanno aspettando’. Nell’assemblea gli uomini, appena furono messi al corrente del fatto, li investirono con ogni sorta di improperi e di contumelie. Se la legarono al dito e da quel momento la loro avversione nei miei confronti non conobbe momenti di pausa”. “Tullio” racconta anche di quando disobbedì al colonnello Fontana e a Antonio Cabrelli “Salvatore”, che avevano chiesto che i partigiani del “Signanini” si togliessero dal collo i fazzoletti rossi: i due vennero fischiati dagli uomini di “Tullio”, che venne chiamato da Fontana e consegnato. “Ma non potevano attaccarmi apertamente -scrive Battistini- perché, con le continue azioni di guerra che compivo, riuscivo ad accattivarmi i consensi dei partigiani, dei miei uomini in particolare”. Ricordo vecchi partigiani che, pur critici con “Tullio”, mi dicevano: “Pochi conoscevano i sentieri come lui, pochi avevano il suo coraggio”. Tra le azioni più eclatanti di quel periodo, l’attacco alla sottostazione elettrica di Santo Stefano e al ponte a Bettola di Caprigliola, che furono fatti saltare in aria. “Tullio” aveva anche sovvenzioni da parte dell’impresa edile “Nino Ferrari”, che esigeva però “che ci si recasse da lui vestiti in borghese, perché appaltava lavori anche dai tedeschi”. Una sera Primo Ferrari si lamentò con “Tullio” perché aveva mandato uomini in divisa a prendere soldi, spaventando tutti. Battistini si fece dire i nomi, e scoprì che l’avevano fatto a sua insaputa. “Tullio” ricorda questo e altri episodi per rimarcare che le accuse nei suoi confronti erano ingiuste, perché gli venivano addebitati “colpi in bianco” in realtà realizzati da altri.
Il rapporto con “Facio” era, scrive “Tullio”, di sincera amicizia, mentre pessimi erano i rapporti di entrambi con i dirigenti comunisti -Cabrelli, Albertini, Luciano e Nello Scotti, Renato Jacopini- e con Fontana. La versione di “Tullio” del processo a “Facio” è molto diversa da quella degli altri testimoni, soprattutto per quel che riguarda il suo ruolo. Eccone la sintesi: Cabrelli e Albertini si recarono da ”Facio” per chiedergli di presentarsi al Comando di Divisione per fornire le spiegazioni sul famoso “lancio” alleato di cui si era impossessato. Al suo rifiuto, “carpirono la mia buona fede parlando di ‘chiarimenti’ e giammai di ‘processo’… pregandomi di recarmi da lui per chiedergli di presentarsi al Comando della mia Brigata (quindi non più al Comando di Divisione)”. “Facio” e “Tullio” entrarono insieme: “Appena entrati ‘Facio’ venne disarmato a tradimento e percosso a schiaffi e calci da ‘Salvatore’ e ‘Luciano’. Disgustato da quello spettacolo imbracciai il mitra ordinando di cessare quell’incivile atteggiamento… Iniziò a quel punto il processo, che non esiterei a definire una farsa”. Ma “Tullio” fu chiamato fuori dai suoi uomini per un sopralluogo a Bergugliara, e si allontanò senza il “sospetto che ‘Salvatore’ e gli altri volessero la testa di Facio”. Tornò, prosegue, a sentenza di morte già decisa; attaccò “Salvatore” e gli altri, fu costretto a firmare il verbale “per non fare la fine di ‘Facio’”, si rifiutò di comandare il plotone di esecuzione, e la scelta cadde su “Sandro” Garbini. “Gli andai incontro, mi abbracciò e con serenità mi ricordò che non mi riteneva responsabile di quanto stava accadendo; di guardarmi le spalle da certi falsi patrioti; che la sua morte sperava sarebbe servita d’esempio ai compagni e avrebbe insegnato loro che il nemico da battere non era solo quello che combattevamo con le armi giorno per giorno ma anche e soprattutto quello che si poteva annidare nelle nostre fila travestito con i nostri stessi panni”. Questa versione non è condivisa da molti altri testimoni. Nei libri di Ricci, Capogreco e Madrignani dedicati alla vicenda di “Facio”, è “Tullio” che intima a “Facio” di alzare le mani, e gli uomini che accompagnano “Facio” sono bloccati e disarmati da quelli di “Tullio”. Lo testimonia anche il partigiano cattolico sarzanese Franco Franchini, che era presente all’inizio e poi si allontanò. Secondo le testimonianze raccolte in questi testi “Tullio” è presente al processo e ritiene equa la condanna a morte. Così scrive, nelle sue memorie, anche Laura Seghettini, la compagna di “Facio”. Ma va detto che Ricci ha sempre riportato anche la versione di “Tullio”. Il mio amico Cesare Cattani qualche anno fa intervistò Settimio Rossi, che era ad Adelano nell’osteria gestita dalla sorella: dopo la fucilazione, raccontò, gli uomini di “Tullio” cantarono e ballarono tutto il giorno, lanciando in aria “Tullio” e gli altri del Comando. Era Santa Maria Maddalena, patrona di Adelano: c’era la sagra. E Luigi Sau e Terenzio Mori, partigiani del “Picelli” in fuga verso il parmense dopo la morte di “Facio”, raccontano che “Tullio” mandò una squadra in loro caccia. Ha ragione Cesare: sulle pagine di “Tullio” dedicate a “Facio” “varrebbe la pena farci una ricerca specifica e un film”. La mia impressione è che “Tullio” abbia scritto una versione dei fatti un po’ edulcorata, a suo vantaggio; ma anche che “Tullio” non abbia fatto parte del gruppo ristretto che decise il processo e la morte di “Facio”: questo gruppo era molto distante anche da “Tullio”. L’obbiettivo di riorganizzare le bande in un esercito urtava di per sé con le figure dei comandanti carismatici: e tali erano, anche se diversissimi tra loro, sia “Facio” che “Tullio”.

