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Ricominciare, dopo la catastrofe

a cura di in data 20 Giugno 2017 – 21:00
Il Tino e la Palmaria da Tramonti    (2013)    (foto Giorgio Pagano)

Il Tino e la Palmaria da Tramonti
(2013) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 18 giugno 2017

L’ASTENSIONE: LA GOCCIA CHE ERODE LA DEMOCRAZIA
Il risultato delle elezioni comunali spezzine dell’11 giugno fa riflettere innanzitutto su un dato: la conferma dell’astensione del 45% degli elettori, già verificatasi cinque anni fa. Alla radice c’è quella che Marco Valbruzzi definisce la “politica incolore”, “fatta da partiti che hanno perso identità e capacità di mobilitazione… partiti ideologicamente indistinguibili e programmaticamente sempre più convergenti” (“Il Manifesto”, 14 giugno 2017). Non è detto che debba essere per forza così. Per esempio nelle elezioni politiche in Gran Bretagna dell’8 giugno scorso la partecipazione al voto è stata molto più alta rispetto alle elezioni precedenti, perché Jeremy Corbyn è stato in grado di appassionare e di aumentare il consenso al suo partito, grazie a una politica chiara e di inversione di rotta radicale. La vera autocritica delle formazioni civiche e di sinistra che, frammentate e divise tra loro, hanno partecipato alle elezioni spezzine deve essere questa: non aver saputo parlare -anche per non essersi unite- innanzitutto al popolo che non vota più. Le elezioni hanno registrato il crollo del Pd e di quello che rimane del centrosinistra spezzino: dal 52,5% (20.048 voti) del 2012 al 25,07% (10.137 voti) di oggi. La destra è di gran lunga la prima forza: in cinque anni è cresciuta dal 15,8% (5897 voti) al 32,61% (13.187 voti). Ma, se guardiamo al risultato delle elezioni regionali del 2015 nella nostra città, il Pd e il centrosinistra, già allora diviso, subiscono un’ulteriore disfatta (Raffaella Paita, pur perdendo una marea di voti, ne prese 12.357, pari al 33,74%); mentre la destra aumenta sì i suoi voti, ma non di molto: Giovanni Toti ne prese 11.620, il 31,98%. E’ quello che Marco Tarchi definisce “un bipolarismo zoppo, che si alimenta esclusivamente dei guai e degli errori degli avversari” (“La Repubblica”, 14 giugno 2017). Non ci sono segnali, in Italia, di una riscossa della destra basata su programmi e leadership particolarmente galvanizzanti. Anche la vittoria di Peracchini è innanzitutto la sconfitta del Pd (di Federici in particolare, e del socialista Manfredini, che è stato visto come il suo erede). Tanto è vero che l’astensione resta al 45%. La scelta di non partecipare al voto -che assai probabilmente caratterizzerà ancor di più il ballottaggio di domenica prossima- è un segno di grave crisi democratica e di distacco verso la politica. Il non voto non fa rumore e non suscita scalpore, ma, come scrive Valbruzzi, “è come la goccia che scava la roccia in modo silenzioso un passo alla volta”. Chi è interessato soltanto alla propria carriera personale non vede né la goccia dell’astensione né la roccia, erosa, della nostra democrazia.

UNO SCIAME DI INSETTI CIECHI
La verità è che la grande maggioranza degli elettori è andata a votare in grande solitudine, sapendo di non appartenere a niente e a nessuno. Mancano le grandi forze in cui identificarsi. Come ha scritto Franco Arminio: “In Italia in questo momento non esiste nessuna sinistra, nessun centro e nessuna destra. La politica è uno sciame di insetti ciechi che vagano nell’aria. Ed è chiaro che i singoli insetti non sono uguali, ci sono miserie e nobiltà, ma sono, appunto, connotazioni individuali. Quella che è per ora perduta senza alcun dubbio è la dimensione collettiva, che dovrebbe essere la condizione essenziale della politica” (“Il Fatto Quotidiano”, 14 giugno 2017). Da questo “rito di autismo corale” si può uscire innanzitutto con la capacità della politica di ascoltare. Nello “Zarathustra” Friedrich Nietzsche presenta i contemporanei come uomini dotati di un enorme orecchio che non sente più nulla. E’ vero, i politici parlano molto, troppo, e ascoltano poco o quasi mai. Ma ascoltare è solo il primo passo: poi bisogna interpretare, dare voce, far partecipare la società che soffre e cerca una dimensione collettiva della propria vita. Una società di persone che vogliono esserci, da attori e non da spettatori. Solo così eviteremo l’erosione della roccia.

