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Terremoto, che fare con la nostra splendida terra ballerina

a cura di in data 8 Settembre 2016 – 15:35
La Spezia, veduta da Campiglia - 2014 - Foto Giorgio Pagano

La Spezia, veduta da Campiglia – 2014 – Foto Giorgio Pagano

Città della Spezia 4 settembre 2016 – La grande opera che serve all’Italia.

Il terremoto che ha devastato il centro Italia ha colpito tutti gli italiani, e li ha spinti, come sempre, a grandi slanci di generosità e solidarietà. Ma al Paese, e in primis alla sua classe dirigente, mancano memoria e strategia lungimirante. Gli stessi borghi distrutti dal terremoto dei giorni scorsi avevano subito la stessa catastrofe nel 1639 e in modo meno grave nel 1703. E tutta la zona appenninica è notoriamente  a rischio sismico: abbiamo avuto mediamente un terremoto grave ogni dieci anni. Eppure si è costruito ugualmente, nelle zone sismiche, come nulla fosse.
La vera, grande sfida che ci sta davanti è dunque rifare l’Italia in modo antisismico. Perché, se non investiamo in quest’opera, i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi.

Sull’onda dell’emozione suscitata dal disastro dell’Aquila, una legge del 2009 previde che fossero finanziati interventi in tutto il territorio nazionale. Peccato che l’erogazione fosse di un miliardo in setteanni. La Protezione Civile commentò così: “Solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario”.Nel 2016 stiamo spendendo la cifra irrisoria di 44 milioni. E non perché manchino i soldi: lo Sblocca Italia varato dal Governo Renzi ha assegnato 3,9 miliardi in cinque anni alle grandi opere. La svolta da fare è questa: convincerci che la messa in sicurezza del territorio, dai terremoti e dalle alluvioni, è l’unica grande opera davvero sensata. Che avrebbe un enorme impatto positivo sull’economia e sull’occupazione, senza distruggere, ma una volta tanto risanando il corpo dell’Italia.

Serve un approccio complessivo, che sappia tenere insieme le politiche urbanistiche, una diversa pianificazione dell’uso del suolo, la realizzazione di interventi per la tenuta statica degli edifici pubblici e privati, l’organizzazione di sistemi locali di protezione civile e la crescita di consapevolezza da parte dei cittadini.

Renzi ha ragione quando afferma che bisogna ricostruire i centri devastati dov’erano e com’erano, salvo  che per le misure antisismiche. E’ una strategia alternativa al drammatico errore di Berlusconi e Bertolaso all’Aquila:una sorta di deportazione di massa nelle new towns, in realtà un’unica no town, senza la dignità della convivenza civile. Ma ora servono risorse. Si può fare tantissimo, anche nei vecchi borghi appenninici, con case costruite prima dell’esistenza del cemento armato, ammassate una sull’altra: la tecnica, infatti, mette a disposizione mezzi e strumenti per rinforzare in funzione antisismica anche vecchissimi fabbricati fatiscenti.

Renzi ha quindi torto quando dice che “la pretesa di tenere sotto controllo la natura è miope e persino assurda” e che l’idea del rischio zero è “iper razionalista”. Eppure a Tokyo è un obbiettivo fissato per le Olimpiadi del 2020: mettere in sicurezza, con tecnologie ingegneristiche di avanguardia, il 90% delle strade e il 95% delle case.

Il crollo del modello di sviluppo italiano

Quanto è accaduto è la risultante di tanti fattori ben noti: l’abbandono delle aree interne a favore dello sviluppo costiero, la subordinazione delle politiche di risanamentoai vincoli della spesa pubblica e in ogni caso la priorità data alle grandi opere,lo svuotamento delle autonomie locali a favore del neocentralismo, l’intreccio tra politica e affari. Sono le tante facce di un unico fenomeno: il modello di sviluppo italiano. Le macerie sono il crollo di questo modello.

Mi soffermo soltanto su un punto: la disgregazione e lo spopolamento dell’Italia delle montagne e delle colline. E’ un processo che costituisce una perdita economica e sociale gigantesca, già oggi e ancora di più per il futuro. La ricchezza dell’Italia non si esaurisce nell’industria e nella finanza: alla fine tutto dipende dalla salute del territorio.

Spiaggia di Punta Corvo - 2014 - Foto Giorgio Pagano

Spiaggia di Punta Corvo – 2014 – Foto Giorgio Pagano

In questi giorni, in televisione, passano tanti volti di un’Italia vera, di persone semplici che faticano ogni giorno per costruirsi una prospettiva di vita. Che esercitano mestieri che la retorica imperante ci dice che non esistono più o sono marginali. Come se potessimo fare a meno dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’artigianato. Come se queste vocazioni, insieme alla cultura, al turismo “lento” e alle energie rinnovabili, non costituissero gli assi del nuovo modello di sviluppo nelle aree interne del Paese.

Bisogna allora ricostruire non solo i luoghi fisici, ma anche la comunità dispersa, il che è più difficile ancora.

Nel progetto di ricostruzione dovrebbero entrare tutte le storie raccontate dai vecchi abitanti, le consuetudini e i saperi locali, le attività produttive che garantivano l’economia: insomma, tutto ciò che chiamiamo “tradizione”. Così come le nuove economie del futuro, dall’applicazione delle norme sismiche al risanamento idrogeologico, dalla cultura al turismo responsabile  e sostenibile. E gli abitanti dovrebbero ridiventare protagonisti delle loro storie partecipando al progetto di ricostruzione. Guai ad escluderli: costruiremmo paesi fantasma. Ha ragione Alejandro Aravena, l’architetto cileno famoso per aver fatto risorgereConstitucion con case pronte a metà, lasciando agli abitanti il compito di completarle: “partiamo dai cittadini, con la partecipazione, per ricostruire la comunità”.

Post scriptum:
Dal giugno 2015 le fotografie pubblicate in questa rubrica sono state scattate in Africa, a Sao Tomè e Principe.
Dal settembre 2016 ritornano le fotografie dedicate, essenzialmente, al nostro territorio

lucidellacitta2011@gmail.com

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