IN UN BORDELLO?

La vera macchia nell’attività partigiana di “Tullio” è, secondo molti, la sua scomparsa durante il grande rastrellamento del 3 agosto 1944. Il Battaglione “Vanni” ebbe quindici morti: venne disperso, e oppose una resistenza non efficace (a parte il IV Distaccamento, comandato da Duilio Lanaro “Sceriffo”). “Tullio” fu punito, accusato di aver trascorso quei giorni in un bordello, per passioni “amorose”. Lo scrisse Giovanni Albertini “Luciano”, nell’indagine fatta per conto del Cln. “Tullio” nega: fu il Comando di Divisione a chiedergli di effettuare un sopralluogo alle batterie tedesche di Pontremoli. Che lui fece insieme a Vincenzo Montani “Freccia” e al cugino Emilio Battistini “Ken”. Fontana e Cabrelli, secondo Tullio, misero in giro la voce falsa dell’appuntamento galante anche se sapevano il motivo della sua assenza, perché erano stati loro a ordinargli la missione: “probabilmente volevano farmi fare la fine di ‘Facio’, ma avevano fatto i loro calcoli senza tener conto della fiducia che riscuotevo presso i miei uomini”. “La tesi di “Tullio” è quella del collegamento tra i due episodi: il processo a “Facio” era stato fatto nel Comando della sua Brigata per poter dare a lui la responsabilità; e il Comando di Divisione non poteva non sapere del rastrellamento quando gli ordinò il sopralluogo a Pontremoli. Scrive: “Il dubbio che all’interno nostro ci fosse qualche infiltrato (Cabrelli?) si fece strada in me”. Per questo radunò 80 uomini e tornò nella sua zona d’origine, alle Lame di Aulla. Era stato destituito dal comando del Battaglione “Vanni”: come provvedimento punitivo non fu poi granché… Ricci ipotizza che qualcuno avrà forse temuto che, punendolo più severamente, “Tullio” avrebbe potuto decidere di “svelare eventuali retroscena del caso ‘Facio’”.