NON E’ VERO CHE E’ TORNATO IL BIPOLARISMO
Molti commentatori, dopo il risultato, hanno scritto che è tornato il bipolarismo destra-sinistra. Non è così. Né la cosiddetta destra né la cosiddetta sinistra -il Pd- superano mai (o quasi mai) il 40% al primo turno. Il quadro è frastagliatissimo. A Spezia, come abbiamo visto, Peracchini e Manfredini sono al 33% e al 25%. Il M5S paga i candidati deboli, l’assenza di tradizioni e di basi organizzative, lo scarso radicamento nei territori: tutti fenomeni particolarmente evidenti nella nostra città. Paga anche gravi errori politici, per cercare di “star dietro” agli umori di un elettorato molto diversificato. Insomma, non è facile passare da movimento antipolitico a partito strutturato. Ma è presto per parlare di una sua crisi: se si fosse votato per le politiche ce ne saremmo accorti. Il problema è il Pd, come ha ben spiegato Luca Ricolfi: “Se il ceto politico del Pd fosse colto e integerrimo come fino agli anni settanta lo era stato buona parte di quello del Pci, Grillo sarebbe al 10%. E lo scontro politico sarebbe ancora tra destra e sinistra” (“Il Fatto Quotidiano”, 9 giugno 2017). La realtà è impietosa: in queste elezioni il M5S ha fatto crac, ma i voti che ha perso non hanno gonfiato le vele del Pd. Meno che mai a Spezia, dove pure i grillini sono riusciti a far peggio non solo rispetto al 2015 ma addirittura al 2012: Donatella Del Turco ha ottenuto 3.562 voti (8,80%), Alice Salvatore nel 2015 prese 8.071 voti (22,21%), Ivan Merenda nel 2012 4.368 voti (10,70%).

LA DESTRA E’ IN CAMPO: CONTRADDIZIONI E VITALITA’
Il risultato elettorale ha comunque mostrato che lo scontro finale non riguarda solo Pd e Cinquestelle, come dicevano Renzi e Grillo, ma che la destra è ancora in campo. Se antagonista del Pd è la destra, il Pd entra in difficoltà: non ha i necessari alleati (ora cerca disperatamente la sinistra, dopo averla cacciata dappertutto, a Spezia, come a Sarzana o a Lerici: ma che può mai aspettarsi?!?) e non sa come evitare che il M5S appoggi la destra in ostilità al Pd. Tuttavia questa destra che è in campo è piena di contraddizioni. Tra Forza Italia e Lega ci sono frizioni su tutto, dall’immigrazione all’economia. Toti è riuscito in Liguria a fare un matrimonio di convenienza, sostanzialmente subalterno alla Lega. Ma la “linea Toti”, oltre a non essere facilmente trasferibile a livello nazionale, fino a quando potrà reggere a livello locale? Anche in Regione ha ormai il fiato corto: è spesso nel giusto quando critica la gestione precedente di Claudio Burlando, ma questo non basta più. Bisogna governare, e i risultati non si vedono. Prima o poi le frizioni verranno a galla.
Anche a Spezia, se la destra governerà. Ma intanto ha la vitalità di chi vede che il potere si avvicina. E, in questo “sciame di insetti ciechi”, tra i candidati più votati a destra c’è Patrizia Saccone, che ha fatto l’assessore di Federici fino a ieri. Mentre Giulio Guerri, che politicamente nacque nel Pd e nell’Anpi, si accorda con Peracchini nel nome dell’ostilità al Pd. Del resto, lo stesso Peracchini viene in qualche modo dal centrosinistra. Alla fine c’è da interrogarsi sull’eternità di Silvio Berlusconi, grazie agli errori dei suoi avversari e al consenso largo che i suoi peccati hanno nel nostro Paese.