IL BATTAGLONE “SIGNANINI” E LA “SPECIAL FORCE”

Alle Lame di Aulla il gruppo si ingrossò, fino a comprendere 200 uomini. “Tullio” diventò il comandante del Battaglione “Signanini”, ma i rapporti con il Comando di Divisione erano ormai deteriorati. Per controllare “Tullio” fu inviato il dirigente comunista Pietro Perpiglia, che a mano a mano cominciò a stimare “Tullio” (e per questo, come abbiamo ricordato, fu criticato nel dopoguerra). Quando il “Signanini” entrò a far parte della Brigata “Muccini”, fu Perpiglia a battersi perché “Tullio” diventasse comandante di un Distaccamento. Il “Signanini” fece molte azioni valorose, e “governò” per un certo periodo Ponzano Superiore, che divenne la sede del Comune di Santo Stefano, con un Sindaco eletto. I partigiani costruirono anche un forno e un’officina. Con “Tullio” c’erano anche una ventina di russi, “certamente i compagni di lotta più fedeli ardimentosi”. Ma i rapporti con il Comando di Brigata e con i sarzanesi furono sempre tesi. Fino al grande rastrellamento del 29 novembre 1944, che scompaginò la Brigata, nonostante la resistenza di un’intera giornata. “Tullio”, con il comandante Piero Galantini “Federico”, passò le linee e giunse in zona alleata. “Tullio” riuscì a tornare nella sua zona, incorporato come sabotatore nella “Special Force”. Fu, quello di “Tullio”, l’unico gruppo di partigiani ai quali gli Alleati concessero di rientrare: perché, scrive lui, era “l’unico gruppo che si era distinto in azione”. Probabilmente l’accreditamento di “Tullio” avvenne anche grazie a Gordon Lett, il maggiore inglese del “Battaglione Internazionale”. I contrasti tra “Tulllio”, il Comando di Divisione e il Comando della “Muccini” proseguirono fino alla Liberazione, tanto più che “Tullio” ora era diventato “autonomo”. Il 25 aprile 1945 “Tullio” scese a Santo Stefano, dove “la popolazione si era fatta incontro festeggiandomi e porgendomi fiori”. Questo affetto ci dice che “Tullio”, che pure commise molti errori, in fondo impersonava la gente santostefanese. I suoi uomini rimasero sempre fedeli e compatti, senza secessioni e diserzioni: il segno che i santostefanesi volevano esprimere autonomamente la propria identità. Senza questo spirito di “campanile” non si spiega fino in fondo la forza e il fascino, nonostante tutto, del comandante “Tullio”.

IL DOPOGUERRA

Alla fine della guerra “Tullio” fu riconosciuto ufficialmente come partigiano combattente, ma la sua condizione di “fuorilegge” rispetto alla Resistenza ufficiale non fu dimenticata e l’ex comandante non fu accettato nell’Anpi e nel Pci. Negli anni successivi Battistini fu sospettato per un omicidio di un fascista e della moglie a Santo Stefano Magra (più tardi fu prosciolto per mancanza di prove) e soprattutto fu implicato in una serie di rapine che riempirono le pagine di cronaca locale dei principali quotidiani. Le memorie di “Tullio” si fermano al 25 aprile 1945. E’ possibile ricostruire la sua vicenda nel dopoguerra grazie alle ricerche dell’amico Maurizio Fiorillo, giovane storico locale, che sta lavorando alla storia del Battaglione “Vanni” (dopo aver scritto l’ottimo “Uomini alla macchia”, libro utilissimo per comprendere la vicenda complessiva della nostra Resistenza).
I banditi capitanati da “Tullio”, nel complesso poco meno di una decina, sempre mascherati durante i colpi, armati di mitra e dotati di automobili e di motociclette, erano segnalati a Podenzana, a Mulazzo, a Caprigliola, a Licciana, ad Aulla, ad Arcola, in breve in tutta la valle della Magra e con maggior frequenza nella Lunigiana interna toscana. Venivano spesso colpite le macchine in transito sulla statale della Cisa e anche l’ingegner Piaggio, di ritorno da Parma, rischiò di essere rapinato dalla banda: solo la prontezza del suo autista che non si fermò alle intimazioni dei banditi lo salvò.
Altre volte a fare le spese dei banditi erano intere famiglie che venivano rapinate all’interno delle proprie case e lasciate legate. E’ curioso che, ancora nel 1948, i rapinatori si facessero a volte aprire le porte delle case dicendo di essere partigiani in cerca di armi e di fascisti. Altre volte venivano usati più “tradizionali” travestimenti da poliziotti o da Guardie di Finanza. Il ricavato delle rapine non era altissimo e spesso erano rubati anche oggetti di uso comune e di poco conto come pentolame, abiti, biancheria. Secondo i giornali la rapina più riuscita, avvenuta nel gennaio 1948 in una casa a Podenzana, fruttò ai membri della banda 165.000 lire e diversi orologi di valore. La banda aveva comunque anche altre “fonti di finanziamento”, dato che alcuni dei suoi membri avevano iniziato una attività di produzione e di spaccio di monete false che, con centro a Sarzana, si estendeva in tutta la valle.
E’ stato affermato che Battistini compisse le sue rapine per finanziare una futura guerriglia rivoluzionaria, ma di questo non esiste nessuna prova; inoltre i membri della sua banda avevano in molti casi dei precedenti per reati comuni.
Nel 1948 le forze dell’ordine erano ormai sulle tracce della banda e dopo alcuni arresti effettuati in Lunigiana, nel giugno di quell’anno lo stesso “Tullio” fu catturato a Genova mentre cercava di imbarcarsi come cuoco su una nave in procinto di partire verso il Sudamerica. Il processo per quella che i giornali chiamarono la “banda di Tullio” avvenne a Massa nell’aprile del 1951 e fu seguito da giornalisti e da un pubblico foltissimo. Il dibattimento dimostrò che “Tullio” non aveva partecipato a molte delle rapine che gli erano imputate e che spesso i membri della sua banda avevano agito autonomamente. Lo stesso Battistini dichiarò di essere accusato di molti più crimini di quelli che aveva effettivamente commesso e, dopo aver confessato alcune rapine e la detenzione di una pistola, affermò: “Sono qui per rispondere dei delitti compiuti, non di quelli che mi vogliono addebitare”. La difesa cercò anche di mostrare come gli imputati fossero “il prodotto di un’epoca, della guerra e del dopoguerra” e chiese comprensione alla corte. Il 27 aprile 1951 fu letta la sentenza: Battistini fu condannato a 15 anni di prigione, una pena di poco superiore a quella dei suoi principali complici.

Per una migliore comprensione delle vicende narrate in questo articolo rimando ad altri articoli della rubrica:
“Il giovane William e il tragico duello tra Facio e Salvatore”, 22 febbraio e 1° marzo 2015
“Il Battaglione Vanni, una storia ancora da raccontare”, 15 marzo 2015
“Il caso Facio e le domande ancora senza risposta”, 5 aprile 2015
“La brigata dei sarzanesi”, 19 aprile e 26 aprile 2015

lucidellacitta2011@gmail.com

Mentre i lettori leggeranno questo articolo sarò a Sao Tomè e Principe, uno Stato africano composto da due piccole isole all’altezza dell’Equatore, per seguire il Piano di Sviluppo Sostenibile e Inclusivo della regione di Lembà e il Piano di Ordinamento Territoriale di Neves, la città capoluogo. Fino a ottobre, d’intesa con la direzione di Città della Spezia, la rubrica “Luci della città” sarà sospesa. Al suo posto, ogni domenica, i lettori interessati troveranno il “Diario do centro do mundo”.

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