La Spezia, tramonto da Campiglia    (2011)    (foto Giorgio Pagano)

La Spezia, tramonto da Campiglia
(2011) (foto Giorgio Pagano)

LA CATASTROFE DEL PD
Peracchini vince su Manfredini in tutta la città, in centro come nei quartieri popolari, a parte il Favaro. E’ la catastrofe del Pd. La lontananza del Sindaco e della Giunta uscenti dai cittadini e la perdita di una visione della città come destino comune di chi la abita sono all’origine della catastrofe. Un anno e mezzo fa così risposi a una domanda di un giornalista: “A Spezia un ‘impero’ sta volgendo al tramonto. Dopo la Regione tocca al Comune. La maggioranza dei cittadini dà un giudizio negativo su come governa il Pd. Che cosa accadrà dopo l’’impero’ non lo so. Può vincere la destra, come in Regione. Ma non governerà certo meglio. L’alternativa è una coalizione civica, aperta a tutti, a partire da chi non vota più. Un’alleanza tra cittadini, diversi ma uniti, capace di riprendere in mano il destino della propria comunità e il filo delle passate esperienze di governo basate su un’idea di città e sulla partecipazione” (“A Spezia ‘impero’ del Pd al tramonto”, “Il Secolo XIX”, 29 dicembre 2015, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com). Da allora è stata una continua discesa agli inferi. Naturalmente la catastrofe ha radici ancora più lontane. Stanno nella storia di questi anni. Spezia era una città industriale, con una forte classe operaia e una sinistra solidaristica, niente affatto “ideologica” (nel senso deteriore del termine, perché un sistema di idee bisogna averlo). C’era un sentimento comunitario, il senso di un interesse comune, sociale. Se i miei due mandati da Sindaco hanno avuto un senso, è stato proprio quello di cercare sempre di tener vivo e/o di far rivivere questa coesione sociale. Ma poi la politica comunitaria si è a mano a mano ridotta, e il partito della sinistra, diventato Pd, si è trasformato in un partito di potere, un ricettacolo autoreferenziale di una corporazione trasversale di potere cementata da logiche “da Casta”. Tanti si sono allontanati -io fui tra i primi- appena nacque il Pd: migliaia di persone che non votano più o votano i Cinque Stelle per protesta.

ORLANDO E IL SENSO DI UNA STORIA
Nella manifestazione di chiusura della campagna elettorale per Manfredini in piazza Mentana il Ministro Andrea Orlando si è richiamato alla storia della sinistra di governo a Spezia: “Una storia che ha visto una progressiva civilizzazione di questa città. Sono molto contento per questo che qui in prima fila ci sia il compagno Aldo Giacchè. Io vorrei ricordare che qui il partito del cemento, quello tanto caro a Toti, non ha mai attecchito… Dobbiamo essere orgogliosi del fatto che in anni in cui la crisi ancora non mordeva, a Spezia si sono costruite reti di servizi, protezione sociale, assistenza all’infanzia. Cose non scontate, basta girare l’Italia per capirlo. Abbiamo saputo proteggere un livello di civiltà che deve renderci orgogliosi. Ricordiamocele adesso che ce l’abbiamo. Non è una questione di questa o quella amministrazione, è la sostanza di uomini e donne che avevano una certa idea di città. La città non è solo un confronto fra sindaco e cittadini: il consenso va ricercato tutti i giorni su tutti i singoli progetti non solo perché è più giusto ma perché le cose che durano sono il frutto delle azioni consapevoli e collettive… Noi giriamo tanto e vi dico che Spezia è una città che non ha subito le crisi industriali come altri luoghi. E nel frattempo Fincantieri ha prospettive, il porto è attivo nonostante le sue vicissitudini, Finmeccanica tiene. E poi il turismo, che non è più una via per allungare lo stipendio, ma un vero e proprio settore da alimentare… Oggi si respira un’altra aria, il centro vive davvero. Ai tempi sembravamo dei pazzi con le aperture serali…” (“Città della Spezia”, 8 giugno 2017). Tutto giusto, anche se la storia non basta e servono idee nuove. Ma chi ha amministrato in questi anni in primo luogo questa storia l’ha sempre rinnegata. Nel silenzio di Orlando. Tralascio l’ormai ridicola narrazione dominante nell’ultimo decennio sugli “anni del bene” e gli “anni del male” (i miei): i cittadini sono stati buoni giudici, allora e oggi. Ma proprio in quei giorni, in cui il quasi novantenne Aldo Giacché, pur con tutti i suoi dubbi, aveva voluto essere in quella piazza, il Sindaco dichiarava, in una conferenza stampa sulle aree militari: “Una serie di risultati così significativi non è mai stata centrata nemmeno nei tanto decantati anni Ottanta”, quelli delle permute dell’Amministrazione guidata da Giacché (“Città della Spezia”, 6 giugno 2017). Ma che bisogno c’era di scavare ancora, fino alla fine, solchi tra sé e gli altri? Il politologo direbbe, come Edmondo Berselli nell’articolo “L’ultima recita dei partiti”, scritto nel cuore della crisi politica del 1991-1992: “Il sistema sembra assoggettarsi senza resistenza a due spinte esattamente opposte, l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di autoannientamento”. In secondo luogo chi ha amministrato in questi anni ha teso a uscire dalla storia della sinistra con l’abbandono della partecipazione, l’azzeramento del senso di comunità, l’evaporazione della politica intesa come discorso pubblico per decisioni condivise. Su questi temi Orlando qualcosa ha detto, ma senza incidere.

L’INVERSIONE DI ROTTA E L’ARTE DI SAPER TRAMONTARE
Dopo la catastrofe, Orlando ha dichiarato al Secolo XIX nazionale: “Costruiamo coalizioni che siano in grado di vincere lo scontro diretto. Ma vanno costruite su elementi programmatici: non basta più l’appello contro la destra, ci vuole un’idea che dia forza al centrosinistra… un progetto forte e innovativo… bisogna riconoscere la richiesta di cambiamento emersa” (13 giugno 2017). Tutto il contrario di appelli che girano e che sono tutti “difensivi”. In questi giorni, però, c’è anche chi parla di “discontinuità”: lo fa lo stesso Manfredini. Va detto che “discontinuità” è un termine ambiguo: suggerisce un’uscita morbida da un percorso rispetto al quale non si rifiuta l’eredità sostanziale. Invece quello che serve è una decisa inversione di rotta, con tutto il gradualismo e il realismo possibili, ma attraverso l’indicazione netta di un itinerario antitetico: partecipazione, apertura al civismo, appropriazione delle scelte collettive da parte della cittadinanza, eguaglianza e nuovo welfare, economia verde e nuovo modello di sviluppo… Qualcosa di travolgente, che non si possa rifiutare, che attragga e trascini con sé, in una dimensione collettiva, quegli elettori “in grande solitudine” di cui scrive Franco Arminio. Qualcosa di natura etica, non solo politica. Vedremo di cosa sarà capace Manfredini, a differenza del passato. Le malattie di questi anni sono difficili da curare. E il tatticismo è mortale in politica. Solo una vera inversione di rotta potrebbe fare il miracolo. Non si tratta di convincere pochi leader politici, sindacali o associativi, ma migliaia di persone sole, arrabbiate, confuse, astensioniste… L’’impero’ è al tramonto. Ma c’è anche un’arte del saper tramontare: consiste nel riscoprire nella propria storia valori e idee che possano valere come transito per un nuovo inizio. Per me il nuovo inizio non è un nuovo centrosinistra, ma una coalizione civica, più “sociale” e “popolare”, e più capace di unire forze diverse di quanto non sia accaduto in questa occasione. Vedremo. L’importante è ricominciare, dopo la catastrofe.

lucidellacitta2011@gmail.com

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